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Foto in testa di Karma Gava
Intervista a cura di...
~ CLAUDIA LAZZARI
Uno sguardo dall'oltreoceano che arricchisce il cinema italiano.
Giovanni Morassutti, classe 1980, regista, sceneggiatore, produttore e attore italiano rappresentativo del Method Acting. Una formazione brillante, che inizia con Susan Strasberg e approda con una collaborazione ventennale con John Strasberg, passando per Salem Ludwig e, naturalmente, l'Actors Studio. Dopo una parentesi parigina precedente di studi effettuati con Sarah Eigerman, sul finire del periodo newyorkese si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, pronto a creare una propria dimensione artistica da esprimere anche nel contesto italiano.
Una carriera costruita in giro per il mondo, costellata da nomi come Fabio Jephcott, Lidia Biondi, Roberto Faenza, Andrea Manni, Stefano Usardi, Cinzia Th Torrini, Matteo Corazza, Riccardo Milani, Harris Freedman, Stefano Usardi, Pietro Marcello e tanti altri. Regie teatrali di successo, impegno attivo nella diffusione delle questioni artistiche e ambientali, Giovanni Morassutti esordisce oggi alla regia cinematografica documentaristica col suo Memorabilia - A Family History. Parleremo di questo e di tanto e tanto altro, nella brillante intervista che ho avuto il privilegio di svolgere per il nostro blog.
Siamo qui con Giovanni Morassutti e io sono molto contenta, molto onorata di poter svolgere questa intervista per RC. Partirei chiaramente dalla tua formazione: attore, regista, produttore, sceneggiatore; ti abbiamo appena apprezzato ultimamente nella tua ultima partecipazione a un film di successo che è “Duse” e quindi vorrei proprio partire da quella che è la trasformazione attoriale e, dunque, dal metodo Strasberg, dal rapporto che hai con la famiglia Strasberg, in particolare chiaramente con John Strasberg di cui sei stato allievo. Una collaborazione ventennale, ho letto.
Sì, allora io ho iniziato a recitare durante gli anni del liceo e ho avuto la fortuna di conoscere Susan Strasberg che era la sorella di John e la figlia di Lee Paul. Susan veniva spesso in Italia anche perché aveva lavorato tanto a Roma e veniva a fare dei seminari a Roma e anche a Padova, che è la mia città natale, dove frequentavo il liceo. Ho fatto questo stage di due settimane con lei ed è stato per me un'esperienza molto ispirante. Avevo 16 anni e lei mi ha riconosciuto, diciamo, delle capacità; e mi ricordo che stavo facendo questa scena in cui dovevo dormire in un momento e poi mi dovevo alzare, svegliare, ed è stato un momento stranissimo perché mi sentivo così vero. Era così profondamente vera quella sensazione… Lei era una donna anche molto affascinante, molto carismatica, mi ricordo che mi disse che avevo del talento. E in quegli anni lei lavorava per lo più tra Los Angeles e New York e insegnava anche alla UCLA, l'università di cinema di Los Angeles. E mi aveva proposto di andare da lei dopo il liceo, a studiare come suo allievo. Solo che purtroppo è mancata prematuramente Susan, ma mi aveva dato il numero di telefono di suo fratello John, che io avevo scritto su un taccuino. In quegli anni John viveva a Parigi, perché ha vissuto tanti anni in Europa. Comunque sia, tra una cosa e l'altra, io poi a diciott'anni ho deciso di andare a vivere a New York perché volevo fare l'attore per imparare a recitare, ma non secondo il modello diciamo più italiano dei teatri stabili, che è una recitazione se vogliamo più esteriore. Io volevo seguire questa metodologia che è appunto legata anche all’Actors Studio e avevo letto dei libri anche su James Dean, su Marlon Brando, eccetera. Sono arrivato a New York subito dopo il liceo e mi sono trovato poco dopo che ero lì… all’Actors Studio. Non parlavo bene l'inglese, mi ricordo, ed era un'emozione pazzesca perché era un mondo per me che io avevo solo immaginato, letto nei libri, ne avevo sentito parlare in alcuni film.
