Monologo maschile - Harvey Keitel in \"Smoke\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo di Auggie – tratto da Smoke e posizionato alla fine del film – è una piccola gemma narrativa, un racconto nel racconto, una parabola urbana raccontata con la delicatezza di chi sa che le storie più vere sono quelle che non hanno bisogno di essere perfette. Nel contesto del film, questo monologo arriva come una chiusura “fuori cornice”, ma potentissima. Siamo dopo i titoli di coda, in un momento sospeso, quasi come se il film si permettesse un ultimo respiro, un’ultima possibilità di guardare il mondo con lo sguardo di chi ascolta e osserva.

Auggie, interpretato da Harvey Keitel, racconta una storia a Paul, lo scrittore. Lo fa con quel tono basso, piano, da cantastorie moderno. Una storia di Natale, apparentemente semplice, ma che contiene dentro tutto quello che Smoke ha cercato di dire per tutto il film: la vita è fatta di piccoli atti di gentilezza, di momenti rubati, di finzioni che a volte sono più vere della realtà.

Storia, porno e rapine

MINUTAGGIO: 39:00-40:00

RUOLO: Auggie

ATTORE: Harvey Keitel

DOVE: Amazon Prime Video

ITALIANO

AUGGIE: Dunque. Ecco come sono andate le cose. Okay. Era l'estate del '76, all'epoca del mio primo lavoro per Vinnie, l'estate del Bicentenario. Una mattina al negozio un ragazzo cominciò a rubare delle cose. Stava giù, alla scansia dei tascabili, e si infilava le riviste porno sotto la maglietta. Non l'ho visto sùbito, c'era gente intorno al bancone, ma come me ne sono accorto, ho iniziato a strillare. Lui è scappato come un coniglio, shhh! E quando sono uscito fuori dal bancone, aveva già le chiappe sulla Settima Strada. L'ho rincorso per circa un isolato, poi ho lasciato stare. Gli era caduta qualcosa mentre scappava. E... dato che non me la sentivo più di correre, l'ho raccolta, per vedere cosa fosse. Era il suo portafogli. Non c'erano soldi dentro, ma c'era la sua patente, e altre tre o quattro fotografie. Avrei potuto farlo arrestare, certo, c'era nome e indirizzo sulla patente, ma sai, mi dispiaceva. Era solo un teppistello. E una volta viste quelle foto nel portafogli, non ce l'ho più fatta ad essere veramente arrabbiato con lui. Roger Goodwin. Si chiamava così. In una di quelle foto, mi ricordo, stava in braccio alla madre. In un'altra aveva un trofeo in mano, della scuola, e rideva, felice, come se avesse vinto alla lotteria. Proprio non me la sentivo. Un povero ragazzo di Brooklin. Non era una cosa grave. Tanto chi se ne importa di un paio di giornaletti porno? E così, mi sono tenuto il portafogli. Ehm... ogni volta che sentivo il bisogno di riportarglielo, io rimandavo, e non l'ho mai fatto. Finché arriva Natale, e io non ho niente da fare. Vinnie voleva invitarmi, ma la madre si era ammalata, e lui e la moglie erano corsi a Miami, all'ultimo minuto. Quindi me ne stavo a casa mia, quella mattina. Mi sentivo un po' solo. Quando l'occhio va sul portafogli di Roger Goodwin. Mi sono detto: "che diavolo, perché non faccio qualcosa di buono? Mi infilo il cappotto e gli riporto il portafogli". Abitava dalle parti di Boerum Hill, nelle case popolari. Mi ricordo che faceva un freddo cane, quel giorno. Mi sono perso molte volte prima di trovarlo. Le case sono tutte uguali, laggiù. Giri nello stesso punto e credi di stare da un'altra parte. Comunque, alla fine arrivo al palazzo che cercavo, alla casa che cercavo, e suono il campanello. Non succede niente. Penso che non ci sia nessuno. Suono di nuovo, per esserne sicuro. Ormai sto per andarmene; aspetto un altro po', e sento trafficare dietro la porta. E una voce di vecchia chiede: "Chi è?". E io dico: "Sto cercando Roger Goodwin". "Sei tu, Roger?", mi dice. E dà quindici mandate per aprire la porta. Avrà avuto almeno 80 anni, se non addirittura 90! E la prima cosa che noto di lei è che è