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~ LA REDAZIONE DI RC
Kirsty non è un personaggio centrale nella narrazione, ma quando prende la parola in questo monologo, diventa il centro. È una delle voci laterali che la serie mette spesso in primo piano: persone marginali, spesso dimenticate, la cui storia però custodisce una verità scomoda. Il contesto in cui si colloca questa scena non è tanto importante quanto il suo contenuto emotivo e narrativo: Kirsty racconta una verità che nessuno le ha chiesto di dire, o meglio, che molti preferirebbero non sentire. È una confessione a metà, uno sfogo e una chiamata d'accusa allo stesso tempo.
STAGIONE 1 EP 5
MINUTAGGIO: 45:21-47:31
RUOLO: Kirsty
ATTRICE: -
DOVE: Netflix
ITALIANO
Sono stata in un rifugio per donne per un pò di tempo, prima di essere arrestata. E lì ho conosciuto una donna. Non è rimasta a lungo, ma… siamo rimaste amiche. Mi ha detto che suo marito aveva tentato di ucciderla, cazzo, l’aveva riempita di botte. Le aveva spaccato le costole e l’aveva presa a pugni. Cazzo, le aveva pure fracassato uno zigomo. Era convinta che lui l’avrebbe trovata al rifugio, così un giorno se n?é andata. Da allora non ‘ho più rivista, né ho più pensato a lei. Finché ho visto la sua faccia su tutti i telegiornali… Il caso che seguiva lingard. Il marito che aveva ucciso la moglie, Finch. La donna che conoscevo era sua moglie. Andrea Finch. L’accordo era testimoniare che Andrea era stata al rifugio in cambio della scarcerazione. Ma all’ultimo quella puttana ha cambiato idea. Ha detto che la testimonianza era annullata, con la scusa che una persona come me non aveva credibilità, solo che in giro si diceva che io avessi parlato con lei. Così l’ho chiamata, e le ho detto che… non mi sentivo al sicuro. Che mi avevano minacciata.
Una bomba pronta ad esplodere. Così viene descritto Carl Morck, protagonista assoluto di Dept. Q, la nuova serie crime di Netflix scritta e diretta (in buona parte) da Scott Frank. Non è un detective come gli altri, e la serie stessa non è un procedural nel senso tradizionale. È piuttosto un noir psicologico travestito da crime investigativo, costruito sulla fragilità umana e sulla rabbia repressa.
Morck (Matthew Goode) è il relitto. È sopravvissuto a una sparatoria devastante che ha ucciso un giovane collega, paralizzato il suo partner Hardy (Jamie Sives) e lasciato lui stesso ferito. Il senso di colpa è la sua seconda pelle. Non parla, sibila. E quando lo fa, è per colpire con sarcasmo o disprezzo. L’esilio forzato in un seminterrato della stazione di polizia di Edimburgo – il famigerato Dipartimento Q – è il suo purgatorio. Gli danno una stanza, una scrivania e una missione di facciata: spulciare vecchi casi irrisolti. Nessuno si aspetta che li risolva davvero. Serve solo tenerlo lontano dai riflettori e dare un contentino all’opinione pubblica. Ma Morck non è il tipo da stare buono. Scava, fiuta, si incattivisce. E soprattutto ricomincia a fare ciò per cui è tagliato: cercare la verità nei punti ciechi del sistema.
Il cuore narrativo della prima stagione ruota attorno al caso di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), avvocata di alto profilo, scomparsa nel nulla quattro anni prima. All’apparenza, un cold case senza uscita: niente corpo, niente movente, niente sospetti solidi. Ma è proprio l’assenza di risposte a risvegliare l’istinto predatorio di Morck.
Attorno a lui prende forma una squadra anomala: Akram Salim (Alexej Manvelov), ex informatore siriano dall’intelligenza quieta e dallo sguardo che scruta dentro; e Rose Dickinson (Leah Byrne), agente fragile e acuta, tornata in servizio dopo un crollo psicologico. Nessuno li ha scelti davvero. Sono i reietti, i falliti, gli scarti. Ed è proprio per questo che funzionano.
Insieme, iniziano a collegare indizi sparsi, a rileggere con occhi nuovi ciò che altri hanno archiviato. Lingard non è solo una vittima. È un nodo, un perno intorno al quale ruotano potere, ambizione e un passato che qualcuno ha voluto cancellare.
La sua psicoterapia forzata con la dottoressa Rachel Irving (Kelly Macdonald) non è una sottotrama di contorno. È un campo di battaglia parallelo, dove Morck combatte contro il silenzio emotivo che lo imprigiona. Le sedute, per quanto brevi, sono momenti di svelamento e collisione. Non c’è redenzione facile: solo resistenza.
