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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo, pronunciato da un uomo sconosciuto rivolgendosi a Jasper, è uno dei picchi più oscuri e disturbanti di Dept. Q. E’ una violenza verbale costruita con chirurgica lucidità. E la scena è ancora più inquietante perché il destinatario non è Carl, ma il giovane Jasper – il figlio della ex moglie di Carl – che si trova improvvisamente faccia a faccia con un predatore. Un aggressore che non ha bisogno di armi: ha le parole, e le usa come strumenti di tortura psicologica.
STAGIONE 1 EP 6
MINUTAGGIO: 25:01-26:46
RUOLO: Uomo al bar
ATTORE: -
DOVE: Netflix
ITALIANO
Sta seduto. Non piangere, non lamentarti, non emettere alcun suono. Immagina se ci fossero le tue palle nella mia mano, ora. Perché se provi a gridare, a a chiamare aiuto, o se fai qualcosa di diverso dallo stare seduto qui in silenzio a. Guardarmi io ti rovino, hai capito? Bravo ragazzo. E poi non sono così brutto da guardare. Tu sei carino da guardare. Conosco persone che pagherebbero bene solo per guardarti. Guardarti tutto. E ne conosco altre che pagherebbero bene per metterti dentro delle cose…. Cose umane e non. Sia umide che asciutte. E loro godrebbero. Non solo per il tuo bel faccino, ma anche per la tua paura, e il sangue che uscirebbe da te. E poi filmerebbero tutto. Così, dopo averti lasciato in ospedale… perché sono uomini con appetito, ma non sono animali, loro potrebbero ricevere qui momenti più e più volte. Proprio come faresti tu, nella tua testa per il resto della tua vita. Dunque… ecco cosa vorrei che facessi per me. Vorrei che ripetessi tutto quello che ti ho appena detto, con le stesse esatte parole a Carl, quando arriverà qui.
Una bomba pronta ad esplodere. Così viene descritto Carl Morck, protagonista assoluto di Dept. Q, la nuova serie crime di Netflix scritta e diretta (in buona parte) da Scott Frank. Non è un detective come gli altri, e la serie stessa non è un procedural nel senso tradizionale. È piuttosto un noir psicologico travestito da crime investigativo, costruito sulla fragilità umana e sulla rabbia repressa.
Morck (Matthew Goode) è il relitto. È sopravvissuto a una sparatoria devastante che ha ucciso un giovane collega, paralizzato il suo partner Hardy (Jamie Sives) e lasciato lui stesso ferito. Il senso di colpa è la sua seconda pelle. Non parla, sibila. E quando lo fa, è per colpire con sarcasmo o disprezzo. L’esilio forzato in un seminterrato della stazione di polizia di Edimburgo – il famigerato Dipartimento Q – è il suo purgatorio. Gli danno una stanza, una scrivania e una missione di facciata: spulciare vecchi casi irrisolti. Nessuno si aspetta che li risolva davvero. Serve solo tenerlo lontano dai riflettori e dare un contentino all’opinione pubblica. Ma Morck non è il tipo da stare buono. Scava, fiuta, si incattivisce. E soprattutto ricomincia a fare ciò per cui è tagliato: cercare la verità nei punti ciechi del sistema.
Il cuore narrativo della prima stagione ruota attorno al caso di Merritt Lingard (Chloe Pirrie), avvocata di alto profilo, scomparsa nel nulla quattro anni prima. All’apparenza, un cold case senza uscita: niente corpo, niente movente, niente sospetti solidi. Ma è proprio l’assenza di risposte a risvegliare l’istinto predatorio di Morck.
Attorno a lui prende forma una squadra anomala: Akram Salim (Alexej Manvelov), ex informatore siriano dall’intelligenza quieta e dallo sguardo che scruta dentro; e Rose Dickinson (Leah Byrne), agente fragile e acuta, tornata in servizio dopo un crollo psicologico. Nessuno li ha scelti davvero. Sono i reietti, i falliti, gli scarti. Ed è proprio per questo che funzionano.
Insieme, iniziano a collegare indizi sparsi, a rileggere con occhi nuovi ciò che altri hanno archiviato. Lingard non è solo una vittima. È un nodo, un perno intorno al quale ruotano potere, ambizione e un passato che qualcuno ha voluto cancellare.
