Monologo Teatrale Maschile - \"L'uomo dal fiore in bocca\", di Luigi Pirandello

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il brano che stiamo per analizzare è il cuore de L’uomo dal fiore in bocca di Luigi Pirandello. È un momento in cui il protagonista, l’uomo segnato da una malattia terminale, rompe il fragile equilibrio della conversazione notturna e porta il suo interlocutore – e noi con lui – in un luogo dove la coscienza della morte si è fatta carne, linguaggio e ossessione. Il monologo non è solo un’informazione che l’uomo condivide, ma un’esperienza mentale e sensoriale: Pirandello ci trascina nel pensiero inquieto di chi non ha più un futuro, ma vive in un presente esasperato, acuminato, iper-lucido.

La Morte e il fiore in bocca

Se la morte, signor mio, fosse come uno di quegli insetti strani, schifosi, che

qualcuno inopinatamente ci scopre addosso… Lei passa per via; un altro passante,

all’improvviso, lo ferma e, cauto, con due dita protese le dice: – «Scusi, permette?

lei, egregio signore, ci ha la morte addosso». E con quelle due dita protese, la piglia

e butta via… Sarebbe magnifica! Ma la morte non è come uno di questi insetti

schifosi. Tanti che passeggiano disinvolti e alieni, forse ce l’hanno addosso; nessuno la vede; ed essi pensano quieti e tranquilli a ciò che faranno domani e doman l’altro.

Ora io, caro signore, ecco… venga qua… qua sotto questo lampione… venga… le faccio vedere una cosa… Guardi, qua, sotto questo baffo… qua, vede che bel tubero violaceo? Sa come si chiama questo? Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: –Epitelioma, si chiama. Pronunzii, sentirà che dolcezza: epitelioma… La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca, e m’ha detto: – «Tientelo, caro: ripasserò fra otto o dieci mesi!». Ora mi dica lei, se con questo fiore in bocca, io me ne posso stare a casa tranquillo e quieto, come quella disgraziata vorrebbe. Le grido: – Ah sì, e vuoi che ti baci? – «Sì, baciami!» – Ma sa che ha fatto? Con uno spillo, l’altra settimana, s’è fatto uno sgraffio qua, sul labbro, e poi m’ha preso la testa e mi voleva baciare… baciare in bocca… Perché dice che vuol morire con me.

È pazza… A casa io non ci sto. Ho bisogno di

starmene dietro le vetrine delle botteghe, io, ad ammirare la bravura dei giovani di

negozio. Perché, lei capisce, se mi si fa un momento di vuoto dentro… lei lo capisce,

posso anche ammazzare come niente tutta la vita in uno che non conosco… cavare

la rivoltella e ammazzare uno che come lei, per disgrazia, abbia perduto il treno…

No no, non tema, caro signore: io scherzo! Me ne vado. 

Ammazzerei me, se mai…

L'uomo dal fiore in bocca

“L’uomo dal fiore in bocca” è una delle opere teatrali più intense di Luigi Pirandello. Scritta nel 1922 e tratta da un suo racconto precedente, La morte addosso, questa brevissima pièce – un atto unico – si regge su un dialogo tra due personaggi in un bar aperto durante la notte. Ma più che un dialogo, è un vero monologo travestito da scambio: uno dei due personaggi parla, l’altro ascolta. O meglio: uno è vivo nella consapevolezza della morte, l’altro è semplicemente vivo e distratto. La scena è semplice: un caffè, a notte fonda. C’è un uomo solo, che non riesce a dormire. È il protagonista, l’uomo dal fiore in bocca. A un certo punto entra un altro uomo, il Cliente. Ha perso il treno e deve aspettare quello del mattino. L’incontro tra i due dà il via a una conversazione che si trasforma, piano piano, in un’esplorazione dell’esistenza, del tempo, della morte e dell’attaccamento alle piccole cose.

Il Cliente è un uomo normale. È quello che potremmo essere tutti noi: ha una moglie che lo aspetta a casa, è seccato per un disguido con i pacchi della moglie e parla di cose quotidiane. Ma proprio per questo funziona da contrasto perfetto: è vivo ma inconsapevole. È preso dalla vita come flusso automatico, dove il tempo passa e si fanno cose perché si devono fare. Non si ferma a pensare. L’altro personaggio – quello che dà il titolo all’opera – è un uomo condannato. Ha un epitelioma, un tumore alla bocca, rappresentato metaforicamente come un “fiore” che si porta appresso. Questo uomo ha una lucidità spaventosa: sa che morirà, e sa che morirà presto. E questa consapevolezza gli ha cambiato il modo di guardare il mondo. Ora osserva ogni dettaglio con una fame incredibile, con un’attenzione che chi è ancora immerso nella vita non ha.