Da qui è una percezione completamente diversa, no? Perché per noi è una dimensione mistica, quella dell'America sotto questo punto di vista, artistico-cinematografico soprattutto storicamente, quindi deve essere stato forte.
Sì, è stato molto forte anche perché ero molto giovane. Ero da solo in una città che è una delle città più grandi che io abbia mai visto, in cui abbia mai vissuto. Erano la fine degli anni '90 insomma, quindi mi sembrava di vivere un sogno fondamentalmente.
A volte mi domando se esiste ciò che viene chiamata personalità.
~ GIOVANNI MORASSUTTI

Giovanni E. Morassutti con John Strasberg presso Art Aia - Creatives In Residence durante le riprese del docufilm Personal Dream Space
Poi era un periodo tanto stimolante sotto il punto di vista proprio delle produzioni, quello che è venuto fuori, quindi fantastico.
Sì, certo, gli anni '80 erano ancora forse più interessanti, però mi ricordo che all’Actors Studio bazzicava gente anche molto molto conosciuta, molto brava, Arthur Penn, Harvey Keitel, Estelle Parsons, Lee Grant, Eli Wallach, insomma gente che ha fatto la storia del cinema americano e non solo del cinema, anche proprio della recitazione, dello stile di recitazione, no? Del Method Acting. Quindi ho cominciato a frequentare l’Actors Studio, poi ho conosciuto un membro che si chiamava Salem Ludwig, che era anziano già al tempo e ho cominciato a studiare con lui in una scuola che si chiama HB Studio (scuola di Uta Hagen), che è una specie di conservatorio di recitazione molto interessante dove puoi sceglierti tu le classi, puoi decidere tu se studiare danza piuttosto che canto piuttosto che Tai Chi. Io avevo fatto una classe di Tai chi, mi ricordo, recitazione, regia, insomma... Ho cominciato a studiare lì, però questo Salem, lui pur essendo molto bravo, parlava pochissimo, nel senso che ci faceva fare questi esercizi di improvvisazione strutturata piuttosto che anche delle memorie emotive, però parlava poco, e a un certo punto io avevo la sensazione che avevo bisogno di un maestro, di una guida che mi dicesse di più. E casualmente ho ritrovato questo taccuino che avevo e ho visto che avevo il numero di John Strasberg che mi aveva dato Susan. E avevo sia il numero di Parigi che il numero di New York. E ho chiesto a Salem Ludwig se lo conosceva. Perché Salem era stato un allievo del papà di John, Lee Strasberg. “Certo che lo conosco”, mi fa, “è una persona che ha sofferto molto”, mi ha detto. E questa cosa mi ha proprio acceso una lampadina, perché io comunque in quel periodo stavo soffrendo tanto, mi sentivo molto solo. E quindi ho lasciato un messaggio a John in segreteria dicendo che avevo studiato con sua sorella, bla bla bla e che ero a New York, che mi sarebbe piaciuto conoscerlo, e lui mi ha chiamato dopo un paio di giorni, invitandomi a vedere una sua lezione. Io sono andato a vedere la sua lezione e mi ricordo che sono rimasto folgorato dal suo lavoro. Primo perché parlava molto di più di Salem, e poi soprattutto perché vedevi che aveva fatto tutto il suo lavoro, anche aveva elaborato, se vogliamo, il lavoro del padre, quindi non insegnava il metodo classico. Aveva un suo punto di vista che era molto originale, e per me era molto interessante. E’ stato subito un click.