La sua psicoterapia forzata con la dottoressa Rachel Irving (Kelly Macdonald) non è una sottotrama di contorno. È un campo di battaglia parallelo, dove Morck combatte contro il silenzio emotivo che lo imprigiona. Le sedute, per quanto brevi, sono momenti di svelamento e collisione. Non c’è redenzione facile: solo resistenza.
Lo stesso vale per i suoi colleghi. Akram è un uomo che ha già vissuto l’inferno della guerra e della burocrazia occidentale. Rose nasconde traumi che affiorano a tratti, senza mai diventare etichette. Ognuno ha una ferita che diventa strumento di lettura del mondo.
Quello che era nato come esilio diventa un laboratorio etico. Il seminterrato ammuffito del Dipartimento Q si trasforma, episodio dopo episodio, in una specie di confessionale laico. I cold case che vengono affrontati non sono semplici puzzle da risolvere. Sono storie congelate nel tempo, che contengono il dolore e l’ingiustizia sedimentati nella società.
Matthew Goode, qui davvero in stato di grazia, porta in scena un personaggio che riesce a essere respingente e magnetico allo stesso tempo. Morck è il classico investigatore geniale che però detesti all’inizio. E poi, lentamente, inizi a capire. Perché la sua rabbia non è gratuita. La sua chiusura emotiva ha radici profonde. E il suo sarcasmo è una forma di sopravvivenza. Non è un crime consolatorio. È una serie che lavora per sottrazione, costruita su silenzi, mezze verità, omissioni. Non offre soluzioni nette, né personaggi rassicuranti. È un racconto di detriti umani che diventano investigatori proprio perché nessun altro lo vuole fare.
Il monologo si apre con un tono imperativo: “Sta seduto. Non piangere, non lamentarti, non emettere alcun suono.” Questa prima frase stabilisce immediatamente la dinamica del potere: lui comanda, Jasper deve obbedire. Il linguaggio è controllato, secco, quasi educato nella sua crudeltà. È l’inizio di una strategia che ha un solo scopo: dominare psicologicamente la vittima. Poi l’aggressore inserisce un’immagine cruda e brutale: “Immagina se ci fossero le tue palle nella mia mano, ora.” Non è una minaccia generica: è un’immagine sessualizzata, rivolta a un ragazzo. Qui il linguaggio si trasforma in un’arma a base di umiliazione sessuale. E tutto il monologo gioca su questo: usare l’immaginazione della vittima contro di lui, evocare immagini così traumatiche da annullarne la capacità di reagire.
La frase: “Conosco persone che pagherebbero bene solo per guardarti.” è l’inizio di un'escalation. L’uomo non minaccia direttamente la violenza: descrive un mondo in cui la violenza è normalizzata, commercializzata, resa spettacolo. È un uso perverso del linguaggio che amplifica l’orrore: il carnefice non si presenta come un mostro isolato, ma come parte di un sistema più grande, più sporco, più potente. Poi arriva il colpo finale, il vero obiettivo: “Dunque… ecco cosa vorrei che facessi per me. Vorrei che ripetessi tutto quello che ti ho appena detto, con le stesse esatte parole a Carl, quando arriverà qui.” Questo ribalta tutto. Non era una minaccia fine a sé stessa. Era un messaggio. L’uomo non vuole solo terrorizzare Jasper: vuole usare il trauma come strumento per colpire Carl. E qui si chiude il cerchio tematico. Il monologo non è solo violento: è strategico. È un atto di guerra psicologica.
Il vero bersaglio, insomma, è Carl. Jasper è solo il tramite. Ma è proprio questa dinamica a rendere la scena insostenibile: l’innocente viene scelto come veicolo di distruzione emotiva per un adulto che ha già i suoi demoni. È una forma di vendetta che non colpisce il corpo, ma la mente. Di tutti.
Questo monologo è uno degli esempi più efficaci (e spaventosi) di come Dept. Q scelga di raccontare il male senza maschere. È difficile da ascoltare, e lo deve essere. Perché Dept. Q non cerca scorciatoie emotive: non ti protegge dallo schifo, te lo mostra in faccia. E in questo caso, attraverso un dialogo crudo, ti costringe a vedere quanto la violenza possa essere elegante, ben costruita, persino teatrale. E proprio per questo ancora più pericolosa.
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