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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva all’inizio del film "Amore a Copenaghen". Mia è in cima alla Chiesa del Nostro Redentore, un luogo simbolico: alto, esposto, panoramico. È una posizione fisica che riflette perfettamente la sua condizione interiore: è sospesa tra la vertigine di un amore appena conquistato e la paura che tutto possa sfuggirle di mano da un momento all’altro. Ma non è solo una dichiarazione d’amore per Emil. Questo monologo è anche un tentativo di autoanalisi, di rimettere in ordine il caos emotivo degli ultimi anni: relazioni occasionali, paura dell’intimità, rifiuto dell'impegno, poi l’incontro con Emil e il lento processo che ha portato Mia a cambiare sguardo sul mondo e su se stessa.
MINUTAGGIO: 00:20-5:40
RUOLO: Lina
ATTRICE: Rosalinde Mynster
DOVE: Netflix
ITALIANO
La felicità è qui. In cima alla chiesa del nostro redentore. Senza mutandine. Con Emil, che mi dice che è innamorato di me. Credo che la maggior parte di noi abbia il desiderio di essere legata ad altre persone, di appartenere a qualcuno. Qualcuno che resti nei momenti difficili, quando tutto diventa stupido e brutto. Stava quasi per non succedere, tra me ed Emil. La prima volta che l’ho visto non l’ho neanche notato. Era arrivato insieme a Gro, la mia migliore amica. Quello che ho pensato di lui, er vecchio e strano. Non avevo notato Emil però avevo notato…lui. Guarda in faccia la realtà, qualcuno direbbe così, ma non io. Non se ne parla neanche, detto con parole franche, e forse starei ancora a scoparmi qualche teenager nei bagni pubblici, se non fosse stato per Gro, che insistito. Ok, era dolce, intelligente, maturo, ma lo avrei potuto scaricare lo stesso. Poi sono andato a trovare mio fratello e il suo compagno, e sanno essere veramente una coppia. E poi sono arrivati i miei trent’anni, e ho deciso di dare al vecchio e strano una chance.
Il cuore del racconto non è il colpo di fulmine né la scintilla del primo bacio, ma quello che succede dopo. Quello che molti film si guardano bene dal raccontare: il lungo, accidentato percorso tra desiderio, frustrazione e identità, visto attraverso il punto di vista di una donna che, nel bel mezzo della propria vita adulta, si scontra con un bisogno emotivo tanto ancestrale quanto complicato da realizzare – diventare madre. Mia è una scrittrice affermata. I suoi romanzi vendono bene, la carriera è solida, la vita quotidiana – almeno all’apparenza – ben organizzata. Ma quello che si agita sotto la superficie è un senso di incompletezza che le relazioni occasionali non riescono a colmare. Non è tanto una crisi di mezza età quanto una riflessione sulla propria posizione nel mondo: una donna autonoma, realizzata, che però sente che manca qualcosa. E quel “qualcosa” prende una forma molto precisa: un figlio.
L’incontro con Emil, un papà single con due figli, sembra dare una direzione nuova e inaspettata a tutto questo. I due si piacciono, si legano, e Mia si inserisce in punta di piedi – ma con convinzione – nella quotidianità familiare. Non come intrusa, ma come presenza affettuosa e accettata. È qui che inizia il vero arco narrativo del film. Mia e Emil decidono, con naturalezza, di provare ad avere un figlio insieme. Il problema è che non va come nei romanzi rosa. Non basta volere un figlio per averlo, e il corpo – specie quando si è oltre i trentacinque – non sempre collabora. Inizia così una spirale sempre più faticosa fatta di tentativi, esami, consulti medici, frustrazioni. Il film ha il merito di mostrare quanto questa fase possa incidere sull’equilibrio emotivo della coppia. Emil, pur partecipe, rimane spesso sullo sfondo. È Mia il vero centro magnetico della storia, e il suo viaggio diventa quello di tante donne che si ritrovano a fare i conti con aspettative sociali, tempistiche biologiche e un senso di urgenza che si fa quasi fisico. Il timore del “troppo tardi” pesa su ogni scena, e la scrittura, in voice-over, ce lo sussurra con frasi tratte dai libri che Mia sta scrivendo, rendendo tutto più intimo, quasi diaristico.
“La felicità è qui. In cima alla chiesa del nostro redentore. Senza mutandine.”
L’incipit è un’immagine ironica e insieme tenera, che mescola intimità, leggerezza e un senso di fragilità. È un modo molto “Mia” di dire che è felice, ma lo fa senza retorica, anzi, con quel tono un po’ sporco e autocritico che attraversa tutto il film. “Credo che la maggior parte di noi abbia il desiderio di essere legata ad altre persone, di appartenere a qualcuno.” Qui si passa a un livello più profondo. L’appartenenza non è solo romanticismo: è bisogno umano. È la spinta che ha mosso tutta la storia di Mia, anche quando lei fingeva di non averne bisogno. Lo dice adesso con sincerità, quasi con rassegnazione, come chi ha finalmente mollato il cinismo per riconoscere che non è debolezza volere qualcuno accanto. “Stava quasi per non succedere, tra me ed Emil.” Questa parte è una sorta di flashback emotivo. Mia racconta come quell’incontro che oggi definisce fondamentale era nato sotto una cattiva luce, tra pregiudizi e superficialità. Emil era “vecchio e strano”. Lei era distratta, cinica, forse ancora impegnata a scappare. “E forse starei ancora a scoparmi qualche teenager nei bagni pubblici, se non fosse stato per Gro…”
Il linguaggio è volutamente crudo, senza filtri, ed è questo a renderlo autentico. Mia non vuole fare la morale, vuole raccontare come stava, davvero. Il sesso usato come disimpegno, la fuga dal rischio dell’intimità. E poi la presenza di Gro, l’amica che ha funzionato da ponte verso qualcosa di nuovo. “Poi sono arrivati i miei trent’anni, e ho deciso di dare al vecchio e strano una chance.” Questo finale è rivelatore. L’amore non arriva con le luci soffuse e i violini, ma con una scelta. Una decisione concreta. Quella di fermarsi, provare, rischiare. Emil non è l’uomo perfetto, ma è reale. E Mia, dopo mille deviazioni, accetta di provarci davvero.
Questo monologo è una vera e propria fotografia narrativa di Mia: cinica e tenera, sarcastica ma fragile, capace di riflessioni profonde anche quando si nasconde dietro il linguaggio diretto e un po’ sboccato. È una donna che ha passato metà della vita a schivare il dolore scegliendo l’ironia, e ora si ritrova a guardarlo in faccia.
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