Monologo femminile - Scarlett Johansson in \"Lucy\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo arriva in un momento chiave del film “Lucy”: Lucy ha superato il 60% di utilizzo cerebrale. Non è più semplicemente una ragazza potenziata da una droga. Sta diventando qualcos’altro. La scena è costruita per spiazzare: Lucy parla in maniera fredda, quasi come un’intelligenza artificiale. Non sta più comunicando per condividere emozioni, ma per trasmettere dati, teorie, visioni. Sta ragionando come un sistema. Come una rete. Quello che dice non è pensato per confortare o ispirare, ma per spostare completamente il punto di vista dello spettatore.

Uomini e cellule

MINUTAGGIO: 1:08:14-1:10:00

RUOLO: Lucy

ATTRICE: Scarlett Johansson

DOVE: Netflix

ITALIANO

Ogni cellula conosce e parla con ogni altra cellula. Le cellule si scambiano migliaia di Bit di informazioni al secondo. Si raggruppano e formano una gigantesca rete di comunicazione che, a sua volta, forma la materia. Le cellule si uniscono, assumono una forma, si deformano, si riformano. Non fa differenza, è la stessa cosa. Gli uomini si considerano unici e quindi hanno basato l’intera teoria dell’esistenza sulla loro unicità. “Uno” è la loro unità di misura. Ma non è così. I sistemi sociali che abbiamo costituito sono un abbozzo. “Uno più uno uguale due”, questo abbiamo imparato. Ma uno più uno, non ha mai fatto due. Non esistono, in realtà, né numeri, né lettere. Abbiamo codificato la nostra esistenza per ridurla a dimensione umana, per renderla comprensibile. Abbiamo creato una scala di misura, così da dimenticare la sua natura insondabile. Filmi un’auto che sfreccia sulla strada, velocizzi l’immagine all’infinito, e l’auto scompare. Quindi, che prove abbiamo della sua esistenza? Il tempo dà legittimità alla sua esistenza. Il tempo è la sola, vera, unità di misura. È la prova dell’esistenza della materia. Senza tempo, noi non esistiamo.

Lucy

"Lucy" (2014) di Luc Besson è un film che si presenta come fantascienza d’azione, ma che gioca con concetti filosofici, neuroscientifici e pseudo-scientifici per costruire una narrazione che evolve da thriller urbano a visione cosmica. Lucy è una studentessa americana che vive a Taipei e si ritrova, suo malgrado, coinvolta in un traffico di una nuova droga sintetica: la CPH4. Dopo un’operazione chirurgica forzata, questa sostanza viene impiantata nel suo addome come parte di un traffico internazionale. Ma la sostanza si disperde nel suo corpo. Da quel momento, il cervello di Lucy (Scarlett Johansson) inizia ad attivarsi progressivamente, superando la soglia del 10%, che nel film viene proposta come il limite attuale dell’uso cerebrale umano (una teoria falsa, ma che nel contesto della sceneggiatura diventa fondamento narrativo). Più aumenta la sua capacità cerebrale, più Lucy perde il legame con la propria umanità, guadagnando in cambio controllo sul tempo, la materia e lo spazio.

“Lucy” è un film che prende un’idea e la spinge fino alle estreme conseguenze. Non si ferma mai a riflettere su quanto sia verosimile, ma lavora sull’intensità delle trasformazioni. È cinema d’azione mescolato a un’ossessione filosofica: che cos'è la conoscenza? A cosa porta la piena consapevolezza? Il film non è interessato tanto alla plausibilità quanto alla costruzione di un'esperienza sensoriale e visiva. E infatti la parabola di Lucy è quella di un essere umano che diventa qualcosa di altro. È un racconto di transumanesimo, in cui il corpo diventa un contenitore transitorio. Quando Lucy raggiunge il 100%, non è più una persona: è informazione pura, coscienza astratta.

