Monologo Yanez Sandokan (2025): il fallimento del prete

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi del monologo di Yanez a Sandokan in "Sandokan (2025)"

Il monologo di Yanez in Sandokan (2025) è una riflessione durissima sul fallimento morale della ribellione armata. Attraverso il racconto della sua esperienza da prete missionario, Yanez mette in guardia Sandokan dal ripetere un errore già pagato con un massacro di innocenti. Non è un discorso politico né religioso, ma una confessione lucida di colpa e responsabilità. 

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Finale del film (con spoiler)

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Serie: Sandokan (2025)
Personaggio: Yanez
Attore: Alessandro Preziosi

Minutaggio: 36:00-37:08 (Episodio 6)

Durata: 1 minuto

Difficoltà 6/10 è un monologo di colpa e responsabilità, non di sfogo. 

Emozioni chiave Colpa, disillusione, responsabilità tardiva, paura lucida, affetto trattenuto, rinuncia

Contesto ideale per un attore Scene su fallimento morale, post-trauma, ex idealisti

Dove vederlo: Rai Play

Sandokan (2025) - Episodio 6

Murray e Brooke seguono le tracce di Sandokan lungo la riva del fiume, segni freschi di passaggi e colluttazioni che li riportano alla radura dove, giorni prima, Sandokan era stato catturato dai Dayak. Nel villaggio, intanto, Sandokan vive la sua condizione più fragile: non vede. Marianna cerca di curarlo come può, con una cura concreta e affettuosa, mentre il capotribù comunica la decisione del giorno: oggi andranno a caccia. E la guida di Sandokan non sarà un guerriero Dayak, ma proprio Marianna. Yanez è inquieto, sente l’aria tesa e non si fida del capo dei guerrieri, che odia Sandokan e considera la profezia una favola utile solo a chi vuole comandare. Nel frattempo la gente del villaggio si stringe attorno a Sani: vogliono sapere com’è la vita alle miniere, vogliono la verità. Messa alle strette, Sani racconta tutto senza addolcirlo: il popolo è trattato come schiavo, come bestiame, come animali da lavoro. La rabbia monta e il capo guerriero vorrebbe reagire subito, attaccare gli schiavisti, ma Sani continua a credere nella profezia che Lamai ripeteva: Sandokan è il salvatore. Il capotribù li spegne entrambi: niente guerra oggi, si caccia. È una scelta che sembra prudenza, ma sa anche di controllo.

Mentre gli uomini del Sultano si avvicinano sempre di più al villaggio, Brooke e Murray trovano tracce sempre più precise della presenza di Sandokan e della sua gente. Yanez, dal canto suo, osserva ogni gesto del capo guerriero e non nasconde la sua diffidenza: teme che l’odio del guerriero prima o poi esploderà in un tradimento. Nella giungla Sandokan, guidato da Marianna, impugna una cerbottana. È un’immagine potente: la Tigre della Malesia costretta a cacciare senza occhi, affidandosi alla voce di lei. E proprio mentre Marianna lo guida, Sandokan ha una visione: suo padre gli insegna a usare quell’arma, come se il corpo ricordasse prima della mente. Sotto gli occhi increduli del capo guerriero, Sandokan riesce a colpire e uccidere un uccello: un gesto piccolo, ma simbolico, perché dimostra che “qualcosa” in lui sa già come muoversi in quel mondo, come se l’appartenenza fosse scritta nei muscoli e non nei racconti. Nel frattempo, a poca distanza, gli uomini del Sultano catturano una famiglia Dayak. È una scena che rende concreta la minaccia: non stanno cercando “dei pirati”, stanno distruggendo un popolo. Nottetempo al villaggio i Dayak condividono il cibo e la serata assume un tono quasi domestico. Il capotribù prende in giro Marianna perché ripete “grazie” in continuazione: per loro, abituati a condividere e sopravvivere insieme, il ringraziamento è quasi superfluo, un concetto “straniero”. Poi Marianna va da Sandokan e lo sfama, e mentre gli sfiora la mano Sandokan ha un’altra visione: la notte dell’assalto, suo padre che si prepara ad andare in guerra, la sensazione che quella sia stata l’ultima vera alba di un mondo ormai perduto. In paese si diffonde la notizia che una famiglia è sparita. Marianna e Sani percepiscono subito il pericolo, ma il capotribù è categorico: nessuno si muoverà a cercarli. È una decisione che pesa come una condanna. Intanto gli uomini del Sultano torturano la famiglia catturata finché questa confessa la posizione del villaggio. Brooke e Murray assistono da lontano e li seguono, osservando l’orrore senza poterlo ignorare. Murray è disgustato dai soldati: non è solo violenza, è disumanizzazione sistematica.

