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~ LA REDAZIONE DI RC
Matt Shakman firma il ritorno dei Fantastici Quattro nel Marvel Cinematic Universe, aprendo la Fase Sei con un film che spinge il gruppo direttamente dentro un conflitto cosmico, ma che affonda le radici nel personale, nel familiare, nel fragile equilibrio tra genitorialità, responsabilità e paura dell’ignoto. Questo non è solo un film sulle origini: è un film sul confrontarsi con ciò che viene dopo. Con ciò che si è generato.
Siamo su Terra-828. Sono passati quattro anni da quando Reed, Sue, Johnny e Ben hanno ottenuto i loro poteri. Ma ciò che li rende davvero una squadra non è la mutazione, è l'intimità. Il film apre su una cena familiare, momento tenero e tranquillo che verrà subito travolto da qualcosa di molto più grande: Silver Surfer appare e annuncia l’arrivo imminente di Galactus, colui che consuma pianeti per sopravvivere.
Da qui si snoda una trama che alterna momenti da space opera pura a crisi interiori personali. Reed è ossessionato dal legame tra l’esposizione ai raggi cosmici e l'arrivo della creatura. Sue è incinta e, pur consapevole del pericolo, è determinata a portare avanti la gravidanza. Johnny resta il più impulsivo, ma comincia a mostrare sprazzi di responsabilità. Ben è il più terreno, il collante emotivo del gruppo. Il tono è quello di una tragedia familiare vestita da blockbuster.
Il viaggio verso Galactus li porta a una delle rivelazioni centrali del film: il divoratore non è solo affamato di pianeti – vuole il figlio di Sue, Franklin, che ancora non è nato. Lo percepisce. Lo sente. Questo bambino è una fonte di energia talmente potente da interferire persino con il metabolismo cosmico di Galactus. Ed è qui che il film comincia davvero a girare su un asse diverso: quello del destino, del sacrificio, del potenziale pericoloso del potere.
Sue partorisce durante un inseguimento spaziale, mentre il team fugge dalla macchina cosmica di Galactus. È una delle sequenze più tese e surreali dell’MCU finora: nascita e morte, creazione e distruzione si sovrappongono visivamente e tematicamente.
Ma il ritorno sulla Terra non porta sollievo. Dopo una disastrosa conferenza stampa, l'opinione pubblica si rivolta contro i Fantastici Quattro. Il mondo è paralizzato dalla paura e inizia a domandarsi: vale davvero la pena rischiare l’estinzione dell’intero pianeta per non sacrificare un neonato? Qui il film assume tonalità quasi politiche, con una narrazione che richiama certi film catastrofici anni ‘70 – e un tono cupo che spiazza.
È Franklin Richards, il vero punto di svolta del film. Non tanto come personaggio, quanto come concetto: lui è una forza latente. Il bambino è l’incarnazione del potere puro e dell’innocenza assoluta – un paradosso potentissimo in un film che parla proprio di responsabilità e destino.
Dopo il fallimento del piano di Reed, che prevedeva di spostare la Terra lontano dalla traiettoria di Galactus attraverso una rete di portali quantici, la squadra si gioca l’ultima carta: usare Franklin come esca per attirare Galactus nel portale rimasto operativo a Times Square. È un piano disperato: la città è deserta, evacuata. Aiutano anche vecchi alleati, come l’Uomo Talpa.
Ma il piano fallisce. Galactus riesce a prendere il bambino, e quando tutto sembra perduto, Sue si ribella. Usa i suoi poteri per trattenere Galactus abbastanza a lungo da farlo finire nel portale. Tutto questo costa caro: Sue Storm muore per lo sforzo.
E lì, in un momento completamente atipico per un cinecomic Marvel, il film si prende una pausa totale dal rumore. I superstiti – Reed, Ben, Johnny – si inginocchiano accanto a Sue, che giace senza vita. Franklin si appoggia al suo grembo. Ed è in quel momento che accade qualcosa che cambia tutto: la madre rinasce. La scena è costruita con una solennità quasi sacrale, evitando volutamente ogni tipo di effetto pirotecnico. Il risveglio è silenzioso. È Franklin ad averla salvata. Senza comprendere cosa stia facendo. E forse proprio per questo ci riesce.
Questa scena è il cuore concettuale del film. Franklin non è un’arma. È un miracolo. Un’energia che restituisce vita anziché distruggerla. In un universo dominato da esseri onnipotenti come Thanos, Celestiali, Galactus, vedere che la vera forza rigenerativa nasce da un bambino appena nato è un messaggio potente.
