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Articolo a cura di...
~ LA REDAZIONE DI RC
Una bomba pronta ad esplodere. Così viene descritto Carl Morck, protagonista assoluto di Dept. Q, la nuova serie crime di Netflix scritta e diretta (in buona parte) da Scott Frank. Non è un detective come gli altri, e la serie stessa non è un procedural nel senso tradizionale. È piuttosto un noir psicologico travestito da crime investigativo, costruito sulla fragilità umana e sulla rabbia repressa.
Morck (Matthew Goode) è il relitto. È sopravvissuto a una sparatoria devastante che ha ucciso un giovane collega, paralizzato il suo partner Hardy (Jamie Sives) e lasciato lui stesso ferito. Il senso di colpa è la sua seconda pelle. Non parla, sibila. E quando lo fa, è per colpire con sarcasmo o disprezzo. L’esilio forzato in un seminterrato della stazione di polizia di Edimburgo – il famigerato Dipartimento Q – è il suo purgatorio. Gli danno una stanza, una scrivania e una missione di facciata: spulciare vecchi casi irrisolti. Nessuno si aspetta che li risolva davvero. Serve solo tenerlo lontano dai riflettori e dare un contentino all’opinione pubblica. Ma Morck non è il tipo da stare buono. Scava, fiuta, si incattivisce. E soprattutto ricomincia a fare ciò per cui è tagliato: cercare la verità nei punti ciechi del sistema.
Il cuore narrativo della prima stagione ruota attorno al caso di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), avvocata di alto profilo, scomparsa nel nulla quattro anni prima. All’apparenza, un cold case senza uscita: niente corpo, niente movente, niente sospetti solidi. Ma è proprio l’assenza di risposte a risvegliare l’istinto predatorio di Morck.
Attorno a lui prende forma una squadra anomala: Akram Salim (Alexej Manvelov), ex informatore siriano dall’intelligenza quieta e dallo sguardo che scruta dentro; e Rose Dickinson (Leah Byrne), agente fragile e acuta, tornata in servizio dopo un crollo psicologico. Nessuno li ha scelti davvero. Sono i reietti, i falliti, gli scarti. Ed è proprio per questo che funzionano.
Insieme, iniziano a collegare indizi sparsi, a rileggere con occhi nuovi ciò che altri hanno archiviato. Lingard non è solo una vittima. È un nodo, un perno intorno al quale ruotano potere, ambizione e un passato che qualcuno ha voluto cancellare.
La sua psicoterapia forzata con la dottoressa Rachel Irving (Kelly Macdonald) non è una sottotrama di contorno. È un campo di battaglia parallelo, dove Morck combatte contro il silenzio emotivo che lo imprigiona. Le sedute, per quanto brevi, sono momenti di svelamento e collisione. Non c’è redenzione facile: solo resistenza.
Lo stesso vale per i suoi colleghi. Akram è un uomo che ha già vissuto l’inferno della guerra e della burocrazia occidentale. Rose nasconde traumi che affiorano a tratti, senza mai diventare etichette. Ognuno ha una ferita che diventa strumento di lettura del mondo.
Quello che era nato come esilio diventa un laboratorio etico. Il seminterrato ammuffito del Dipartimento Q si trasforma, episodio dopo episodio, in una specie di confessionale laico. I cold case che vengono affrontati non sono semplici puzzle da risolvere. Sono storie congelate nel tempo, che contengono il dolore e l’ingiustizia sedimentati nella società.
Matthew Goode, qui davvero in stato di grazia, porta in scena un personaggio che riesce a essere respingente e magnetico allo stesso tempo. Morck è il classico investigatore geniale che però detesti all’inizio. E poi, lentamente, inizi a capire. Perché la sua rabbia non è gratuita. La sua chiusura emotiva ha radici profonde. E il suo sarcasmo è una forma di sopravvivenza. Non è un crime consolatorio. È una serie che lavora per sottrazione, costruita su silenzi, mezze verità, omissioni. Non offre soluzioni nette, né personaggi rassicuranti. È un racconto di detriti umani che diventano investigatori proprio perché nessun altro lo vuole fare.
Carl Morck: Matthew Goode
Dottoressa Irving: Kelly Macdonald
Silenzio pesante in studio.
Carl Morck: La dottoressa si è rotta il femore giocando a tennis?
Dottoressa Irving: Un incidente in giardino, così mi ha raccontato. Prego, ne prenda una.
Carl Morck: Ho lasciato la racchetta a casa.
Dottoressa Irving: Sono terapeutiche. Stringerle ha un effetto calmante.
