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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo finale di Elizabeth in Frankenstein è un passaggio carico di dolcezza e lucidità, in cui il personaggio accetta la morte con consapevolezza e gratitudine. Elizabeth si rivolge alla Creatura con parole intime e poetiche, trasformando un addio in un gesto d’amore assoluto. È un testo breve ma profondissimo, perfetto per attrici che vogliono lavorare sulla verità emotiva, la sottrazione e la presenza scenica.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Finale del film (con spoiler)
Credits e dove trovarlo
Durata: 1 minuto
Guillermo del Toro, fedele alla sua poetica gotica e malinconica, ambienta la sua versione di Frankenstein in una Europa ottocentesca immersa in guerra, febbre scientifica e decadenza morale. La storia si apre in un paesaggio remoto e ostile: l’Artico. Una nave danese, bloccata dai ghiacci nel mezzo di una spedizione, incrocia per caso l’uomo che un tempo era il barone Victor Frankenstein, ridotto a un relitto umano, senza una gamba, in ipotermia e perseguitato da qualcosa di mostruoso che cammina sulle orme del suo passato. Del Toro sfrutta questa cornice estrema – la distesa ghiacciata e silenziosa – come metafora della desolazione interiore dei suoi personaggi: il Capitano Anderson, ossessionato dall’ignoto, e Victor Frankenstein, tormentato dal peso della creazione. La Creatura che assale la nave non è solo un essere mostruoso, ma un simbolo vivente della colpa e dell’abbandono, in grado di rigenerarsi e resistere alla morte, come un peccato che rifiuta di essere sepolto.
Da questo momento, la narrazione si sdoppia in due atti principali, entrambi raccontati in flashback. Prima dal punto di vista di Victor, poi da quello della Creatura. In questo modo, Del Toro frammenta la percezione morale del pubblico, sospendendolo in un territorio grigio dove il mostro e l’uomo si alternano nel ruolo di vittima e carnefice. Nel primo atto, Victor è un giovane aristocratico e geniale chirurgo animato dal sogno prometeico di sconfiggere la morte. Segnato da una famiglia opprimente, dalla perdita della madre e da un padre arrogante, Victor cerca nel superamento biologico della morte un modo per riscattare il proprio dolore. Quando riceve i finanziamenti di Harlander, un affarista corrotto e malato terminale, si getta in un esperimento disperato: costruire un corpo umano nuovo, mescolando i resti dei caduti in guerra e i condannati a morte, per poi rianimarlo grazie all’elettricità.
Ma la nascita della Creatura non è un trionfo scientifico. È un atto cieco, arrogante e privo di umanità. Victor si spaventa, incatena la sua "opera" come un animale e tenta di educarla con crudeltà, incapace di cogliere l’anima sensibile che si nasconde sotto la pelle cucita e le ossa innestate. Quando Elizabeth – figura chiave in questo triangolo tragico – mostra alla Creatura compassione, Victor risponde con rabbia e vendetta. In una spirale di gelosia e fallimenti, brucia il proprio laboratorio e lascia la Creatura a morire tra le fiamme. L’esplosione segna simbolicamente la fine dell’ideale scientifico di Victor e l’inizio della vera tragedia.

Questo mondo non è mai stato un posto per me.
Ho cercato e desiderato qualcosa che non riuscivo a definire.
Ma in te l’avevo trovato.
Sentirsi persi ed essere trovati.
E’ questa la durata dell’amore…
Nella sua brevità…
La sua tragedia…
E’ stato reso eterno.
E’ il miglior modo per svanire…
con i tuoi occhi che guardano i miei.
“Questo mondo non è mai stato un posto per me.“: voce bassa, dolce ma affaticata; pausa breve dopo “mondo”; lo sguardo perso
“Ho cercato e desiderato qualcosa che non riuscivo a definire.”: respiro profondo prima di iniziare; “cercato” va detto con nostalgia, “desiderato” con tenerezza;
“Ma in te l’avevo trovato.”: sguardo che si solleva lentamente verso la Creatura; voce più calda, leggera vibrazione emotiva; pausa prima di “trovato”;
“Sentirsi persi ed essere trovati.“: detta come una rivelazione; tono più luminoso; breve pausa dopo “persi”;
“È questa la durata dell’amore…”: pausa profonda prima di pronunciarla; tono malinconico ma calmo; “durata” va sottolineata con un filo di respiro in più.
“Nella sua brevità… La sua tragedia…”: ritmo frammentato; ogni frase separata da un respiro; tono che si incrina leggermente ma resta misurato;
“È stato reso eterno.”: voce più ferma, limpida; pausa dopo “stato”; accenno di pace nel volto, come se in questa frase trovasse la consolazione finale.
“È il miglior modo per svanire…”: tono più basso; piccola sospensione dopo “svanire”; la voce si attenua, come se si spegnesse insieme al respiro.
“con i tuoi occhi che guardano i miei.”: chiusura intima; voce quasi sussurrata; pausa breve prima di “i miei”; sguardo fisso nella Creatura, senza paura.
Nel suo ultimo respiro, Elizabeth si rivolge alla Creatura con parole che non parlano di paura, ma di connessione e accettazione. Morente, non accusa, non si dispera. Al contrario, ringrazia. Questo monologo è una dichiarazione d’amore fuori dal tempo, pronunciata da chi ha finalmente trovato ciò che cercava in un luogo – e in un essere – totalmente inatteso. Elizabeth non ha più bisogno di capire o lottare. Ha trovato pace nel riconoscersi nello sguardo della Creatura, e decide di svanire con dolcezza, non con rabbia.
“Questo mondo non è mai stato un posto per me” apre con una confessione esistenziale: Elizabeth è stata estranea al mondo, fino a trovare accoglienza in chi era considerato il più estraneo di tutti. Il monologo definisce l’amore non come durata, ma come intensità di riconoscimento: “Sentirsi persi ed essere trovati”. L’incontro con la Creatura non è stato lungo, ma è stato vero. Elizabeth non teme la morte perché l’ha riempita di senso. “È il miglior modo per svanire… con i tuoi occhi che guardano i miei”: la frase finale è una chiusura circolare in cui il dolore si scioglie nella tenerezza. Il testo non richiede pathos drammatico. Richiede presenza piena e voce quieta. Ogni parola è semplice, ma pesata. Ogni pausa ha un significato emotivo. L’attrice deve lavorare sul respiro, sullo sguardo e sulla sincerità.

