Monologo femminile - Tiffany in \"Fear Street: Prom Queen\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Nel mondo dei teen horror, il monologo iniziale è spesso la chiave d’accesso allo stato emotivo della protagonista, una dichiarazione di intenti mascherata da diario interiore. In Fear Street: Prom Queen, Lori Granger ci accompagna in un’apertura che ricorda le confessioni sussurrate delle final girl più memorabili. Il suo non è un classico “prologo spaventoso”, ma un’istantanea che ci colloca in una Shadyside in bilico tra mitologia urbana e degrado sociale. Lori parla come una ragazza che ha già accettato il peso del suo destino, ma che – nonostante tutto – decide di provarci lo stesso.

La maledizione di Granger

MINUTAGGIO: 41:30-43:30

RUOLO: Tiffany

ATTRICE: Fina Strazza

DOVE: Netflix

INGLESE

Hey, Mel. Lori's been sniffing around Tyler. Really? Yeah. Like a psycho. And we all know what happens when a Granger falls for someone way out of their league, don't we? Crazy, slutty Rosemary fell for a beautiful Sunnyvale boy. You can stop. I've heard it a million times. But the boy didn't really love her, did he? No, he just hopped across the tracks when he wanted an easy lay. So when Rosie's belly got big, he just bolted in the other direction. But... Rosemary followed him. All right, stop. And she watched. And she stared. And finally, she slit his throat and left him to bleed out by the side of a dirty old river. That's enough, Tiffany. The police couldn't prove it. But everyone knew she did it. And they've talked about it ever since. And who was Rosemary's baby? It was little Lori Granger. Your mom's a murderous freak. The Granger name is tainted. And you want to be prom queen. Hmm. You're nothing. You're no one. Go home, Lori.

ITALIANO

Ehi, Mel, Lori sta cercando di sedurre Tyler. Già, è pazza di lui. E sappiamo tutti quello che succede quando una Granger si innamora di qualcuno si innamora di qualcuno fuori dalla sua portata, no? La “Folle Troietta Rosemary”, innamorata di un ragazzo di Sunnyvale stupendo. Ma il ragazzo non ricambiava il suo amore. No, lui andava da lei solo quando aveva voglia di una scopata facile. Così, quando a Rosemary è cresciuta la pancia, lui se l’è data a gambe levate. Ma… a Rosemary l’ha seguito. Lo ha osservato… lo ha spiato… e alla fine… ha tagliato la gola a quel poveraccio, e lo ha lasciato a morire dissanguato sulla riva di un fiume. La polizia non ha trovato prove, ma tutti sapevano che era stata lei. Non si parla d’altro, da quel giorno. Indovina chi è la figlia di Rosemary: la piccola Lory Granger. Tua madre è un’assassina psicopatica. Il nome Granger è dannato, e tu vuoi essere la reginetta del ballo? Mhm… Tu non sei nessuno. Non vali niente. Tornatene a casa, Lori.

Fear Street: Prom Queen

Chi ama lo slasher lo sa: la ripetizione non è un difetto, è parte del gioco. Lo schema, i personaggi, le morti sempre più fantasiose: tutto deve tornare come un rituale. Ecco perché Fear Street: Prom Queen, quarto capitolo del franchise ispirato a R.L. Stine, funziona per chi sa cosa aspettarsi – e non ha pretese che vadano oltre.

Il film, diretto da Matt Palmer (già regista di Calibre), si presenta come una classica discesa nella follia liceale americana, condita da paillettes, lacca e una playlist vintage da far invidia a un DJ set anni ‘80. La protagonista è Lori Granger, outsider dal passato familiare pesante, che cerca una via di redenzione sociale puntando dritta al trono della reginetta del ballo.

Fear Street: Prom Queen si colloca con astuzia tra il teen slasher e il prom movie, due generi che negli anni hanno flirtato più volte: da Carrie (che resta l’indiscusso punto di riferimento) fino a Prom Night o Jawbreaker. Qui il meccanismo è lo stesso: un’adolescente marginalizzata si ribella alle gerarchie scolastiche, e attorno a lei inizia a morire chiunque si frapponga tra lei e la corona. Il film non si preoccupa di costruire tensione psicologica o nuove dinamiche: prende a piene mani da archetipi noti – la reginetta crudele, il fidanzato zerbino, l’amica dark e intelligente – e li gioca con una punta di autoconsapevolezza, ma senza arrivare al metacinema che aveva reso interessante la trilogia iniziale del 2021 diretta da Leigh Janiak.

Analisi Monologo

"Ehi, Mel, Lory sta cercando di sedurre Tyler." L’attacco parte in modo apparentemente leggero, come una battuta tra amiche, e proprio per questo è ancora più pericoloso. Tiffany non si rivolge direttamente a Lori: parla di lei, davanti a lei, escludendola già a livello comunicativo. È una tecnica da manipolatrice esperta, dove il linguaggio viene usato per creare una frattura: noi che osserviamo, lei che viene giudicata.

"E sappiamo tutti quello che succede quando una Granger si innamora di qualcuno fuori dalla sua portata, no?" Qui si passa da una presa in giro personale a un attacco transgenerazionale. Tiffany tira fuori la storia di Rosemary Granger, la madre di Lori, trasformandola in leggenda metropolitana. E lo fa usando un tono da favola malata: non racconta i fatti, ma li interpreta per il suo pubblico di minion. Lo stile è teatrale, quasi camp, e serve a costruire un mito infame che funge da monito: chi nasce Granger è destinato a cadere. "A Rosemary l’ha seguito. Lo ha osservato… lo ha spiato… e alla fine… ha tagliato la gola a quel poveraccio." Il ritmo si fa più serrato, quasi ipnotico. Tiffany recita la storia come una ninnananna macabra, giocando con l’immaginario horror come se fosse un’arma personale. È qui che emerge la parte più inquietante: il piacere sadico con cui reinventa il dolore di qualcun altro.

E quel “povero ragazzo” non è difeso per compassione, ma per aumentare il contrasto con l’immagine mostruosa di Rosemary. "Indovina chi è la figlia di Rosemary: la piccola Lory Granger." Questo è il colpo di grazia. Tiffany non solo umilia Lori nel presente, ma la fissa in una genealogia del disonore. Essere figlia di un’assassina diventa una colpa ereditaria. È un esempio perfetto di character assassination tipica del teen horror più feroce: il trauma familiare viene strumentalizzato pubblicamente per distruggere l’identità personale.

"Tu non sei nessuno. Non vali niente. Tornatene a casa, Lory." La chiusura è brutale, diretta, spogliata di ironia. Dopo la teatralità iniziale, Tiffany arriva all’intimidazione nuda e cruda. È il momento in cui il potere simbolico della parola si trasforma in imposizione concreta: una condanna sociale che non lascia scampo.

Conclusione

Il monologo di Tiffany è in un solo intervento, riesce a: umiliare Lori pubblicamente, ribadire il proprio dominio sulla gerarchia sociale del liceo, rafforzare il mito della “maledizione dei Granger” come verità collettiva.
Ma soprattutto, Tiffany si mette in scena. Ogni parola, ogni pausa drammatica è calibrata per un pubblico che la adora e la teme. È una villain che capisce l’importanza dello storytelling come strumento di potere.

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