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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo di Rose Ouimet è uno dei momenti più densi e dolorosi de Le cognate. Qui Michel Tremblay mette in scena una verità talmente cruda da diventare quasi insostenibile, ma proprio per questo necessaria. Il monologo di Rose Ouimet arriva come un pugno nello stomaco nel cuore di Le cognate. Non è un semplice sfogo, non è una lamentela: è una radiografia a voce alta di un’intera esistenza compressa tra le aspettative sociali, le convenzioni religiose e il peso insostenibile di un matrimonio non voluto, ma irrevocabile.
Sì la vita è la vita, e non ci sarà mai nessun maledetto film francese che riuscirà a descriverla: Ah! E’ facile per un’attrice far compassione in un film! Lo credo bene. Quando ha finito di lavorare, la sera, se ne torna nella sua reggia da centomila carte, e si sdraia in un letto grande due volte la mia camera!
Ma noialtre, quando ci svegliamo la mattina…(Pausa) Quando io mi sveglio, la mattina, lui è sempre lì che mi guarda… Mi aspetta. Tutte le mattine che Dio comanda, lui si sveglia prima di me, e mi aspetta. E tutte le sere che Dio comanda, va a letto prima di me, e mi aspetta. E’ sempre lì, sempre addosso a me, appiccicato come una sanguisuga! Porca puttana! Questo non lo dicono, nei film, per esempio! E no, son cose che non si dicono, queste! Che una donna è costretta a sopportare un porco per tutta la vita perché ha avuto la disgrazia di dire “sì” una volta, questo non interessa a nessuno! Ma Dio santo, è molto più triste di tanti film! Perché questo continua per tutta la vita!
(Pausa) Me ne sono pentita, eh, se me ne sono pentita! Mai mi dovevo sposare! Dovevo gridare “no” a squarciagola, e rimanere zitella! Almeno adesso me ne stavo in pace! A quell’epoca ero un’ingenua, e non sapevo quello che mi aspettava! Io, scema, pensavo solo alla “Santa Unione del Matrimonio”! Bisogna essere delle bestie per crescere i figli in un’ignoranza simile, bisogna proprio essere delle bestie!
Beh, ma la mia Carmen non si farà fregare così, chiaro? Perché io, alla mia Carmen, è da un pezzo che gliel’ho detto cosa sono, gli uomini! Non potrà dirlo lei che non l’avevo avvertita!(Sul punto di piangere) E non farà la fine mia, a quarantaquattro anni, con un ragazzino di quattro in collo e un porco di marito che non vuol capire niente e che esige il suo debito due volte al giorno, trecentosessantacinque giorni all’anno!
Quando arrivi a quarant’anni e ti accorgi che non hai niente dietro di te e niente davanti a te, ti viene voglia di piantare lì tutto e ricominciare daccapo! Ma le donne, non lo possono fare…Le donne, sono lì incastrate a vita per la gola, e ci resteranno fino alla fine!
“Le cognate” è un testo teatrale scritto da Michel Tremblay nel 1965 e messo in scena per la prima volta nel 1968 a Montréal. È un’opera chiave del teatro canadese francofono, e in particolare del cosiddetto “théâtre québécois”, quel filone che a partire dagli anni ’60 ha cominciato a raccontare la vita e la lingua delle classi popolari del Québec, in particolare la working class femminile. Un teatro crudo, diretto, senza filtri, che rompeva con la tradizione borghese e francofila. La vicenda ruota intorno a Gérmaine Lauzon, una casalinga di Montréal che vince un concorso a premi. In palio ci sono un milione di punti fedeltà, da ritagliare e incollare su libretti per poi ottenere una quantità spropositata di articoli per la casa (elettrodomestici, mobilia, stoviglie, ecc.). Una sorta di pacco di sogni piccolo-borghesi in forma di punti.
Per portare a termine la gigantesca impresa di incollaggio, Gérmaine invita a casa quattordici donne, tra parenti, vicine di casa e amiche. Il titolo Les Belles-Sœurs (tradotto in italiano come Le Cognate, anche se letteralmente significa "le belle sorelle", ossia le parenti del marito) fa riferimento proprio a queste donne: sorelle, cognate, amiche d'infanzia e vicine di pianerottolo. Tutte legate da una rete di apparenze, frustrazioni e giudizi taglienti. Ma quello che dovrebbe essere un momento conviviale si trasforma progressivamente in una lunga serie di confessioni, scontri, pettegolezzi, rancori repressi e gelosie sotterranee.
E mentre incollano i punti, le donne parlano. Parlano tanto. Raccontano le loro vite, i loro desideri mutilati, le loro illusioni, e – soprattutto – i limiti imposti dalla società patriarcale e dalla religione cattolica soffocante del Québec dell’epoca.