Carl Morck: E funziona?
Dottoressa Irving: Provi.
Carl Morck preme la pallina da tennis.
Carl Morck: Mhm…
Dottoressa Irving: La tenga, grazie.
Carl Morck: Non dovrebbe farmi qualche domanda?
Dottoressa Irving: Potrei. Oppure stiamo in silenzio, sono i suoi cinquanta minuti.
Carl Morck: Ero pronto a tuffarmi nei ricordi della mia infanzia infelice.
Dottoressa Irving: Sono molto più interessata alla sua vita adulta infelice.
Carl Morck: Come si sente, Carl?
Dottoressa Irving: Com’è essere colpiti da un proiettile, Carl. Ho sentito dire che è paragonabile da essere punto da cento api nello stesso punto.
Carl Morck: Se le api fossero in fiamma, ti volassero in fiamma al doppio della velocità del suono, allora riuscirebbe a rendere l’idea. Lei non sembra una strizzarcervelli.
Dottoressa Irving: Preferiva avessi la barba?
Carl Morck: Avremmo avuto un argomento.
Dottoressa Irving: Abbiamo già diversi argomenti di cui parlare.
Carl Morck: Non riesco davvero a capire la necessità di tutto questo.
Dottoressa Irving: Non le va di stare qui? Tranquillo. Neanche a me va. Mi fa schifo parlare con i suoi poliziotti.
Carl Morck: Il suo lavoro non sembra piacerle molto.
Dottoressa Irving: Parlerebbe volentieri con se stesso?
Carl Morck: In effetti…. D’accordo. Sono stufo di parlare di quando mi hanno sparato. Mi chieda qualcos’altro.
Dottoressa Irving: Mi dà il permesso?
Carl Morck: Vediamo che piega prende.
Dottoressa Irving: Ho letto nella sua caertella che assume un antidepressivo.
Carl Morck: E’ nella mia cartella.
Dottoressa Irving: Si, fra le altre cose.
Carl Morck: Quali altre cose?
Dottoressa Irving: Ho dato solo un’occhiata veloce. Si sente depresso, Carl?
Carl Morck: Non più del normale.
Dottoressa Irving: Se mi sparassero in faccia mi sentirei depressa, forse. O sarei arrabbiata, forse.
Carl Morck: Io no.
Dottoressa Irving: Va tutto a gonfie vele.
Carl Morck: Per ciò che mi riguarda.
Dottoressa Irving: Quindi non c’è bisogno che le chieda dell’ansia, o dei disturbi del sonno perché ovviamente niente di tutto ciò la riguarda.
Carl Morck: Non ho mai dormito molto.
Dottoressa Irving: Mhm-mhm. Allora questa è solo un’enorme perdita di tempo.
Carl Morck: Beh, sono parole sue, non mie.
Dottoressa Irving si alza e va a sedersi alla scrivania. Tira fuori un panino.
Carl Morck: Ok, capisco perché odia parlare con i poliziotti.
Dottoressa Irving continua a mangiare.
Carl Morck: Sul serio? Si mette a mangiare davanti a me?
Dottoressa Irving: A quest’ora ho la pausa pranzo, ma ho dovuto inserirla. Questo prima di sapere quanto stesse bene.
Carl Morck: Ho detto che la capisco.
Dottoressa Irving: La verità, Carl, è che sarebbe sufficiente un computer a dirle che dopo l’incidente a Leith Park avrà problemi a interagire con gli altri esseri umani, e che a un certo punto potrebbe aver bisogno di aiuto.
Carl Morck: Ho problemi con gli esseri umani da ben prima di quel giorno.
Dottoressa Irving: Si… il complesso di superiorità sembra essere il filo conduttore della sua cartella.
Carl Morck: Quella a cui a malapena ha dato un’occhiata?
Dottoressa Irving: Non ho detto a malapena. Lei è superiore, Carl, alle altre persone?
Carl Morck: Lo standard è basso, non crede?
Dottoressa Irving: Uao…
Dottoressa Irving riprende a mangiare.
In questa scena, Dept. Q – Sezione casi irrisolti ci porta dentro un altro tipo di indagine: quella che Carl è costretto a fare su se stesso. Ma, come sempre nel suo caso, non ci arriva da solo e nemmeno volentieri. Il contesto è quello della terapia obbligatoria, in seguito alla sparatoria di Leith Park. Ma più che una seduta clinica, la scena prende la forma di un duello – verbale, ironico, intimo e disilluso – tra due persone che detestano le dinamiche del proprio ruolo. La dottoressa Irving non è una terapeuta classica. Non è accomodante, non è dolce, e non ha alcuna intenzione di prendersi cura del paziente nel modo in cui Carl si aspetta. E proprio per questo, lo disarma. Il risultato è un dialogo in cui la parola "cura" sparisce, lasciando il posto a uno scambio secco, ironico e pieno di sottotesti.
