Monologo femminile - Sonia Bergamasco in \"Il Nibbio\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo di Giuliana Sgrena è uno dei momenti più forti – anche se brevi – de Il Nibbio. È una voce strozzata dalla paura, sì, ma che riesce comunque a mantenere una tensione morale, un'idea precisa di testimonianza, anche nel momento più vulnerabile. Giuliana è ostaggio da diversi giorni. È tenuta prigioniera da un commando sunnita in Iraq e viene costretta a registrare un messaggio da inviare in Italia. In teoria dovrebbe essere un video di propaganda, ma il testo – scritto probabilmente con un margine di libertà – diventa molto di più: una richiesta di aiuto, una testimonianza di guerra e un grido politico. 

Messaggio a casa

MINUTAGGIO: 47:00-48:30

RUOLO: Giuliana Sgrena

ATTRICE: Sonia Bergamasco

DOVE: Netflix

ITALIANO

Dalla fine di gennaio ero qui per testimoniare la situazione di questo popolo, che muore ogni giorno. Migliaia di persone non hanno più da mangiare, non hanno luce, non hanno acqua. Io vi prego, mettete fine all’occupazione. Lo chiedo al governo italiano. Lo chiedo al popolo italiano, perché faccia pressione sul governo. Questo popolo non deve più soffrire così. Ritirate le truppe in Iraq. Aiutatemi. Vi prego, aiutatemi. Peter, aiutami tu. Sei sempre stato con me in tutte le mie battaglie. Ti prego, aiutami, fai vedere le foto che ho fatto sui bambini colpiti dal cluster bomb, sulle donne. Io conto su di te. La mia speranza è solo in te, Peter, ti prego aiutami.

Il Nibbio

Il film “Il Nibbio” si muove lungo una linea narrativa precisa, tesa e dolorosa, come un filo d’acciaio che tiene in equilibrio, scena dopo scena, il valore di una vita e il peso di una scelta. Non è un film che cerca la commozione facile: cerca la responsabilità, personale e collettiva. Ed è in questo contesto che prende forma la trama, costruita con passo sobrio, su base reale e con un’attenzione chirurgica al contesto storico-politico.

Roma, 4 febbraio 2005. Nicola Calipari (interpretato da Claudio Santamaria) sta per partire in vacanza con la sua famiglia. È un momento di sospensione, quel tipo di pausa che spesso nella narrazione coincide con il primo segnale che qualcosa sta per cambiare. Ed è così: una telefonata lo richiama a Roma. Giuliana Sgrena, giornalista de Il Manifesto, è stata rapita a Baghdad da un commando sunnita.

Qui si apre la vera storia. Calipari viene reinserito nel cuore operativo del SISMI con un mandato: riportare a casa Giuliana viva. Per 28 giorni si muove tra Roma e Baghdad, tra contatti istituzionali, trattative delicate e un contesto geopolitico instabile, quasi sempre ostile.

Il film si costruisce su una tensione costante, che non viene mai appiattita in un thriller hollywoodiano, ma nemmeno svuotata dalla sua dimensione emotiva. Calipari è presentato come un uomo profondamente coscienzioso, senza eroismi da copione, che prende il carico della sua missione sulle spalle senza mai sollevarsi come simbolo. E questa è una delle scelte più interessanti del film: la narrazione tiene lontano il personaggio da ogni forma di mitizzazione.

Parallelamente, vediamo Giuliana Sgrena prigioniera, spaventata ma lucida, e le figure che orbitano intorno al tentativo di liberarla: il direttore de Il Manifesto, il compagno della giornalista, membri dell’intelligence e delle istituzioni. È un mosaico che lentamente si compone, senza accelerazioni narrative, fino ad arrivare al punto più tragico: il ritorno in patria, la liberazione di Giuliana, e l’uccisione di Calipari da parte di un soldato statunitense al checkpoint di Baghdad.

L’uccisione di Calipari è mostrata come un incidente irreparabile, figlio di incompetenza e rigidità, non di un complotto. Eppure, la sensazione che resta è quella di un uomo sacrificato da un sistema cieco, o quantomeno disinteressato al contesto umano di quella vicenda.

Analisi Monologo

La prima parte del messaggio stabilisce il perché Giuliana fosse in Iraq: "ero qui per testimoniare la situazione di questo popolo". È una frase semplice, ma porta dentro tutto il senso della sua missione. Non è lì come spettatrice o semplice reporter, ma come testimone, nel senso più profondo del termine: qualcuno che guarda per poter raccontare. Questa apertura è importante anche perché è la parte che rende credibile il messaggio agli occhi dei suoi rapitori: Giuliana inquadra la crisi umanitaria – fame, mancanza di luce e acqua – in un discorso che accusa direttamente l’occupazione militare. È un atto di equilibrio tra ciò che le viene imposto di dire e ciò che lei vuole trasmettere comunque.

In questa sezione Giuliana si rivolge direttamente al popolo italiano. L’appello è rivolto sia alle istituzioni che alla coscienza civile: "Lo chiedo al popolo italiano, perché faccia pressione sul governo." È in questo passaggio che si capisce quanto il messaggio sia ibrido. Da un lato, è una parte obbligata, scritta forse sotto dettatura; dall’altro, Giuliana non lo pronuncia con tono passivo. È come se stesse sfruttando lo spazio concessole per ribadire una posizione che comunque sente propria. Il rischio qui, nel film, era di rendere questa parte didascalica o meccanica. Ma il tono che Sonia Bergamasco riesce a dare alla voce è pieno di esitazioni che rendono il tutto profondamente umano.

Il cuore emotivo del monologo è in questo passaggio finale. Giuliana si rivolge a Peter – nel film, il suo compagno – in un tono che cambia completamente registro: da giornalista a compagna, da testimone a persona. "Ti prego, aiutami, fai vedere le foto..." non è solo un'espressione di disperazione, ma una richiesta concreta: che il suo lavoro, il suo sguardo, non venga cancellato. Anche se lei dovesse sparire, la testimonianza visiva deve restare. Le foto dei bambini colpiti da cluster bomb e delle donne diventano quasi un’eredità simbolica. In un film così sobrio, questo momento è tra i pochi in cui affiora un’intimità autentica, che sfonda la superficie della cronaca per entrare nel dolore privato.

Conclusione

Questo monologo condensa tutto ciò che Il Nibbio cerca di raccontare senza mai alzare la voce. È una scena liminale, sospesa tra costrizione e verità, tra messaggio politico e confessione personale. È cinema che si ferma per ascoltare, che non spiega troppo, ma lascia che siano le parole – e le esitazioni tra le parole – a parlare da sole.

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