La vera trama, al di là della scusa narrativa dei punti, è l’autopsia di un mondo femminile intrappolato: madri, figlie, sorelle, tutte strette in una ragnatela di ruoli sociali soffocanti. Gérmaine sogna una vita migliore grazie ai premi, ma rappresenta una figura chiusa, meschina, che non si accorge della miseria emotiva che la circonda. Le altre donne, invece, la invidiano. Non sopportano che una come lei possa “avere tutto” solo per un colpo di fortuna. Quindi, mentre apparentemente la aiutano, iniziano di nascosto a rubare i suoi punti. Quel gesto – minuscolo e gigantesco allo stesso tempo – è il vero atto rivoluzionario della pièce. Un sabotaggio silenzioso tra donne che si odiano senza mai essersi veramente conosciute.
Tremblay fa un gesto radicale anche sul piano linguistico: “Le cognate” è scritto interamente in joual, il dialetto franco-canadese parlato dalla working class di Montréal. Fino ad allora, il teatro “colto” si esprimeva in un francese elegante e normato. Usare il joual voleva dire dare voce a chi non ne aveva mai avuta, con le parole sporche, storte, vere del quotidiano.
La lingua qui non è solo uno strumento espressivo, ma un gesto politico. Ogni battuta, ogni interruzione, ogni ripetizione restituisce il peso reale del vivere. Queste donne non parlano come attrici, ma come persone vere, schiacciate da una vita sempre uguale, da mariti violenti o assenti, da figli che deludono, da sogni incollati – come i punti – su pagine che nessuno sfoglia.
"Sì la vita è la vita, e non ci sarà mai nessun maledetto film francese che riuscirà a descriverla…" L’attacco di Rose è un atto d’accusa diretto al mondo della rappresentazione. Prendersela con il “film francese” è emblematico: non sta parlando solo di cinema, ma di tutte quelle narrazioni borghesi, raffinate, che illudono e rendono poetico anche il dolore. Tremblay ci dice: qui non c’è poesia, non c’è estetica. Qui c’è la puzza del sudore, c’è la stanchezza. E soprattutto c’è un uomo nel letto che ti aspetta come una minaccia quotidiana. "Tutte le mattine che Dio comanda, lui si sveglia prima di me, e mi aspetta…" Questa è la parte più devastante. La routine, l’automatismo di un rapporto sessuale preteso, imposto, vissuto come obbligo coniugale. Tremblay mette a nudo una realtà taciuta: il corpo femminile non è libero nemmeno dentro casa, nemmeno nel proprio letto. L’uomo non è un compagno, ma una figura ingombrante, che consuma la donna come un diritto acquisito.
"Mai mi dovevo sposare! Dovevo gridare “no” a squarciagola, e rimanere zitella!" Il monologo è anche un atto di pentimento. Rose guarda indietro e vede un errore irreversibile, frutto di un’educazione cattolica repressiva e conformista. L’idea del matrimonio come “Santa Unione” è definita per quello che è: una trappola costruita con il linguaggio dell’amore e della morale. Tremblay, attraverso Rose, accusa il sistema: sono “bestie” – dice – quelli che crescono le figlie nell’ignoranza, che le preparano solo ad accettare, mai a scegliere.
"Ma la mia Carmen non si farà fregare così, chiaro?" E qui il tono cambia per un attimo. Rose, pur devastata dalla sua condizione, cerca una continuità nel cambiamento: la figlia. Carmen diventa simbolo di una possibilità negata a lei, ma ancora salvabile per la prossima generazione. Le ha parlato, l’ha avvertita. Ma non c’è garanzia che servirà. Quel “non potrà dirlo lei che non l’avevo avvertita” è disperato più che rassicurante. "Quando arrivi a quarant’anni e ti accorgi che non hai niente dietro di te e niente davanti a te…" Il monologo si chiude su una nota definitiva. Rose ha coscienza del tempo: non è più giovane, non ha futuro, e il passato è un campo minato di scelte sbagliate. Il suo desiderio di “piantare lì tutto e ricominciare da capo” è annientato subito dalla realtà: "Le donne, non lo possono fare… Le donne sono lì incastrate a vita per la gola…"Una delle frasi più forti di tutto il teatro canadese contemporaneo. Non è solo la storia di Rose, è la storia di una generazione intera. Quella che non ha mai avuto il diritto di ricominciare.
Il monologo di Rose Ouimet è una confessione collettiva in forma di urlo sommesso. Tremblay riesce in un’impresa teatrale potentissima: dare parola al silenzio quotidiano di milioni di donne. Rose non ha una soluzione, non ha riscatto, non ha finale. Ma ha voce. E questa voce, che risuona in un linguaggio basso, quotidiano, e per questo autentico, resta una delle denunce più potenti della condizione femminile del Novecento teatrale.
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