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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Sara a Yusra arriva in un momento delicato del film: Yusra è a un passo dal coronare il sogno per cui ha lottato fin da bambina – partecipare alle Olimpiadi – ma il suo cammino si è separato da quello della sorella, che ha scelto di restare tra i rifugiati per aiutare chi continua a fuggire.
La scena è ambientata in una Berlino apparentemente calma, ma carica di tensione.
MINUTAGGIO: 2:00:00-2:05:55
RUOLO: Sara Mardini
ATTRICE: Manal Issa
DOVE: Netflix
ITALIANO
Che ci fai qui? Dovresti essere in fondo al mare della Grecia, o magari dormire ai bordi delle strade in Ungheria. Oppure morta in un buco ad Araja. Sai, gli Atleti olimpici dovrebbero fare cose incredibili. Ricordi cosa diceva Baba? Trova la tua corsia. Fa la tua gara. Sono tutte stronzate. Dovresti nuotare per tutti noi. Dovresti unotare per Baba, perché lui non l’ha fatto. Nuota per me, perchè non ci sono riuscita. Nuota per Sven, neanche lui ci è riuscito. Nuota per Shada. Nuota per Razan Haddad. E per tutti coloro che sono morti mentre cercavano una nuova vita. Nuota per loro. Sei molto più di un’atleta olimpica.
“Le Nuotatrici” (The Swimmers), film del 2022 diretto da Sally El Hosaini e distribuito da Netflix. È tratto da una storia vera.
Il film segue le vicende di Yusra e Sara Mardini, due sorelle siriane cresciute a Damasco con la passione per il nuoto. Il padre, ex allenatore della nazionale siriana, le allena fin da piccole con rigore, puntando su Yusra, la più giovane, come potenziale atleta olimpica. La loro vita viene spezzata dalla guerra civile. Gli attacchi aerei, la paura costante, la precarietà: tutto entra con forza nella quotidianità della famiglia Mardini. Sara è la prima a rendersi conto che restare in Siria significa rinunciare al futuro, forse anche alla vita. Così prende la decisione di partire per l’Europa insieme a Yusra. Le due sorelle iniziano un viaggio che ha il sapore di una traversata epica, più che di una fuga.
Qui il film cambia tono. Da racconto familiare e sportivo si passa a un’odissea migratoria. E non è una metafora: c’è una vera e propria traversata in mare. Il momento più emblematico – e cinematograficamente teso – è quello in cui il motore del gommone che le trasporta verso la Grecia si guasta. Le sorelle, entrambe nuotatrici esperte, si gettano in acqua insieme ad altri due passeggeri per alleggerire il carico e trascinano il gommone fino a riva. Una scena che riassume perfettamente il titolo del film, e che diventa quasi simbolica: loro nuotano per salvare vite, non per vincere medaglie. Arrivate in Germania, Yusra continua ad allenarsi con l’obiettivo delle Olimpiadi. Sara invece prende una direzione diversa: si dedica ad aiutare i rifugiati. Le loro strade si separano, non per conflitto, ma per due visioni diverse su cosa significhi “resistere” e “lottare”.
Yusra riesce infine a partecipare alle Olimpiadi di Rio 2016, ma non con la bandiera della Siria: fa parte della neonata squadra olimpica dei rifugiati. E qui il film trova una chiusura non enfatica, ma potente. Non c’è trionfo retorico. C’è un arrivo. Un traguardo conquistato metro per metro, bracciata dopo bracciata.
“Che ci fai qui? Dovresti essere in fondo al mare della Grecia...” L’incipit è crudo, diretto. Sara rompe ogni filtro: la frase è un pugno allo stomaco. Sta dicendo: non sei un’eccezione per talento, sei un’eccezione per sopravvivenza. Il peso della fortuna, della casualità brutale della guerra, è l’elemento centrale di questo inizio. Non c’è ammirazione per il successo raggiunto da Yusra, ma frustrazione per tutto ciò che lei rappresenta. Non perché non lo meriti, ma perché gli altri non ci sono riusciti. “Sai, gli atleti olimpici dovrebbero fare cose incredibili...” Qui Sara inizia a decostruire il mito dell’atleta olimpico. E lo fa partendo da una contraddizione: cosa significa davvero “fare qualcosa di incredibile”? Vincere una medaglia o salvare delle vite nel mare Egeo? L’eroismo sportivo, filtrato dallo sguardo di chi ha vissuto l'inferno, viene ridimensionato. L’Olimpiade, che per Yusra è il traguardo di una vita, per Sara è solo un’altra vetrina, svuotata se non è collegata a qualcosa di più grande.
“Ricordi cosa diceva Baba? Trova la tua corsia. Fa la tua gara. Sono tutte stronzate.”
Questa parte è carica di rabbia repressa. Il consiglio paterno – che nel contesto sportivo è una guida, una filosofia – viene ribaltato. La “corsia” non è più una traiettoria personale, ma una trappola. In guerra non si nuota nella propria corsia: si cerca di non affondare. La corsia unica è un privilegio. Sara lo rifiuta. “Dovresti nuotare per tutti noi. [...] Nuota per chi è morto cercando una nuova vita.” La parte più toccante del monologo. Sara restituisce a Yusra il senso della sua presenza ai Giochi, ma lo riformula completamente. Non più come atto individuale, ma come gesto collettivo. Nuotare diventa testimonianza. Ogni bracciata deve essere memoria. Un tributo a chi non ha avuto la stessa possibilità. Non è più sport, è responsabilità morale. “Sei molto più di un’atleta olimpica.” La chiusa è un’incoronazione, ma carica di dolore. Yusra è diventata simbolo, portavoce, corpo politico. Ma questo titolo non è un premio: è un peso. Un fardello che Sara le affida, non con leggerezza, ma con la consapevolezza che lei – Sara – non è riuscita a portarlo.
Questo monologo è uno snodo narrativo che ridefinisce completamente il personaggio di Yusra. Non è più la giovane promessa siriana del nuoto. È una sopravvissuta, una testimone. E questo lo capiamo attraverso lo sguardo di sua sorella, che ha rinunciato alla propria corsa per far spazio a quella di Yusra.
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