A quel punto io stavo ritornando in Italia, perché avevo il visto e potevo stare solo 3 mesi, e gli ho detto “Guarda John, se lei dovesse essere interessato a venire in Italia a insegnare, io posso parlare con l'organizzatore che organizzava gli stage di sua sorella, Susan, e magari possiamo organizzare uno stage con lei”. E lui mi ha detto “sentiamoci”. Ho parlato con l'organizzatore degli stage di Susan, gli ho detto di John, e abbiamo provato a organizzare un seminario. E dopo 6 mesi John è venuto a insegnare a Padova, dove io appunto avevo iniziato a studiare con sua sorella. E quindi da lì è nata una collaborazione perché poi io sono tornato a New York e ho studiato con lui lì, con il suo atelier, nel suo studio per attori per diverso tempo e poi però questa collaborazione si è mantenuta per vent'anni. Io poi sono tornato in Italia ho fatto il Centro Sperimentale di Cinematografia. In quel periodo ci siamo sentiti, ma non ci siamo visti. Poi però ho cominciato a chiedergli se volesse tornare in Italia e quindi è venuto a Roma, è venuto nella mia casa che è proprio una residenza per artisti in Friuli Venezia Giulia, una casa in campagna molto grande dove ho organizzato due seminari con lui. Siamo molto legati e abbiamo fatto questo seminario residenziale, poi è venuto la mamma in Umbria, Spoleto, che è la residenza artistica di Ellen Stewart, fondatrice del Cafè La MaMa, con cui ho avuto il piacere anche di lavorare quando vivevo negli Stati Uniti. In sintesi, c'è sempre stato questo rapporto con John, da una parte studio con lui ovviamente, quindi sono sempre rimasto suo allievo, dall'altra sono un collaboratore, quindi anche se vogliamo referente europeo, perlomeno per l'Italia e per la Germania per un periodo, perché poi lui insegna anche in tanti altri paesi, la Francia, la Spagna…
Certo.
E poi ho scritto anche nel 2016 la prefazione al suo libro.
Sappiamo come nasciamo ma non come moriremo.
~ GIOVANNI MORASSUTTI
Sì. L'ho letta, l'ho letta. Infatti ho una domanda su questo. In pratica mi sono segnata questa frase che è "l'esercizio mi aiutava ad esprimere il sentimento, ma il sentimento c'era già. E se provassi ad accedervi direttamente senza l'esercizio? E questo ha cominciato a cambiare il mio lavoro" che è un po' il senso con cui spesso concepiamo qualsiasi metodo, cioè cercare di avere una struttura che ci permetta di destrutturare la nostra struttura e da lì partire, no? Riuscire a lasciarci andare, fondamentalmente, ed entrare in tutti quei territori che noi come persone singole non siamo mai entrati, che sono magari le storie e i sentimenti di personaggi specifici. E quindi proprio sulla scia di questo concetto, come definiresti il Metodo? E qual è la differenza che hai potuto riscontrare tra il metodo Strasberg e gli altri, in particolare magari col metodo italiano che hai sperimentato nel Centro di recitazione più importante attualmente.
Il Metodo... la cosa importante è trovare il proprio metodo. Poi il Metodo ovviamente è il nome che è stato usato per questa elaborazione diciamo del sistema Stanislavskiano, perché il vero come dire innovatore della pedagogia degli attori è stato Stanislavskij. Non Lee Strasberg. Lee Strasberg diciamo ha portato queste scoperte, le ha riorganizzate. In maniera molto strutturata ed è stato molto bravo a farlo per poi diciamo trasferirle su un sistema americano che era un contesto anche socioeconomico molto diverso da quello della Russia, no? Quindi per me qualsiasi attore deve... la cosa migliore che gli auguro è di riuscire a trovare il suo metodo di lavoro, che fondamentalmente gli consenta di esprimere al meglio, al suo meglio, quello che sogna fondamentalmente, quello che immagina rispetto al proprio personaggio e anche a quello che lui immagina o quello che desidera essere come attore. Quindi non esiste un attore uguale all'altro nel profondo, cioè nel profondo siamo tutti attori diversi e siamo tutti tipologie di attori diversi, no? Perché poi in fondo è legato l'essere attore è legato principalmente all'essere umano, quindi tutti gli esseri umani sono diversi l'uno dall'altro, no? Non pur avendo insomma delle caratteristiche comuni, dei bisogni comuni, nel profondo ognuno ha la sua natura, no?
Che ha bisogno di smuoversi in qualche modo.
Esatto. Sì. Sai cosa? Non è tanto forse smuoversi, è riuscire a riprendere contatto con quella natura che abbiamo fin da quando nasciamo. Perché poi quello che succede è che crescendo nella società in cui viviamo, la scuola, la famiglia ancora prima la società, anche il mondo del lavoro. La nostra natura viene anche un po', come dire, alterata, no? Condizionata. Da una serie di valori, che sono dei valori condivisi, ma che non necessariamente ci riguardano poi nel profondo appunto.
