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~ LA REDAZIONE DI RC
Nel cinema, come in letteratura, l’incipit ha un compito fondamentale: impostare il tono, dare un primo assaggio dell’universo che andremo a esplorare, e introdurre – senza scoprirle del tutto – le regole del gioco. Questo monologo, recitato in rima e con cadenza da filastrocca, fa esattamente questo: è una dichiarazione d’intenti, uno statement poetico che ci dice subito che la logica verrà piegata, la realtà sarà giocattolo, e la morale si nasconderà dietro l’assurdo.
MINUTAGGIO: 0:20-5:40
RUOLO: Narratore
ATTORE: Victor Brandt
DOVE: Netflix
INGLESE
There are gajillions of stories of mischief and fun, but to keep things simple, let's start with just one about a mom and two kids and a house and a hat that, oddly enough, was worn by a cat. But soon enough we will get to all that. In the valley that stretches from this hill to that hill, a city is nestled. That city is Anville. It's a town that's not huge, but quite big enough for buyers and sellers to sell and buy stuff, from shoes and shirts and elongated ladders to sailboats and gibble-grated berry-juice bladders. So our story begins at the corner of Main and Montroob in the spotless real estate office run by Hank Humberfloob. If you leave Humberfloob's and turn left onto Main, three miles down you'll find Lipplapper Lane, a pleasant-enough street in a pleasant-enough way where a neighbor greeted neighbor with a neighborly "Hey!" Here the hedges were hedged, the weeds were all weeded, and lawns were mowed daily, twice daily if needed. And at the end of this street, in a house like any other, something magical would happen to a sister and her brother.
ITALIANO
Chi vuol troppo giocare, a volte di guai ne combina. Decinaia le storie. Io ne so una carina, Di una mamma, due figli, una casa e un cappello, che un gatto indossava, e gli stava a pennello. Ma questo è l’inizio, poi verrà il bello. Varcata la cinta di colli e colline, le casette di Anville ci appaiono vicine. La città non è immensa, ma grande abbastanza. Chi di merci ha bisogno, ne trova abbondanza. Dalle scarpe, ai violini, alle scale a pioli, passando per pesci, barche e fagioli. La storia annunciata, comincia in viale Montrube, nell’agenzia immobiliare di Hank Humberfloob. Lasciata la Humberfloob e la zona centrale, incroci via Lipplapper, alla fine del viale. Una strada tranquilla, di una tranquilla città, dove i vicini si scambiano calorosi: “”Heyla!” Qui chi ha siepi, le assiepa; chi ha erbacce, diserba. Chi ha un prato, lo falcia, e gli scarti non serba. Ma nella casa là in fondo, né brutta, né bella, la magia è in serbo per un bimbo e sua sorella.
“Il gatto... e il cappello matto” (“The Cat in the Hat”) è un film del 2003 diretto da Bo Welch e basato sul celebre libro illustrato di Dr. Seuss, pubblicato originariamente nel 1957. L’adattamento cinematografico è stato pensato come una commedia per famiglie, con Mike Myers nei panni del protagonista: il Gatto con il cappello a cilindro.
Ora, la cosa interessante è che dietro questa apparenza da film per bambini molto colorato e sopra le righe, si nasconde una trama che – nel suo piccolo – gioca con l’assurdo e la sovversione delle regole, quasi come una piccola anarchia domestica in formato fiaba. Ci troviamo in una tipica cittadina americana, dove tutto è ordinato, regolato, plasticoso. La casa dei protagonisti rispecchia esattamente questo spirito: ogni cosa ha il suo posto, ogni comportamento ha una regola. Dentro questa cornice ci sono Conrad (interpretato da Spencer Breslin) e sua sorella Sally (Dakota Fanning). Due bambini molto diversi tra loro: lui impulsivo, lei metodica. Un dinamismo classico, ma efficace per creare conflitto.