Nel villaggio, però, la puntata concede un momento luminoso, quasi sospeso. I bambini capiscono che tra Marianna e Sandokan c’è attrazione e li guidano, ridendo, fino a una radura con una cascata meravigliosa. Ripetono una parola Dayak che Marianna capisce a metà, ma il senso è evidente: “innamorati”. Dopo un po’ Marianna smette di trattenersi e bacia Sandokan con passione. Lui ricambia. È un bacio che non nasce da un ballo o da un corteggiamento: nasce dal buio, dalla paura, dal bisogno di ancorarsi a qualcosa di vero. Al villaggio, però, il capo dei guerrieri torna a mordere. Vuole andare a cercare la famiglia scomparsa e sputa veleno sulla profezia: l’“uomo della profezia”, invece di liberare il suo popolo, si “spassa” con una straniera. In parallelo, Sandokan viene travolto da un ricordo più grande: vede suo padre come vincitore di una guerra e, alla cerimonia di vittoria, riconosce una presenza che lo lacera. C’è il capotribù. Questo significa una cosa sola: quell’uomo sa più di quanto dica. Deve delle risposte a Sandokan, e non sono risposte leggere. Gli uomini del Sultano si avvicinano al villaggio, guidati da una donna Dayak costretta a farlo. Ma proprio quando arrivano in una zona di sabbie mobili, la donna sceglie la morte alla schiavitù: avanza e si lascia inghiottire dalle sabbie pur di non tornare a vivere in catene. I soldati reagiscono minacciando le sue figlie, ma Brooke e Murray intervengono: salvano le bambine e uccidono i soldati. Le piccole scappano nella giungla, portandosi dietro un’urgenza che farà detonare la parte finale dell’episodio. Intanto Sandokan recupera la vista. È un ritorno improvviso, quasi miracoloso, e lo usa subito per affrontare il capotribù. L’uomo gli dice che il giorno dopo incontrerà suo padre e compirà la profezia. Yanez, però, non ci crede. Ha paura che Sandokan venga manipolato, che la profezia sia una gabbia costruita da chi vuole guidarlo come un’arma. Sandokan, invece, è deciso: ora deve arrivare in fondo. Yanez prova a farlo ragionare, parla del popolo Dayak e di quanto siano esposti. Racconta anche qualcosa di personale: confessa a Sandokan perché ha smesso di essere prete, e quanto sia pericoloso ciò che sta accadendo attorno a quel villaggio. Ma Sandokan è irremovibile. Tra i due si crea una frattura che non è semplice discussione: è una separazione emotiva e ideologica. Si dividono. Sandokan parte da solo, dopo essersi salutato con amore da Marianna, mentre Yanez resta con un senso di presagio addosso.

Testo del monologo + note

Tu lo sai che io ero un prete, ma non ti ho mai detto perché non lo sono più. Ero in una missione in Amazzonia in una tribù simile a questa. Gente semplice, un popolo generoso, reso schiavo dagli oppressori. Dicevo a me stesso che aiutarli era il mio compito. E che era per questo che Dio mi aveva cambiato lì. Li ho convinti a ribellarsi, ad impugnare le armi. E sai come è andata a finire? E’ finita con un massacro. Uomini, donne, persone innocenti, tutte giustiziati. Non commettere il mio errore. Vieni con noi a Java. 

“Tu lo sai che io ero un prete, ma non ti ho mai detto perché non lo sono più.”: attacco confidenziale ma grave; pausa dopo “prete” come se pesasse ancora addosso; “non ti ho mai detto” va detto senza scuse, con una colpa adulta; sguardo basso, non per vergogna teatrale ma per pudore, come chi apre una porta rimasta chiusa troppo a lungo.

“Ero in una missione in Amazzonia in una tribù simile a questa.”: tono narrativo, quasi documentaristico; “simile a questa” è il ponte emotivo con il presente, quindi fai un micro-cenno con lo sguardo al villaggio (o allo spazio intorno) senza indicare; ritmo più lento, come se stessi ricostruendo immagini precise.