Segui il tuo corpo poiche´ la maggior parte delle volte lui sa dove andare.
~ GIOVANNI MORASSUTTI

Giovanni E. Morassutti con John Strasberg presso Art Aia - Creatives In Residence durante le riprese del docufilm Personal Dream Space
Questo concetto mi piace tantissimo e sono contenta che sia come se in maniera circolare tornasse sempre nelle situazioni a cui prendo parte. Cioè questo è proprio lo stesso concetto che ha portato avanti e porta avanti un coreografo, perché sono anche una ballerina. Nella mia tesi di laurea in storia della danza, io non so se conosci Virgilio Sieni, che è un coreografo toscano che ha creato un tipo di danza, comunque di modo di coreografare proprio per riconnettere l'uomo a quelli che sono i suoi gesti primordiali. Utilizza molto le opere d'arte proprio e le va a sezionare in quelli che possono essere i movimenti in cui poi i personaggi delle opere vengono freezati.
Chiaro.
Parla chiaramente di un progresso che è come se ci accartocciasse anche un po' fisicamente. E quindi fa tutta una cosa coreografica per riconnettere e risistemare il corpo, riconnetterlo con la natura e da lì sciogliere poi tutta una serie di reazioni anche emotive. Questa cosa mi torna sempre in tutte le arti, mi piace quando mi viene detto.
Certo.
Cioè mi fa un bell'effetto, diciamo.
Sì, sì, è il punto forse centrale del lavoro, insomma uno degli aspetti più importanti, perché poi questo ti consente fondamentalmente… se fai un buon lavoro in questa direzione riesci a rimuovere quei blocchi, che ti impediscono fondamentalmente di vivere fino in fondo la tua vita e di essere fino in fondo quello che sei. Ha a che fare con la spontaneità fondamentalmente. La spontaneità è, se vogliamo, la qualità che definisce la vita. La vita è spontanea. Nulla togliere all'intelligenza, alla capacità di pensare, di ragionare, di analizzare. È tutta una facoltà di cui insomma dobbiamo anche essere fieri di averla e poterla usare. Ma quando si tratta di un processo creativo, secondo me bisogna riuscire ad attingere a un'altra forma di pensiero, che è un pensiero reale, quindi un pensiero connesso anche con il corpo e con il sentire e con l'esperienza di vita, con la memoria del corpo dell'esperienza della propria vita che vengono appunto, rimangono come dicevi giustamente te, anche nel corpo e quindi questo coreografo con cui tu lavori è bravo nel dire...
Magari, magari ci lavorassi, ci ho scritto una tesi (Ride Ndr.)
Però è giusto perché il comportamento poi nella danza ovviamente è diverso rispetto all'attore, no? Perché magari è legato appunto anche a un'estetica diversa eccetera. Nel caso dell'attore il comportamento è quello che soprattutto l'attore della scuola realista si avvicina il più possibile alla vita, all'umanità, all'essere veri e spontanei nel modo in cui nel modo in cui ti comporti. Quindi, se vogliamo, è proprio uno studio del comportamento, la recitazione realista americana. Rispetto al discorso alla scuola di Roma io sono ovviamente grato di essere stato ammesso e di aver frequentato la scuola. È una scuola comunque costruita su 3 anni che dà la possibilità di migliorarsi su tante aree come il canto, il movimento, la dizione, la storia del cinema, eccetera. Il problema è che, come tutte le scuole, se vogliamo accademiche, fornisce un programma di studi disegnato su un gruppo di persone, nonostante noi fossimo comunque in pochi, perché eravamo 8 uomini e 8 donne. E questa cosa tende purtroppo in alcuni casi a imporre delle tecniche, degli stili di recitazione ad un gruppo di persone. Quindi non è un lavoro magari così maieutico, no? E quindi disegnato su ciascun allievo. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ci sono degli insegnanti molto bravi che lavoravano con ognuno di voi in maniera maniera personale, in maniera individuale, però ecco diciamo che forse uno dei limiti è stato anche questo.