Il dialogo si apre nel silenzio, già carico di tensione:
Carl: La dottoressa si è rotta il femore giocando a tennis?
Irving: Un incidente in giardino, così mi ha raccontato. Prego, ne prenda una.
Carl inizia con sarcasmo, un suo classico. Irving non si scompone: rilancia con una proposta apparentemente assurda – la pallina da tennis come oggetto terapeutico – che mette Carl subito in una posizione di confusione. Non è preparato a gestire una terapeuta che non reagisce come previsto.
Carl: Ho lasciato la racchetta a casa.
Irving: Sono terapeutiche. Stringerle ha un effetto calmante.
È un teatrino di schermaglie. Carl cerca la fuga attraverso il sarcasmo, ma Irving non si presta. È fredda, diretta, asciutta. E qui arriva il primo ribaltamento interessante:
Irving: Potrei. Oppure stiamo in silenzio, sono i suoi cinquanta minuti.
Non impone la terapia. La ribalta: toglie autorità a se stessa per metterla su Carl. Ed è una mossa sottile ma potentissima: toglie al protagonista la scusa di avere un'autorità da contestare.
Il primo momento di contatto reale arriva qui:
Carl: Ero pronto a tuffarmi nei ricordi della mia infanzia infelice.
Irving: Sono molto più interessata alla sua vita adulta infelice.
Irving non accetta i cliché. Va dritta al punto. E qui il dialogo comincia a rivelare qualcosa di più profondo: la riluttanza di Carl a parlare dell’incidente è solo un sintomo del suo più ampio rifiuto a sentire. Lui non vuole essere vulnerabile. Lei lo costringe a esserlo usando il linguaggio della normalità, mai del dramma.
Poi il passaggio chiave:
Irving: Parlerebbe volentieri con se stesso?
Carl: In effetti…
È il momento in cui Carl, seppure con una battuta, cede un po’. Non si sta ancora aprendo, ma inizia a giocare secondo le regole della dottoressa.
Segue un giro rapido su farmaci e depressione. Irving non è mai giudicante, ma nemmeno delicata. Fa domande dirette, per smascherare le finzioni:
Irving: Si sente depresso, Carl?
Carl: Non più del normale.
Irving: Va tutto a gonfie vele.
Carl: Per ciò che mi riguarda.
Qui emerge chiaramente il cuore difensivo di Carl: minimizzare. Ma Irving non lo lascia scivolare via. Quando lui dice:
“Non ho mai dormito molto.”
lei lo annota con un semplice “Mhm-mhm”, come a dire: appunto. E poi arriva il gesto clamoroso: si mette a mangiare un panino.
Non è provocazione gratuita. È un gesto che spezza il gioco della formalità, e lo fa con una dose precisa di realismo:
Irving: A quest’ora ho la pausa pranzo, ma ho dovuto inserirla. Questo prima di sapere quanto stesse bene.
Traduco: non sei così grave, quindi possiamo permetterci un dialogo meno istituzionale. Ma in realtà è anche una trappola, perché quel gesto fa arrabbiare Carl, lo spinge a reagire, e lo costringe a parlare.
Infine, lo scambio più rivelatore:
Irving: Il complesso di superiorità sembra essere il filo conduttore della sua cartella.
Carl: Quella a cui a malapena ha dato un’occhiata?
Irving: Non ho detto a malapena.
È una sfida diretta. Carl alza il muro dell’ironia. Lei lo scavalca con l’osservazione clinica. E quando gli chiede se si sente superiore, Carl risponde:
Lo standard è basso, non crede?
Una battuta che è insieme arroganza e rassegnazione. Una dichiarazione di disprezzo mascherata da cinismo. Irving lo chiude con un semplice:
Uao.
Non commenta. Non diagnostica. Lascia che quella frase resti lì, pesante.
Alla fine della scena, non ci sono progressi apparenti. Ma è proprio quel panino masticato in silenzio il vero colpo di scena. Perché ci dice che, tra due persone che non vogliono essere lì, qualcosa ha cominciato a muoversi. Anche solo a livello umano. E nella logica narrativa di Dept. Q, è già moltissimo.
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