L’uomo parla di come il tempo diventi prezioso quando si sa che sta per finire. Descrive minuziosamente gesti ordinari – una donna che sceglie dei nastri in una merceria – come se fossero un dramma epico, perché lui non potrà più viverli. E qui Pirandello ci dà un primo colpo secco: il tragico non è più l’eccezionale, ma il quotidiano guardato da un punto di vista diverso. La morte non è un evento, ma una lente.

Il monologo dell’uomo è quasi una confessione filosofica, fatta a uno sconosciuto, perché è proprio l’anonimato a permettere un’intimità spiazzante. Non c’è un reale scambio emotivo: il Cliente non riesce veramente a entrare in quel mondo. Ma noi, spettatori o lettori, ci entriamo eccome. E in fondo il Cliente è lì per questo: per lasciarci spazio. Per diventare il nostro posto in scena.

Analisi Monologo

Il monologo si apre con un’immagine ipotetica: la morte paragonata a un insetto “strano, schifoso”, qualcosa che si può scoprire e scrollare via. È una fantasia ironica, surreale, che illustra il desiderio assurdo di rendere la morte un fatto visibile, concreto, esterno. C’è già qui tutta la tensione pirandelliana tra apparenza e realtà: gli uomini camminano “disinvolti e alieni”, eppure forse hanno “la morte addosso” senza saperlo. Il protagonista, invece, sa. E per questo non può più permettersi quella leggerezza. La svolta del monologo arriva con il gesto teatrale: “venga qua… qua sotto questo lampione… Guardi…”. Qui il personaggio ci invita a guardare davvero, quasi come in un noir o in un atto di rivelazione. E sotto i baffi, ecco il “tubero violaceo”: il tumore, chiamato “epitelioma”. Pirandello usa volutamente il tono dell’ironia nera: “un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella”. È un contrasto disturbante tra la gravità della malattia e la leggerezza con cui viene descritta, come se il protagonista cercasse di esorcizzare la paura tramite il linguaggio.

Il “fiore in bocca” è un’immagine potente perché visivamente ambigua: un tumore che distrugge, ma che allo stesso tempo fiorisce, come un dono avvelenato lasciato dal destino. È il marchio della morte già in atto, un segno che lo condanna a una sospensione definitiva. La morte non è un evento futuro: è già presente, è un oggetto con cui si deve convivere. Segue poi un passaggio sul rapporto con la moglie – “quella disgraziata” – che mostra quanto la malattia abbia isolato l’uomo anche affettivamente. Il desiderio della moglie di morire con lui diventa un gesto “pazzo”, estremo, perché l’uomo sente che la sua condizione non è condivisibile. La morte, per Pirandello, è un’esperienza radicalmente solitaria.

Poi il tono si sposta di nuovo. L’uomo parla della necessità di stare fuori, di osservare la vita degli altri – i giovani di bottega, la quotidianità minuta – proprio perché lui non può più farne parte. C’è una tensione costante tra il dentro (la casa, la moglie, la malattia) e il fuori (la città, le vetrine, i passanti): un bisogno disperato di non rimanere solo con sé stesso. Il climax arriva con una confessione disturbante: il rischio di un vuoto interiore talmente forte da poter portare all’omicidio. “Posso anche ammazzare tutta la vita in uno che non conosco…” È una frase agghiacciante, ma che non va letta come una minaccia reale, quanto come la proiezione di un’angoscia inarrestabile. Il vuoto che sente è così forte da poter esplodere in un gesto estremo. Subito dopo, però, arriva la smentita: “io scherzo!”. Una smentita fragile, quasi una maschera messa in fretta per nascondere il vero abisso.

La conclusione è una delle battute più secche e dense di tutto il teatro pirandelliano:

“Ammazzerei me, se mai…”

È lì che capiamo tutto. L’energia del monologo, l’ironia, l’esagerazione, l’inquietudine… tutto converge verso quell’idea finale: l’uomo non minaccia la vita altrui, ma la propria. È un grido mascherato, l’ultimo modo che ha per dirci che sta soffrendo, e che quella sofferenza è diventata insostenibile.

Conclusione

Questo monologo è un piccolo trattato sull’angoscia e sull’identità smarrita nel confronto con la morte. Pirandello costruisce, frase dopo frase, un personaggio che non è più semplicemente “malato”: è diventato un punto di frizione tra il mondo e il suo sguardo, tra la vita che continua e la consapevolezza di non poterne più far parte. L’uomo dal fiore in bocca è, in fondo, un essere che parla perché non può più vivere. Che ironizza perché non può più partecipare. E che osserva, con una lucidità spietata, la vita negli altri perché ha ormai perso la propria.

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