Mi piacerebbe sapere per esempio se c'è stato qualche esercizio in particolare, non so, hai svolto magari anche all'inizio mentre approcciavi proprio per la prima volta al metodo che ti è rimasto nel cuore, cioè ti ha creato una reazione quasi un po' catartica forse al metodo e a quello che ti stava tirando fuori, magari anche nello specifico proprio il lavoro con John Strasberg, cioè se c'è qualche esercizio in particolare che ti ha creato un ricordo particolare, insomma, con quello che ti è scaturito.
Beh allora mi viene in mente anche di recente ho fatto un film che si chiama “Memorie di un Marciatore”, dove ho interpretato un personaggio che era molto arrabbiato, se vogliamo, con i clandestini, personaggio se vogliamo anche quindi negativo, no? È astioso, eccetera. E in quell'occasione mi è successa una cosa particolare perché io ho espresso un'emozione fondamentalmente, che ritenevo l'emozione fondamentale della scena. Di rabbia e anche proprio disprezzo insomma, no? E questa sensazione è stata molto forte perché, come dire, mi sono quasi vergognato di aver mostrato quella parte di me.
Ok.
Voglio essere spontaneo come un animale selvatico.
~ GIOVANNI MORASSUTTI

Giovanni Enrico Morassutti nel 2025. Foto di Karma Gava
E questo non è un esercizio, fondamentalmente è stata un'emozione che è scaturita dal lavoro che ho fatto sul testo e sul contesto, sul mondo immaginario del personaggio, eccetera. Invece quando ero più giovane mi ricordo che ho fatto un esercizio che è The animal exercise. Che è un esercizio che aveva sviluppato Maria Ouspenskaya che era un'allieva, una collaboratrice di Stanislavskij, che poi Lee Strasberg ha ripreso e inserito tra gli esercizi di memoria sensoriale, che è il primo esercizio che consente all'attore di capire che cosa vuol dire, diciamo, assumere un comportamento diverso da sé, dal suo e quindi diciamo fa parte di quello che Stanislavskij chiamava il lavoro dell'attore sul personaggio e ho fatto questo esercizio mi ricordo, durante un lavoro sulla scena del sogno di una notte di mezza estate dove interpretavo Bottom (che è questo attore che si trasforma in asino) e mi ricorderò sempre la sensazione che ho provato nel vivere questa vita di questo animale che poi era un misto tra un animale e un essere umano insomma è stata una sensazione mi ricordo che non dimenticherò mai.
E allora passerei adesso alla creazione di questo primo film, no? Documentario che è Memorabilia: una storia di famiglia. E quindi, un po' in generale, non so, se si può dire qualcosa sulla storia, poi su come nasce quest'opera e su questo passaggio poi, insomma, alla regia, in questo caso documentaristica.
E’ un'opera molto personale e non a caso insomma il lavoro della scuola realista e quindi anche dell'Actors studio è caratterizzato da questa componente perché drammaturghi come Tennessee Williams, Eugene O'Neill e altri raccontavano nelle loro opere, per esempio, anche la storia della loro famiglia. In Un Lungo viaggio verso la notte di Eugene O'Neill, i personaggi raccontati sono i suoi familiari, lo stesso Tennessee Williams, lo stesso Zoo di Vetro, personaggi molto vicini alla vita di Williams. Con questo ovviamente non voglio paragonarmi a dei geni come loro, ma nel mio piccolo ho cercato di scrivere questo docufilm partendo proprio dalla mia esperienza personale. Infatti si chiama Memorabilia, una storia di famiglia, perché racconta da una parte la storia della mia famiglia, a livello anche documentaristico, perché la mia famiglia aveva una grossa azienda che ha fatto in qualche modo anche la storia dell'Italia del ‘900, dei dipendenti di questa ditta