cieca. "Lo sapevo che saresti venuto, Roger", dice. "Lo sapevo che non avresti dimenticato nonna Ethel a Natale". E poi apre le braccia, e mi si avvicina per abbracciarmi. Non ho tempo per riflettere, capisci? Devo dire qualcosa in fretta. E prima che realizzo ciò che sta accadendo, le parole mi escono dalla bocca. "Proprio così, nonna Ethel", dissi, "sono tornato a trovarti per Natale". Non mi chiedere perché l'ho detto. Non ne ho la minima idea. Mi è uscito così. D'improvviso la signora comincia ad abbracciarmi, davanti alla porta, e anch'io l'abbraccio. Era come se tutti e due avessimo deciso di giocare questo gioco senza doverne stabilire le regole. Sapeva benissimo che non ero il nipote. Era vecchia e debole, ma non così andata da non saper distinguere un perfetto sconosciuto ad uno di famiglia. Fu felice di fare come se fosse vero. E dato che non avevo di meglio da fare, fui contento di assecondarla. Insomma, entrammo in casa e passammo la giornata insieme, e quando mi chiedeva quello che facevo, io le mentivo. Le raccontai che avevo trovato lavoro in una tabaccheria, le dissi che stavo per sposarmi, inventai centinaia di storie, e lei faceva finta di credere a ogni cosa. "Ma bene, Roger", diceva, muovendo il capo e sorridendo, "ho sempre saputo che ti sarebbe andata bene". Mah. Dopo un po', cominciai ad avere fame, e siccome in casa non c'era niente da mangiare, andai a cercare un negozio lì vicino, e tornai su carico di roba. Pollo arrosto, zuppa di verdure, patate bollite, insomma un mucchio di roba. Nonna Ethel aveva un paio di bottiglie nascoste in camera da letto, eh, eh, eh! E così fra tutti e due riuscimmo a mettere su una discreta cena di Natale. Eravamo tutti e due un po' brilli, mi ricordo, e dopo pranzo andammo a metterci di là, nel soggiorno, dove si stava seduti più comodi. Dovevo fare pipì, così a un certo punto ho chiesto scusa e sono andato al bagno, in fondo al corridoio. E qui la cosa prende un'altra piega. Era già stato stravagante giocare al nipote di nonna Ethel, ma quello che feci poi fu decisamente folle, e non me lo sono mai perdonato da allora. Entro nel bagno, e accatastate contro il muro vicino alla doccia, vedo una pila di sei o sette macchine fotografiche, del tutto nuove. Macchinette trentacinque millimetri, ancora nella scatola. Non avevo mai scattato una foto in vita mia, e tantomeno avevo mai rubato. Ma come vidi quella pila di macchinette abbandonate nel bagno, decisi che ne volevo una tutta per me. Una come quelle. E senza pensarci un istante, ne prendo una, me la metto sotto il braccio, apro la porta del bagno e torno nel soggiorno. Non ci ho messo più di tre minuti, ma nel frattempo nonna Ethel si era addormentata. Troppo Chianti, immagino. Andai in cucina, a lavare i piatti, e in mezzo a quel fracasso lei dormiva come una bambina. Non c'era motivo di disturbarla, quindi decisi di andarmene. Non potei lasciarle neanche un biglietto di saluto, dato che era cieca. Me ne andai e basta. Misi il portafogli del nipote sul tavolo. Ripresi la macchinetta e lasciai l'appartamento. Fine della storia.

Smoke

Smoke, uno di quei film che sembra passarti accanto con la leggerezza di una sigaretta accesa in una giornata d’estate… e invece, piano piano, ti si infila sotto pelle. Uscito nel 1995, Smoke è diretto da Wayne Wang, ma nasce soprattutto dalla penna e dall’anima di Paul Auster. Ed è proprio questa la chiave per entrare nel film: Smoke è un’opera che vibra come un racconto, più che come un classico film narrativo. Infatti, non a caso, il progetto parte da un racconto breve scritto da Auster – "Auggie Wren's Christmas Story" – pubblicato sul New York Times. Da lì, si sviluppa una sceneggiatura che sembra più un mosaico di storie, piccoli tasselli di esistenze che si sfiorano, si osservano, a volte si influenzano senza nemmeno accorgersene.