La madre, single e oberata dal lavoro, è spesso assente, lasciando i due in casa sotto la “sorveglianza” di una baby-sitter che si addormenta regolarmente sul divano. Ed è proprio durante una di queste giornate noiose che, dal nulla, compare lui: il Gatto col cappello, un personaggio surreale, carismatico e imprevedibile. Il Gatto arriva senza invito, come un evento atmosferico, come una forza della natura. È l’opposto di tutto ciò che rappresenta la vita quotidiana dei due bambini. Dove loro vivono in funzione di regole (imposte dalla madre o dalla società), lui esiste solo per rompere ogni schema. Qui il film comincia a prendere una piega da slapstick demenziale, con sequenze quasi cartoonesche in cui la casa viene completamente stravolta, personaggi surreali entrano in scena (come i due aiutanti del Gatto) e tutto viene portato all’eccesso, come in un sogno febbrile. Nel caos scatenato dal Gatto, c'è una sorta di percorso di crescita accelerato. I bambini, messi davanti a situazioni assurde e fuori controllo, imparano a confrontarsi con le proprie responsabilità. Non perché il Gatto sia un maestro zen mascherato, ma proprio perché è un agente del disordine. Fa venire fuori il peggio e il meglio di loro. C'è anche una componente di critica velata all’ambiente suburbano americano fatto di ipocrisie e apparenze: il vicino ficcanaso Larry Quinn (interpretato da Alec Baldwin), ad esempio, è ossessionato dall’ordine e dal controllo, ma nasconde lati ambigui. È una figura che vuole imporsi come alternativa paterna ma che rappresenta solo repressione. La sua presenza serve a ribadire che la vera crescita non arriva da chi impone le regole, ma da chi le mette in discussione.
È un’introduzione che si inserisce perfettamente nella tradizione di Dr. Seuss, che aveva la straordinaria capacità di raccontare verità scomode con parole semplici, incastonandole in ritmi giocosi. E anche se il film prende direzioni più caotiche e visivamente sature, questa apertura richiama alla radice il tono narrativo del testo originale.
“Chi vuol troppo giocare, A volte di guai ne combina.”
La prima battuta ha il sapore di una massima popolare. Gioca su un avvertimento travestito da rima infantile. La struttura è semplice, quasi banale, ma il messaggio è chiaro: il gioco senza freni ha conseguenze. E in un film che mette al centro proprio il conflitto tra ordine e caos, questa frase diventa una sorta di tesi non detta. Chi gioca troppo rompe qualcosa. Ma rompere è sempre un errore?
“Io ne so una carina, / Di una mamma, due figli, una casa e un cappello, / che un gatto indossava, e gli stava a pennello.”
Qui entriamo nel racconto. C’è il richiamo all’autore orale, alla tradizione della favola raccontata a voce (“io ne so una…”), che ci fa sentire parte di un rituale antico. Il Gatto viene subito introdotto con leggerezza, come un dettaglio folklorico (“un cappello che gli stava a pennello”), ma dietro c’è già l’elemento destabilizzante. Perché quel cappello è un simbolo di rottura: non è solo un accessorio, è una bandiera.
“Varcata la cinta di colli e colline…”
Inizia la descrizione della città di Anville. Il tono qui si fa quasi da guida turistica fiabesca. La precisione geografica (“via Montrube”, “via Lipplapper”) ci dà la sensazione che questo mondo sia concreto, organizzato, vivo. Ma è una perfezione costruita, una società regolata fino al dettaglio, che proprio per questo sarà perfetta da stravolgere. È una quiete troppo rigida per non essere violata.
“Qui chi ha siepi, le assiepa; chi ha erbacce, diserba. / Chi ha un prato, lo falcia, e gli scarti non serba.”
Queste righe sono tra le più affilate. In apparenza leggere, nascondono una critica al conformismo domestico: tutti fanno la loro parte, tutti mantengono l’ordine. È l’idillio suburbano americano, la routine borghese trasformata in poesia. Ma dietro c’è una malinconia implicita: l’assenza di libertà vera. E quindi anche l’assenza di gioco, immaginazione, disobbedienza. “Ma nella casa là in fondo, né brutta, né bella, / la magia è in serbo per un bimbo e sua sorella.” Il vero cuore del monologo sta qui. La casa “né brutta, né bella” è una scelta precisa: è il simbolo della normalità, dello spazio neutro in cui può avvenire la trasformazione. Qui si annuncia il cambiamento, si prepara lo scontro tra lo status quo e l’irruzione del meraviglioso, o meglio, del caos necessario.
Questo monologo funziona come una sorta di preludio teatrale: ci accoglie con voce amichevole, con rime che sembrano innocue, e ci porta per mano dentro un mondo che ha le sembianze della favola ma che nasconde un’ironia più profonda.
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