e quindi del senso di famiglia che si era creato all'interno di questo posto di lavoro e del teatro, perché loro poi recitavano, facevano oltre a lavorare come impiegati o magazzinieri, facevano anche gli attori grazie a questa vita dei miei antenati che hanno deciso di sostenerli in questa loro passione, in questo loro sogno di fare gli attori, diciamo a livello dopolavoristico, insomma, però tutte le loro soddisfazioni. E in più c'è anche la mia storia, cioè il mio rapporto con la mia famiglia, la famiglia che ho trovato quando sono andato a vivere a New York. E quindi la figura di John, che è stata anche una figura se vogliamo paterna, il rapporto con mio padre quando è venuto a trovarmi a New York. Il rapporto con Ellen Stewart, aveva questo nome d'arte che era la MaMa, infatti era come la mamma di tanti artisti, incluso me, e quindi sì, è un film, un docufilm, un film appunto che vuole raccontare una storia in maniera molto personale, molto vissuta in prima persona. Però anche attraverso un documento che racconta un periodo dell'Italia degli anni ‘60. E un mondo insomma particolare che ha segnato anche la storia del paese. Anche il cambio dagli anni del boom economico, dove comunque c'era un senso anche di comunità, di rispetto. Di recente mi ha scritto una persona che vorrebbe tanto vedere il film. Mi ha raccontato che quando era piccola suo padre lavorava per l'azienda della mia famiglia suo fratello, il fratello di lei, quindi il figlio di questo signore che lavorava per la vita della mia famiglia, a 3 anni si è ammalato di leucemia. E tutti i dipendenti della sede della ditta dove lavorava questo signore hanno donato il sangue per salvare questo bambino.
Uao.
Quindi sono ricordi importanti insomma, no? Che fanno capire come anche il senso di comunità era molto diverso. Dell'individualismo, no? Di adesso.
Oggi siamo di fronte ad un momento storicamente difficile per il cinema. La mia impressione è che sembra si indaghi sempre un po' il vecchio, cioè il vecchio nel senso di passato, che è importantissimo, però come si cercasse di filtrare questa realtà con dei momenti che magari possono rappresentarla, però che vanno a saturare tutta una serie di cose che oggi avremmo da dire. Allora c'è sempre un po' il vecchio, il remake, l'interpretazione un po' di altro, per cercare di di prendere, di rifugiarsi in personalità magari importanti che hanno fatto delle cose… come se si cercasse un po' di riportarle in vita per salvarci da questo mondo attuale. E’ come se mancasse sempre qualcosa, non è mai come prima. Effettivamente manca qualcosa? Che cosa possiamo fare secondo te per poter non dico saltare già e creare un'altra epoca storica d'oro come magari alcuni decenni passati, però cos'è che sta mancando? Cos'è che si dovrebbe cercare di raccontare di nuovo?
Sì, secondo me manca il coraggio di ribellarsi. Di ribellarsi veramente a un sistema che non ti consente di dire fino in fondo quello che vuoi dire e di prenderti anche il rischio di fallire, di essere personale in quello che dici e di avere appunto una tua visione che si discosta dal mainstream.
Cosa consiglieresti ai giovani che si vogliono accostare al mondo del Cinema o Teatro? Di trovare un buon maestro, di non tradire se stessi per arrivare al successo e di migliorarsi come persone prima che come attori.
~ GIOVANNI MORASSUTTI

Giovann E. Morassutti con gli attori della compagnia Arlecchino Morassutti durante le riprese del docufilm Memorabilia - Una Storia di Famiglia
Quindi anche il rischio di non fare quello che lo spettatore, che adesso ha la soglia dell'attenzione bassa, vuole vedere per forza, no?