Il film ruota intorno a una tabaccheria di Brooklyn gestita da Auggie (Harvey Keitel), punto di osservazione e, in un certo senso, centro gravitazionale delle vite che si intrecciano nel quartiere. Il tempo, in Smoke, non è lineare né urgente: è il tempo dell’attesa, della riflessione, del racconto. Ogni giornata si assomiglia – le sigarette vendute, la gente che entra ed esce – ma dentro questa routine si aprono piccoli varchi di senso, incontri imprevisti, confessioni che trasformano le giornate in qualcosa di altro. Auggie è un personaggio magnetico perché è apparentemente statico. Sta lì, dietro il bancone, fuma, osserva. Ma in realtà è un archivista di umanità. Il suo progetto fotografico – scattare una foto dello stesso angolo di strada ogni giorno, alla stessa ora – è un gesto che dice moltissimo sul senso profondo del film. Cambia la luce, cambiano le persone, cambia tutto, anche quando sembra che nulla stia cambiando. È una riflessione visiva sul tempo, sulla ripetizione e sulla memoria. E sulla bellezza dell’osservazione lenta. In Smoke la vera azione è fatta di parole. I dialoghi sono il motore emotivo della narrazione. Non c’è una trama nel senso classico, ma c’è una rete di relazioni che si costruisce attraverso le conversazioni: tra Auggie e Paul (uno scrittore in lutto, interpretato da William Hurt), tra Paul e Rashid (un ragazzo afroamericano in fuga), tra Rashid e il padre che non vede da anni. Ogni scambio è costruito con un realismo sobrio, ma carico di sottotesto. Auster è un maestro nell’usare le parole per nascondere e rivelare allo stesso tempo.

Analisi Monologo

La storia parte da un episodio piccolo, quasi insignificante: un ragazzo che ruba delle riviste porno in tabaccheria. Auggie lo insegue, lui scappa, ma perde il portafogli. Niente di epico. E invece, proprio da qui, si apre un mondo. Già qui notiamo una cosa: Auggie non giudica. Non è scandalizzato, non è vendicativo. Trova il portafogli, vede le foto del ragazzo, e sente un’empatia immediata. È un essere umano prima che un commerciante, uno che sceglie di non vendicarsi, ma osservare. Questa è la prima svolta emotiva.

Quando, mesi dopo, decide di riportare il portafogli, si ritrova in una situazione completamente inaspettata: un’anziana cieca, convinta di trovarsi di fronte al proprio nipote. Ed è qui che il monologo fa un salto vertiginoso: Auggie accetta il gioco. Dice “sì, sono Roger”. Non perché voglia imbrogliare, ma perché sente che è giusto così. Entrambi hanno bisogno di questo incontro. Nessuno dei due si illude davvero, ma entrambi decidono di recitare una parte. Ed è in questa finzione condivisa che nasce qualcosa di autentico. È un momento di teatro puro dentro la vita. E qui, Smoke dice qualcosa di potente: a volte le bugie sono atti di generosità. Mentire può essere un modo per fare del bene, per creare uno spazio dove due solitudini si incontrano e trovano un po’ di pace.

Il vero colpo di scena, però, arriva alla fine. Proprio quando pensi che Auggie sia il buon samaritano della storia, lui ruba una macchina fotografica. Un gesto infantile, impulsivo, che non riesce a giustificare nemmeno a sé stesso. Eppure, in quel gesto, c’è qualcosa che cambia tutto. È un furto, sì. Ma è anche l’inizio di qualcosa. Perché da quel gesto, Auggie comincia a fotografare, giorno dopo giorno, costruendo il suo progetto fotografico – quello che abbiamo visto lungo tutto il film. La sua “arte” nasce da un furto, da una debolezza. E qui il monologo si chiude su una riflessione profonda: la bellezza può nascere dal difetto, dalla disobbedienza, dall’errore.

Conclusione

Questo racconto di Auggie funziona su tantissimi livelli. Prima di tutto è una storia in sé, con la sua struttura classica: introduzione, sviluppo, colpo di scena, epilogo. Ma dentro, è anche una riflessione sul potere della narrazione. Auggie racconta questa storia come un regalo. E il film ce la mostra con immagini fisse in bianco e nero, quasi come se stessimo sfogliando un album fotografico. Questo non è solo un racconto: è una dichiarazione d’amore per le storie. Quelle inventate, quelle che aggiustano la realtà, che la colorano, che la rendono più vivibile. Perché in fondo, come succede a Paul, le storie possono curare.

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