Il punto più interessante del film è la progressione della protagonista, interpretata da Scarlett Johansson. Lucy inizia come una ragazza impaurita, costretta a portare avanti un compito disumano. Ma man mano che le sue capacità aumentano, inizia a distaccarsi dall’umanità, nel senso più emotivo del termine. La sua voce si fa piatta, i suoi occhi non cercano più connessione. È come se si stesse deumanizzando mentre diventa iper-cosciente. C’è una scena chiave – quando Lucy chiama sua madre – in cui la protagonista tenta di mettere in parole cosa significhi sentire il proprio corpo cambiare, ricordare ogni dettaglio della propria infanzia, percepire le cellule moltiplicarsi. È forse il momento più “umano” del film, un monologo che fa da ponte tra ciò che era e ciò che sta diventando. Johansson qui lavora su un registro molto misurato, trattenuto, che dà alla scena un senso di autenticità pur in un contesto surreale.

Il climax porta Lucy a dissolversi nella materia stessa, diventando un’entità non più riconoscibile come essere umano. È un finale che richiama Kubrick e il viaggio finale di 2001: Odissea nello spazio, ma lo fa con toni e velocità molto diversi. Lucy alla fine lascia al mondo un artefatto: un dispositivo (una penna USB) che racchiude tutta la sua conoscenza. È un gesto che fonde il messianico con il digitale.

Analisi Monologo

"Ogni cellula conosce e parla con ogni altra cellula. Le cellule si scambiano migliaia di Bit di informazioni al secondo." Qui Lucy mette sul tavolo un principio biologico che viene spinto verso l’astrazione totale. Sta parlando della comunicazione cellulare come di un linguaggio universale, paragonabile alla rete Internet. Le cellule non sono più semplici unità biologiche, ma nodi di una rete globale, cosmica. Ogni forma di vita è interconnessa da questo scambio costante di dati. È un modo di rappresentare la vita come un sistema decentralizzato, privo di gerarchie. "Gli uomini si considerano unici e quindi hanno basato l’intera teoria dell’esistenza sulla loro unicità." Questo passaggio è un attacco diretto al punto di vista antropocentrico. Lucy sta dicendo: ci siamo messi al centro dell’universo per necessità, per comodità, ma è un costrutto fragile. La “unità di misura” dell’essere umano (il numero, la lettera, l’identità singolare) è una forma di semplificazione. La realtà non funziona secondo i nostri parametri.

"Uno più uno non ha mai fatto due." Una frase che sembra quasi una provocazione. Ma il punto è che l’idea stessa di “uno” è arbitraria. In natura, in fisica, nelle dinamiche quantistiche, la somma non funziona come in matematica scolastica. Due onde si sommano e si annullano. Due particelle si fondono in una nuova particella. Il mondo reale è fluido, non rigido. La logica binaria, quella che abbiamo creato per orientarci, è utile ma limitata. Lucy lo sottolinea con forza: le nostre codifiche sono solo appigli. "Filmi un’auto che sfreccia sulla strada, velocizzi l’immagine all’infinito, e l’auto scompare." Questa è forse la parte più visuale e cinematografica del monologo. Un esempio semplice ma efficace per far capire come la percezione sia legata al tempo. Se togli il tempo, togli la possibilità di vedere, comprendere, misurare. L’esistenza è tale solo in relazione al tempo.

"Il tempo è la sola, vera, unità di misura." Qui il monologo si chiude con l’idea più forte e centrale: il tempo come unico fondamento oggettivo. Non il corpo, non la materia, non l’identità. Il tempo. È ciò che permette alla materia di essere percepita. Senza tempo, niente cambia, niente si trasforma, niente esiste nel modo in cui lo intendiamo.

Conclusione

Questo monologo è lo specchio di ciò che Lucy è diventata: una coscienza senza più confini biologici, culturali o linguistici. Le sue parole non cercano empatia. Sono come un messaggio alieno. Parla agli umani, ma da un’altra dimensione cognitiva. Dal punto di vista cinematografico, è un momento chiave perché marca una rottura definitiva. Lucy non è più un personaggio che agisce in base a desideri o paure. È diventata un’idea. Sta parlando come se fosse una manifestazione del tempo stesso.

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