Epilogo – Il seme del destino
Quattro anni dopo. Sue è viva. Si prende cura di Franklin in una casa isolata, circondata da natura. L’aria è calma. Ma quando il bambino viene avvicinato da un uomo mascherato, col mantello verde, tutto cambia. È Victor Von Doom, e il modo in cui il film costruisce questo reveal è da manuale. Nessun dialogo. Nessuna spiegazione. Solo una maschera, un incontro tra il destino e ciò che verrà.
La Fase Sei si apre davvero qui.
I Fantastici Quattro – Gli inizi non è un film sulle origini nel senso classico. È un film che parla delle conseguenze. Di ciò che accade dopo che si ottiene un grande potere. Di come si affronta un mondo che cambia quando una nuova vita entra nella storia. Shakman costruisce un MCU che comincia a maturare: meno ironia, più dilemmi morali. E soprattutto, meno eroi perfetti e più famiglie imperfette. Il risultato? Un’introduzione densa, che non chiude nulla, ma apre tutto.
Reed Richard: Pedro Pascal
Ben: Ebon Moss-Bachrach
Ben: Ehy amico. Johnny mi ha mostrato le nuove tute. Molto più eleganti. Specialmente rispetto a quelle vecchie.
Reed: Oh, quelle vecchie… Non erano adeguate.
Ben: Chi poteva saperlo?
Reed: Io. Io potevo saperlo.
Ben: Smettila, ti prego. La devi smettere di colpevorizzarti. Sai, Elastico? Ho una brutta notizia per te. Non sei così intelligente.
Reed: Beh, peccato che io lo sia invece.
Ben: Si? Sai cucinare?
Reed: E’ più un’arte, non una scienza.
Ben: L’esame di guida l’hai passato?
Reed: Era poco visibile la segnaletica.
Ben: Questo Galactus… questo Araldo… non hanno idea con chi hanno a che fare.
Il dialogo tra Reed Richards (Pedro Pascal) e Ben Grimm (Ebon Moss-Bachrach) è uno di quei momenti che sembrano leggeri in superficie, ma che – se ascoltati con attenzione – dicono moltissimo sul rapporto tra i personaggi, sul senso di colpa di Reed e sulla funzione di Ben all’interno della squadra. Tra una minaccia cosmica e una crisi familiare, I Fantastici Quattro – Gli inizi si prende un minuto di respiro. In una scena raccolta, quasi quotidiana, Ben “La Cosa” Grimm entra in stanza con una battuta sulle nuove tute. Sembrerebbe un momento comico. Ma, come spesso accade nei dialoghi scritti bene, l’umorismo è solo la superficie. Sotto c’è molto di più.
Quello che segue tra Ben e Reed è un dialogo che alterna battute e vulnerabilità, affetto e verità scomode. Una scena che non “fa rumore”, ma rinforza il cuore del film: il fatto che i Fantastici Quattro sono una famiglia. E ogni famiglia ha bisogno di qualcuno che ti ricordi chi sei quando stai andando in frantumi.
“Quelle vecchie… Non erano adeguate.” / “Io. Io potevo saperlo.”
La battuta sulle vecchie tute non è casuale. Reed coglie l’occasione per tornare a colpevolizzarsi. È un pattern ormai riconoscibile nel film: ogni occasione è buona per dire che “poteva fare meglio”. Che è colpa sua. È il peso della sua intelligenza. Non come dono, ma come condanna. Se lui è il più intelligente, allora tutto ciò che va storto è responsabilità sua.
Ed è proprio su questo che Ben interviene.
“Ho una brutta notizia per te: non sei così intelligente.”
Ben non lo consola. Non gli dice: “Hai fatto del tuo meglio”. Gli dice: “Smettila.” E poi: “Non sei così intelligente.”
Detto da un altro personaggio, suonerebbe come un attacco. Ma Ben conosce Reed. Sa che deve scardinarlo dal centro del suo labirinto mentale. E lo fa usando l’umorismo e la concretezza. Gli ricorda che non sa cucinare. Che non ha la patente. Lo riporta sulla terra.
Ben è l’ancora emotiva del gruppo. È l’unico che riesce a dire a Reed che non è Dio. Che non tutto può essere previsto. E, soprattutto, che non tutto deve essere previsto.
“Questo Galactus… non ha idea con chi ha a che fare.”
La frase finale è detta con tono leggero, ma ha il peso di una dichiarazione di guerra. È l’unico momento in cui Ben, senza ironia, pronuncia una frase da eroe. E non la dice per vantarsi. La dice perché crede nella squadra, non nei poteri. Non nei calcoli. Ma in loro.
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