La seconda parte del film cambia tono. È più intima, più lirica, più umana. La Creatura si rivela il vero cuore del film, e Del Toro, come già in Il labirinto del fauno o La forma dell’acqua, fa un passo indietro rispetto al punto di vista umano per abbracciare quello della meraviglia ferita. La Creatura fugge e trova rifugio in una capanna ai margini di una foresta. Qui, la narrazione si allontana dall’horror e si avvicina al racconto fiabesco. Come un bambino selvatico che impara il linguaggio degli uomini, la Creatura si avvicina con timore e curiosità a un vecchio cieco che vive con la nipote. È un momento sospeso: la bestia viene accolta senza pregiudizio, amata per quello che è. Ma questa oasi dura poco. Quando il vecchio muore e la famiglia lo ritrova, la Creatura viene accusata ingiustamente e costretta a fuggire di nuovo, segnando così la sua condanna a una vita di solitudine.
Il ritorno nella vita di Victor avviene durante il momento più gioioso della famiglia Frankenstein: il matrimonio tra William ed Elizabeth. Ed è lì che il dolore esplode. La Creatura non cerca vendetta, ma una possibilità: chiede al suo creatore di non lasciarlo solo al mondo, di creare una compagna con cui condividere l’eternità. Victor rifiuta, sprezzante e pieno di orrore, e in un impeto di disprezzo prova ad uccidere la Creatura. Ma sbaglia bersaglio. Elizabeth si frappone e viene colpita mortalmente. L’immagine di Elizabeth che muore tra le braccia della Creatura è forse la più intensa dell’intero film: due "diversi", due esseri segnati dall’amore e dalla violenza dell’uomo, uniti in una scena di struggente dolcezza. La Creatura la consola mentre la vita abbandona il suo corpo. Intanto William – fratello, sposo e figlio prediletto – ammette che è sempre stato terrorizzato dalla follia di Victor, chiudendo così il cerchio del fallimento umano del barone.
A quel punto, Victor non è più uno scienziato, né un padre, né un uomo. È solo una carcassa ossessionata dal proprio errore. Insegue la Creatura fino ai confini del mondo conosciuto, nell’Artico, in un tentativo finale di cancellare la propria colpa con la distruzione totale. Il confronto finale avviene nella stiva della nave, nel gelo e nel silenzio. Victor, morente, si rivolge per l’ultima volta alla Creatura con parole inaspettate: le chiede perdono. La chiama figlio. Le riconosce un’identità e un diritto all’esistenza. È tardi, ma è sincero.
La Creatura accetta il perdono. Spinge la nave fuori dai ghiacci, letteralmente salvando l’equipaggio che voleva distruggerla, e poi si allontana nell’aurora boreale. È un finale senza redenzione facile, ma con un gesto che spezza il ciclo della vendetta. L’ultima immagine è potentissima: la Creatura, sola, osserva la nave che salpa verso la luce, il sole che sorge. Non è solo una liberazione. È la prova che anche ciò che è nato dall’orrore può scegliere la compassione.
Regista: Guillermo del Toro
Sceneggiatura: Guillermo del Toro
Produttore: Guillermo del Toro, J. Miles Dale, Scott Stuber
Cast: Oscar Isaac (Victor Frankenstein) Jacob Elordi (la Creatura) Mia Goth (Elizabeth) Felix Kammerer (William Frankenstein)
Dove vederlo: Netflix

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