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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo del giurato n. 3, uno dei momenti emotivamente più potenti di La parola ai giurati, arriva sul finale ed è una specie di eruzione finale. Una sfuriata, certo, ma anche una confessione mascherata da accusa. È un momento in cui il film mostra apertamente che non sempre la logica regge il peso delle emozioni, e che a volte il pregiudizio nasce da ferite personali, non da fatti oggettivi. Siamo ormai vicini alla conclusione del dibattito. Il gruppo dei giurati ha progressivamente smontato le "prove" contro l’imputato, e uno dopo l’altro hanno cambiato voto. Ma il giurato n. 3 – interpretato da Lee J. Cobb – resta l’ultimo a opporsi. Non perché ci siano ancora argomenti validi, ma perché c’è qualcosa di più profondo, di più viscerale, che lo tiene inchiodato a quella posizione.
MINUTAGGIO: fine film
RUOLO: Giurato N°3
ATTORE: Lee J. Cobb
DOVE: Amazon Prime Video
ITALIANO
Ogni cosa, ogni singola cosa che avvenne in quella stanza, intendo proprio tutto, accusa il ragazzo. Che credete? Che sia un idiota per caso? Perché non riflettete sul racconto del vecchio che abita al piano di sotto e sentì tutto? E la faccenda del coltello? Perché lui ne ha trovato un altro identico? Il vecchio lo vide, proprio là, sulle scale! Che importa quanti secondi passarono? Ogni singola cosa, il coltello perduto dalla tasca, da un buco... chi può provare che non raggiunse la porta? Sicuro, vada con calma, zoppichi intorno alla stanza, ma non può provarlo. E la faccenda del passaggio del treno? E il film? La storia più fasulla che ho mai sentito. Scommetto cinquemila dollari che io mi ricordo i film che vedo. Vi dico che tutto quanto è successo è stato travisato. E ancora: la faccenda degli occhiali! Che ne sa se non li aveva? Quella donna ha pure testimoniato, sotto giuramento! E poi le minacce del ragazzo? Eh? Vi dico, io ho tutti i fatti qui. Qui. Ecco. Il caso è tutto lì! Beh? Dite qualcosa! Non siete altro che un branco di piagnucoloni. Non crediate di intimidirmi. Ho diritto alle mie opinioni. Ragazzaccio... T'ammazzi per loro, e così ti ripagano! No... Innocente. Innocente.
"La parola ai giurati" (12 Angry Men, 1957), diretto da Sidney Lumet. Qui siamo davanti a un film che sembra semplice, quasi teatrale, e invece riesce a contenere una densità narrativa, morale e registica davvero notevole. Siamo nel 1957, anno in cui il cinema americano è ancora pienamente immerso nei codici classici, ma già comincia ad affacciarsi a un tipo di racconto più asciutto, più critico, e La parola ai giurati è uno dei segnali più chiari di questa transizione.
È il primo film per il cinema di Lumet, che fino a quel momento aveva lavorato in teatro e in televisione. E questa origine teatrale si sente tutta: un solo ambiente per quasi tutto il film – una stanza chiusa, claustrofobica – e dodici personaggi costretti a confrontarsi, senza via di fuga. Ma non è un limite, anzi. Lumet sfrutta proprio questa costrizione per accendere il motore del conflitto. La trama è lineare: dodici giurati devono decidere se condannare o assolvere un ragazzo accusato di omicidio. All’inizio, undici sono convinti della sua colpevolezza. Solo uno – interpretato da Henry Fonda – esprime dei dubbi. Da qui parte un lungo processo di dialogo, scontro, introspezione. Lumet fa un lavoro di regia che non è mai didascalico, ma che accompagna e amplifica il dramma. Man mano che il dibattito si fa più acceso, lui avvicina la macchina da presa ai volti. All'inizio inquadra i personaggi in campo largo, con lenti grandangolari, dando aria alla scena. Ma col passare del tempo, lo spazio si stringe. L’obiettivo cambia: si passa a lenti più lunghe, si va sui primi piani, fino a far sentire il pubblico quasi intrappolato insieme a loro.
Anche l’uso della luce è molto preciso. Si parte con una luce naturale, estiva, che entra dalle finestre. Poi il tempo passa, il temporale si avvicina, e l’atmosfera si fa più scura, più tesa. È come se anche il clima esterno reagisse ai tumulti interni dei personaggi.
