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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Victor Frankenstein nel film di Guillermo del Toro rappresenta uno dei momenti più intensi e complessi della storia del cinema gotico moderno. Davanti a un’assemblea di scienziati, il giovane barone espone la sua visione estrema: sfidare la morte e sostituirsi a Dio attraverso la scienza. Questo discorso, a metà tra conferenza e confessione è un testo pieno di tensione, retorica e visioni interiori sul potere di creare e distruggere la vita.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Come prepararlo per un'audizione
Finale del film (con spoiler)
FAQ
Credits e dove trovarlo
Durata: 1 minuto
Guillermo del Toro, fedele alla sua poetica gotica e malinconica, ambienta la sua versione di Frankenstein in una Europa ottocentesca immersa in guerra, febbre scientifica e decadenza morale. La storia si apre in un paesaggio remoto e ostile: l’Artico. Una nave danese, bloccata dai ghiacci nel mezzo di una spedizione, incrocia per caso l’uomo che un tempo era il barone Victor Frankenstein, ridotto a un relitto umano, senza una gamba, in ipotermia e perseguitato da qualcosa di mostruoso che cammina sulle orme del suo passato. Del Toro sfrutta questa cornice estrema – la distesa ghiacciata e silenziosa – come metafora della desolazione interiore dei suoi personaggi: il Capitano Anderson, ossessionato dall’ignoto, e Victor Frankenstein, tormentato dal peso della creazione. La Creatura che assale la nave non è solo un essere mostruoso, ma un simbolo vivente della colpa e dell’abbandono, in grado di rigenerarsi e resistere alla morte, come un peccato che rifiuta di essere sepolto.
Da questo momento, la narrazione si sdoppia in due atti principali, entrambi raccontati in flashback. Prima dal punto di vista di Victor, poi da quello della Creatura. In questo modo, Del Toro frammenta la percezione morale del pubblico, sospendendolo in un territorio grigio dove il mostro e l’uomo si alternano nel ruolo di vittima e carnefice. Nel primo atto, Victor è un giovane aristocratico e geniale chirurgo animato dal sogno prometeico di sconfiggere la morte. Segnato da una famiglia opprimente, dalla perdita della madre e da un padre arrogante, Victor cerca nel superamento biologico della morte un modo per riscattare il proprio dolore. Quando riceve i finanziamenti di Harlander, un affarista corrotto e malato terminale, si getta in un esperimento disperato: costruire un corpo umano nuovo, mescolando i resti dei caduti in guerra e i condannati a morte, per poi rianimarlo grazie all’elettricità.
Ma la nascita della Creatura non è un trionfo scientifico. È un atto cieco, arrogante e privo di umanità. Victor si spaventa, incatena la sua "opera" come un animale e tenta di educarla con crudeltà, incapace di cogliere l’anima sensibile che si nasconde sotto la pelle cucita e le ossa innestate. Quando Elizabeth – figura chiave in questo triangolo tragico – mostra alla Creatura compassione, Victor risponde con rabbia e vendetta. In una spirale di gelosia e fallimenti, brucia il proprio laboratorio e lascia la Creatura a morire tra le fiamme. L’esplosione segna simbolicamente la fine dell’ideale scientifico di Victor e l’inizio della vera tragedia.

Ci fu di nuovo silenzio. E poi… l’impietosa vita.
Per quanto tempo ero morto, non lo sapevo.
Ma vidi che le mie ferite erano guarite.
L’aria gelida dell’inverno mi bruciava nei polmoni.
Mi sentivo più solo che mai.
Perché per qualunque rimedio a tutti i dolori: la morte.
Un dono che tu mi avevi negato.
L’invidia crebbe in me.
E allora decisi di chiedere a te un unico favore, mio creatore.
Decisi di chiedere… una compagna.
“Ci fu di nuovo silenzio. E poi… l’impietosa vita.” : voce bassa, quasi un sussurro;
lunga pausa su “silenzio”; “l’impietosa vita” va detto con amarezza rassegnata, lo sguardo perso nel vuoto, come se ricordasse una punizione.
“Per quanto tempo ero morto, non lo sapevo.”: tono riflessivo; pausa dopo “morto”; il ritmo lento, la voce più calda; il personaggio sembra parlare a se stesso, non a un interlocutore.
“Ma vidi che le mie ferite erano guarite.”: tono più neutro, quasi di constatazione; sguardo rivolto verso le mani o il corpo; accenno di stupore freddo, come chi osserva qualcosa di inspiegabile.
“L’aria gelida dell’inverno mi bruciava nei polmoni.” : respiro profondo prima della frase; “bruciava” va accentuata, con un filo di voce; lo sguardo si stringe, come se rivivesse la sensazione fisica del dolore.
“Mi sentivo più solo che mai.”: pausa lunga prima di pronunciarla; tono basso e stabile, quasi spezzato ma trattenuto; lascia un piccolo silenzio dopo, come se il pensiero restasse sospeso.
“Perché per qualunque rimedio a tutti i dolori: la morte.”: ritmo lento, quasi da confessione; pausa netta prima e dopo i due punti; “la morte” va detta con un tono di rivelazione serena, non disperata.
“Un dono che tu mi avevi negato.”: sguardo diretto, pieno di amarezza; voce più ferma; piccola pausa dopo “dono”; il tono è di accusa calma, non di rabbia.
“L’invidia crebbe in me.”: ritmo più lento; sguardo basso; tono introspettivo, quasi vergognoso; la voce si fa più grave, come se la parola stessa “invidia” pesasse.
“E allora decisi di chiedere a te un unico favore, mio creatore.”: tono rispettoso, contenuto; “mio creatore” va detto con esitazione, come un misto di devozione e dolore; pausa lieve dopo “favore”.
“Decisi di chiedere… una compagna.”: lunga pausa dopo “chiedere”, respirata; “una compagna” va detto piano, con una sfumatura di desiderio puro e triste.
In questo breve ma potentissimo passaggio, la Creatura di Frankenstein riflette sulla propria resurrezione, sulla solitudine e sull’invidia verso gli esseri umani. Tornato in vita dopo l’esplosione della torre, la Creatura osserva il proprio corpo guarito, ma sente che nulla è davvero cambiato: è vivo, ma condannato a esistere senza scopo e senza amore.
La scena è introspettiva, dolorosa, quasi mistica. Il tono è pacato, ma ogni parola scava in profondità. Questo è uno dei momenti più intensi per comprendere l’umanità del “mostro” e la sua richiesta di senso.
La Creatura sottolinea un paradosso: la morte è l’unico sollievo ai dolori, eppure è proprio quel dono che gli è stato negato. Non è la vita che lo tormenta, ma il fatto di non poter scegliere di lasciarla. Il ritorno alla vita non è un miracolo, ma una prosecuzione della sofferenza. La Creatura non comprende quanto tempo sia passato, ma tutto ciò che sente è il gelo, il vuoto e l’assenza.
“Mi sentivo più solo che mai” è forse la frase chiave del monologo. L’essere rianimato non cerca vendetta, ma relazione, condivisione, umanità. Chiedere una “compagna” non è solo un desiderio romantico, ma una richiesta di dignità: la Creatura vuole esistere insieme a qualcuno, non come errore unico e isolato.