Lo stesso vale per i suoi colleghi. Akram è un uomo che ha già vissuto l’inferno della guerra e della burocrazia occidentale. Rose nasconde traumi che affiorano a tratti, senza mai diventare etichette. Ognuno ha una ferita che diventa strumento di lettura del mondo.
Quello che era nato come esilio diventa un laboratorio etico. Il seminterrato ammuffito del Dipartimento Q si trasforma, episodio dopo episodio, in una specie di confessionale laico. I cold case che vengono affrontati non sono semplici puzzle da risolvere. Sono storie congelate nel tempo, che contengono il dolore e l’ingiustizia sedimentati nella società.
Matthew Goode, qui davvero in stato di grazia, porta in scena un personaggio che riesce a essere respingente e magnetico allo stesso tempo. Morck è il classico investigatore geniale che però detesti all’inizio. E poi, lentamente, inizi a capire. Perché la sua rabbia non è gratuita. La sua chiusura emotiva ha radici profonde. E il suo sarcasmo è una forma di sopravvivenza. Non è un crime consolatorio. È una serie che lavora per sottrazione, costruita su silenzi, mezze verità, omissioni. Non offre soluzioni nette, né personaggi rassicuranti. È un racconto di detriti umani che diventano investigatori proprio perché nessun altro lo vuole fare.
Il monologo si apre con una frase che ha il peso dell’abbandono: “Sono stata in un rifugio per donne per un po’ di tempo, prima di essere arrestata.” Già qui c’è una compressione fortissima di vissuto. Due luoghi che raccontano, da soli, una biografia: il rifugio e il carcere. Non servono dettagli. Bastano quelle due parole per sapere che Kirsty ha vissuto più ai margini che al centro. Poi entra in scena Andrea, la donna che conosceva al rifugio. Il tono cambia, diventa più intimo. Ma non c'è dolcezza, solo empatia ruvida: “Cazzo, l’aveva riempita di botte… le aveva pure fracassato uno zigomo.” Qui c’è un’esplosione verbale che rompe il tono neutro iniziale. Kirsty è visibilmente scossa mentre racconta la violenza subita da Andrea. Non si tratta di pietà. Si percepisce piuttosto una rabbia sedimentata, condivisa, una ferita che non è solo dell’altra, ma anche sua.
Il cuore del monologo è nel momento in cui realizza che la donna del rifugio e la vittima del caso Finch sono la stessa persona: “La donna che conoscevo era sua moglie. Andrea Finch.” Questo è il nodo tragico: Kirsty detiene un’informazione chiave, ma il sistema non è pronto a riconoscerla come credibile. Qui arriva la parte più inquieta e moralmente ambigua del monologo: l’accordo per testimoniare in cambio della scarcerazione, e poi la frustrazione quando Lingard si tira indietro: “Ha detto che la testimonianza era annullata, con la scusa che una persona come me non aveva credibilità.” Questa frase è centrale. Non è solo un’accusa a un personaggio (Lingard), è una condanna del sistema. Kirsty, come tanti altri nella serie, è parte di un sottobosco umano di cui nessuno si fida, anche quando dice la verità. La “credibilità” qui è una questione di classe, storia personale, apparenza. E il fatto che lei ne sia consapevole la rende ancora più feroce.
“Così l’ho chiamata, e le ho detto che… non mi sentivo al sicuro. Che mi avevano minacciata.” Una frase che sembra quasi neutra, ma contiene un’accusa implicita. È l’atto finale di un gioco sporco in cui Kirsty ha cercato di far valere il suo potere – l’unico che le restava: la parola. Non sappiamo esattamente cosa sia successo dopo quella chiamata, ma sappiamo che ha lasciato il segno. Il modo in cui lo dice – con quel tono da “non mi hai voluta ascoltare, ora affronta le conseguenze” – suggerisce più di quanto dichiari apertamente.
Il monologo di Kirsty è breve, ma stratificato. È la voce di una donna senza voce, che si è vista negare la possibilità di essere utile, ascoltata, creduta. E allora agisce nel modo che conosce: usando l’ambiguità, la minaccia, la manipolazione. Non è una testimone pulita. Ma proprio per questo è vera. In un mondo dove la giustizia è spesso appaltata a chi ha potere, Kirsty è l’esempio perfetto di come le verità più scomode arrivino da chi si cerca di mettere a tacere. È un personaggio scritto per disturbare, e funziona.
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