Qui l scrittura è davvero centrale. Ogni giurato è un pezzo della società americana dell’epoca. Ci sono il razzista, l’intellettuale, l’anziano riflessivo, il giovane impulsivo, il lavoratore pragmatico, il borghese distaccato. Ma attenzione: non sono mai ridotti a macchiette. Quello che Lumet e lo sceneggiatore Reginald Rose riescono a fare è mostrare come questi uomini si portino dietro ferite personali, paure, esperienze. E come queste influenzino il loro modo di giudicare.
Il cuore del film è il dubbio. Non come ostacolo, ma come strumento di responsabilità. La giustizia, qui, non è l’arena dei colpevoli e degli innocenti, ma il luogo dove si esercita la coscienza. Dove l’assenza di certezze può – e deve – diventare un valore.
Fonda non dice mai che il ragazzo è innocente. Dice solo: “Non ne sono sicuro.” E questo basta per aprire una crepa. Il film ci mostra quanto sia difficile – e coraggioso – difendere il diritto al dubbio in un mondo che preferisce sentenze veloci. Siamo in piena Guerra Fredda, in un’America che ha appena vissuto il maccartismo. Il sospetto, il conformismo, la paura del diverso sono reali. E Lumet gira un film in cui il sistema giudiziario è al centro, ma quello che realmente interessa è la psicologia del giudizio. Come giudichiamo? In base a cosa? Quanta parte ha il nostro vissuto, la nostra rabbia repressa?
Il fatto che il film si chiuda senza nomi – non sapremo mai come si chiamano quei giurati – è un altro segno. Quello che importa non è l’identità individuale, ma il processo collettivo. È una riflessione profonda sull’etica della democrazia.
"Ogni singola cosa che avvenne in quella stanza... accusa il ragazzo." Il giurato 3 si aggrappa disperatamente ai fatti. O meglio: a quello che lui interpreta come fatti. È un accumulo furioso di dettagli, ricordi, testimonianze. Ma c’è una forzatura evidente: lui vuole che ogni elemento confermi la sua tesi. Non sta cercando la verità, sta cercando di vincere. Di avere ragione. "Scommetto cinquemila dollari che io mi ricordo i film che vedo." Qui il tono si fa personale. Comincia a confrontarsi con l’imputato su un piano emotivo, come se fosse un rivale diretto. Questo dettaglio – l'ossessione per il "film che non ricorda" – è significativo: è un modo per dire "io sono diverso, io sono migliore". È un confronto generazionale, sociale, forse anche familiare.
"Dite qualcosa! Non siete altro che un branco di piagnucoloni." Questa frase è un segnale chiarissimo. Sta perdendo il controllo. Il suo tono è sempre più disperato, più isolato. Non sta più dialogando, sta combattendo contro una platea che non c’è. E nel silenzio degli altri giurati c’è un messaggio forte: non è più un dibattito, è un crollo. "Ho diritto alle mie opinioni. Ragazzaccio... T’ammazzi per loro, e così ti ripagano!" Qui scatta il corto circuito. Non è più l’imputato a essere al centro del discorso, ma il figlio del giurato. Lo capiamo tra le righe. Quel “t’ammazzi per loro” è la voce di un padre deluso, tradito. È una frase da padre arrabbiato con il figlio, non da giurato in un’aula. Questa è la chiave: il suo giudizio è condizionato da una ferita personale mai elaborata. L’imputato è diventato, nel suo inconscio, il figlio che l’ha abbandonato, che gli ha mancato di rispetto, che non gli ha restituito l’amore ricevuto.
"No... Innocente. Innocente." Il crollo avviene in due parole, pronunciate in tono sommesso. Due parole che non nascono da una nuova convinzione, ma da una resa. Il suo non è un cambio di opinione razionale, è la presa di coscienza che ha proiettato qualcosa di personale su un processo che doveva essere oggettivo. È un gesto di liberazione, ma anche di sconfitta.
Il monologo del giurato n. 3 non è il classico momento in cui un personaggio "capisce" e cambia idea. È qualcosa di più profondo: è il momento in cui si spoglia del ruolo e resta solo come uomo. Un uomo ferito, rancoroso, che ha usato un processo per sfogare una rabbia che viene da tutt’altra parte. Quello che colpisce è come Lumet e lo sceneggiatore Reginald Rose costruiscano questa scena senza nessun moralismo. Non lo giudicano, non lo assolvono. Lo mostrano. Con una delicatezza che lascia spazio all’empatia, senza mai giustificare.
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