La seconda parte del film cambia tono. È più intima, più lirica, più umana. La Creatura si rivela il vero cuore del film, e Del Toro, come già in Il labirinto del fauno o La forma dell’acqua, fa un passo indietro rispetto al punto di vista umano per abbracciare quello della meraviglia ferita. La Creatura fugge e trova rifugio in una capanna ai margini di una foresta. Qui, la narrazione si allontana dall’horror e si avvicina al racconto fiabesco. Come un bambino selvatico che impara il linguaggio degli uomini, la Creatura si avvicina con timore e curiosità a un vecchio cieco che vive con la nipote. È un momento sospeso: la bestia viene accolta senza pregiudizio, amata per quello che è. Ma questa oasi dura poco. Quando il vecchio muore e la famiglia lo ritrova, la Creatura viene accusata ingiustamente e costretta a fuggire di nuovo, segnando così la sua condanna a una vita di solitudine.
Il ritorno nella vita di Victor avviene durante il momento più gioioso della famiglia Frankenstein: il matrimonio tra William ed Elizabeth. Ed è lì che il dolore esplode. La Creatura non cerca vendetta, ma una possibilità: chiede al suo creatore di non lasciarlo solo al mondo, di creare una compagna con cui condividere l’eternità. Victor rifiuta, sprezzante e pieno di orrore, e in un impeto di disprezzo prova ad uccidere la Creatura. Ma sbaglia bersaglio. Elizabeth si frappone e viene colpita mortalmente. L’immagine di Elizabeth che muore tra le braccia della Creatura è forse la più intensa dell’intero film: due "diversi", due esseri segnati dall’amore e dalla violenza dell’uomo, uniti in una scena di struggente dolcezza. La Creatura la consola mentre la vita abbandona il suo corpo. Intanto William – fratello, sposo e figlio prediletto – ammette che è sempre stato terrorizzato dalla follia di Victor, chiudendo così il cerchio del fallimento umano del barone.
A quel punto, Victor non è più uno scienziato, né un padre, né un uomo. È solo una carcassa ossessionata dal proprio errore. Insegue la Creatura fino ai confini del mondo conosciuto, nell’Artico, in un tentativo finale di cancellare la propria colpa con la distruzione totale. Il confronto finale avviene nella stiva della nave, nel gelo e nel silenzio. Victor, morente, si rivolge per l’ultima volta alla Creatura con parole inaspettate: le chiede perdono. La chiama figlio. Le riconosce un’identità e un diritto all’esistenza. È tardi, ma è sincero.
La Creatura accetta il perdono. Spinge la nave fuori dai ghiacci, letteralmente salvando l’equipaggio che voleva distruggerla, e poi si allontana nell’aurora boreale. È un finale senza redenzione facile, ma con un gesto che spezza il ciclo della vendetta. L’ultima immagine è potentissima: la Creatura, sola, osserva la nave che salpa verso la luce, il sole che sorge. Non è solo una liberazione. È la prova che anche ciò che è nato dall’orrore può scegliere la compassione.
Regista: Guillermo del Toro
Sceneggiatura: Guillermo del Toro
Produttore: Guillermo del Toro, J. Miles Dale, Scott Stuber
Cast: Oscar Isaac (Victor Frankenstein) Jacob Elordi (la Creatura) Mia Goth (Elizabeth) Felix Kammerer (William Frankenstein)
Dove vederlo: Netflix

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