La questione è di capire quando fai un lavoro artistico, per chi lo fai. Sicuramente c'è un momento in cui vuoi condividere il tuo lavoro con il pubblico, però se lo fai per il pubblico c'è qualcosa che non va, perché secondo me deve partire da... la cosa migliore insomma è che parta da un bisogno che tu hai dentro, di dire qualcosa su quello che sai della vita, su quello che è molto personale. Ma un vero artista ha qualcosa da dire sulla vita, che è qualcosa di suo. Magari non lo sa che cos'è, non lo sa definire, non lo sa spiegare, no? Ma è lì il processo, di trovare il proprio modo, che è un modo unico, un modo che nessun altro ha e sicuramente si può imparare dal passato, dai grandi, ma non si possono scimmiottare gli altri, imitare gli altri. Lo puoi fare e funziona, ma rimarrà sempre mediocre. Il problema del momento in cui noi viviamo è questo, che siamo permeati da una totale mediocrità. Quindi tutto sta nel mezzo, in questo mezzo che per me è un medio proprio, non è né alto né basso, forse più tendente in alcuni casi all'alto, in alcuni casi al basso, ma tendenzialmente tutto medio, livellato, dove questo non ci permette di essere liberi come artisti fondamentalmente. Quindi bisogna avere il coraggio di ribellarsi e in fondo gli artisti sono dei ribelli, si rifiutano di conformarsi. Quindi non è un segreto, è sempre stato così. Deve essere un anticonformismo proprio che rifiuta tutte le categorie, cioè che non ti ingabbia in nessun culto, in nessuna categoria, ti permette semplicemente di dire la tua, di esprimere la tua voce, insomma.
Ultima domanda… L'intelligenza artificiale è al cinema. Come tutte le cose insomma che riguardano il progresso chiaramente tecnologico, ogni dieci giorni noi vediamo un salto temporale in cose infattibili che magicamente diventano fattibili. A me personalmente per quanto per me sia sempre giusto il discorso “impariamo ad usare le cose in una maniera funzionale, educhiamo le persone ad usarle bene, tutto va bene se viene usato bene”, però purtroppo noi viviamo comunque in dei sistemi che non hanno mai tutta questa empatia nell'utilizzare certe cose. A me spaventa molto vedere come prende piede sempre in maniera più veloce. Penso che magari sia utilissima nel momento in cui posso, che ne so, sistemare un doppiaggio in maniera fantastica per ottimizzare il tempo, ma so che magari io che non sono nessuno ne farei un uso diciamo carino e magari altre persone per interessi, economici soprattutto, se ne fregano di chi fa questo lavoro, se ne fregano della qualunque. E quindi volevo sapere quale fosse il tuo punto di vista su questo, ecco.
Beh, allora il fatto che i social media e fondatori di queste piattaforme siano famosi anche per il loro cinismo, direi che non è una novità. Io tra l'altro per un periodo, quando vivevo a Berlino, ho lavorato all'interno di un'azienda part-time che si occupava dei social media. E c'è stato questo caso di quest'uomo che ha ucciso live sua figlia.
Ok.
E questo video ha girato sul web per giorni senza che nessuno lo bloccasse, insomma, o comunque facesse qualcosa. E cosa è successo? Che il fondatore del social media non è che ha detto "eliminiamo questa funzione", ma ha detto "assumiamo più persone pagandole 2 lire per monitorare 24 ore su 24 la funzione live". Quindi diciamo proprio che c'è un bisogno spasmodico di arricchirsi a discapito poi dell'umanità, no? Rispetto all'intelligenza artificiale io sono anche attivo dal punto di vista del teatro contro il cambiamento climatico. Che è un tipo di teatro diciamo che si occupa di trasferire dei messaggi inerenti alla crisi climatica e anche di utilizzare dei sistemi, diciamo, poco a 0 impatto, come dire, climatico, quindi utilizzo di energie rinnovabili, come abbiamo fatto degli spettacoli utilizzando luce e suoni alimentate da pannelli solari e insomma e quindi è un teatro anche da quel punto di vista molto sostenibile. Nel cinema c'è anche lì tutto un movimento legato al green e devo ammettere però che nel documentario ho utilizzato un po' di intelligenza artificiale, nonostante l'intelligenza artificiale inquini moltissimo, perché consuma tantissima energia. E quindi sì, c'è questo problema anche legato all'utilizzo dell'intelligenza artificiale. Bisogna secondo me stare molto attenti anche ai consumi di quella cosa e da un punto di vista artistico…
Cercare di non essere sostituiti.
È rischioso sì, perché diciamo ti dà dei risultati sorprendenti, è come una specie di traduzione della tua immaginazione, no? Ma questo magari ti impigrisce, no? Anche a livello creativo.
Mi piacerebbe pensare che questa potrebbe essere in futuro una motivazione che risvegli così tanto le coscienze delle persone. Le mettiamo noi le regole per renderla una cosa utile e non devastante.

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