“Gente semplice, un popolo generoso, reso schiavo dagli oppressori.”: qui devi “dipingerli” con rispetto, non romanticizzarli; pausa dopo “generoso” per far entrare la dignità; “reso schiavo” è un colpo secco, cambia temperatura della voce; “oppressori” non va urlato, va detto con disprezzo controllato, come una parola che hai imparato a temere.

“Dicevo a me stesso che aiutarli era il mio compito.”: autocritica mascherata da confessione; su “Dicevo a me stesso” fai sentire che stai citando un’illusione; “compito” suona come missione, quasi presunzione morale: leggera stretta della mascella, come se lo vedessi ora con lucidità.

“E che era per questo che Dio mi aveva cambiato lì.”: qui entra la fede, ma già incrinata; non dev’essere preghiera, dev’essere memoria di un’idea; micro-sospensione su “Dio” (senza enfasi religiosa, più come nome di un’ancora perduta); “mi aveva cambiato lì” va detto con un filo di amarezza, perché quel “lì” oggi sembra una trappola.

“Li ho convinti a ribellarsi, ad impugnare le armi.”: è la frase cardine, va detta quasi in sottrazione; pausa dopo “convinti” perché è il peso della responsabilità; “ribellarsi” può avere un lampo di orgoglio subito soffocato; “impugnare le armi” deve arrivare come una condanna, abbassando il volume, come se pronunciarlo facesse ancora male.

“E sai come è andata a finire?”: domanda retorica, ma non aggressiva; sguardo diretto a Sandokan, cercando di prenderlo prima che cada; fai una pausa prima della domanda, come se sperassi che lui risponda “no” e invece sai già che sì.

“E’ finita con un massacro.”: frase corta, colpo di martello; niente tremolio melodrammatico: la forza sta nella semplicità; “massacro” va detto con la voce più bassa di tutto il monologo, quasi senza aria, come se la parola avesse sangue addosso; lascia un silenzio dopo, non scappare.

“Uomini, donne, persone innocenti, tutte giustiziati.”: elenco che deve “mostrare” immagini; scandisci senza fretta, come fotografie; pausa dopo “innocenti” perché lì sta l’ingiustizia irreparabile; su “giustiziati” non mettere rabbia: metti nausea, come se stessi rivedendo la scena.

“Non commettere il mio errore.”: non è un ordine da padre, è una supplica da sopravvissuto; avvicinati emotivamente (anche solo con il busto o con lo sguardo); “mio” va sottolineato: ti prendi tutta la colpa, non la scarichi sugli oppressori, perché il punto è fermare Sandokan adesso.

“Vieni con noi a Java.”: chiusura pratica, quasi logistica, proprio perché è disperata; tono più dolce, meno “argomentativo”; fai un respiro prima di “Vieni” come se fosse l’ultima carta; su “con noi” inserisci una promessa di salvezza, non di fuga codarda; lascia il silenzio finale aperto, come se aspettassi davvero una risposta.

Analisi del monologo di Yanez a Sandokan in "Sandokan (2025)"

Questo monologo di Yanez è una confessione tardiva che nasce non dal bisogno di essere assolto, ma dal terrore di vedere un errore già compiuto ripetersi davanti ai suoi occhi. Non è un racconto eroico né una denuncia politica: è il resoconto disilluso di chi ha creduto di fare il bene e ha scoperto di aver contribuito a una tragedia. Yanez non parla come un ex prete che ha perso la fede, ma come un uomo che ha perso l’illusione di poter “salvare” gli altri senza pagarne il prezzo. La prima parte del monologo costruisce la fiducia: “tu lo sai che io ero un prete”, dice, e in quella frase c’è già una distanza tra ciò che era e ciò che è diventato. La fede non viene rinnegata con rabbia, ma lasciata alle spalle come qualcosa che non basta più a spiegare il mondo. Yanez descrive un popolo semplice e generoso, ma subito introduce il concetto chiave: la schiavitù. Qui il monologo prende una piega etica forte, perché Yanez riconosce di essersi sentito “nel giusto”. Aiutare quel popolo gli sembrava il suo compito, quasi una chiamata divina. È proprio questo il nodo drammatico: non l’errore in sé, ma la convinzione morale con cui è stato commesso. Quando dice di averli convinti a ribellarsi e a impugnare le armi, Yanez non cerca attenuanti storiche o politiche. Non parla di necessità, parla di responsabilità. La ribellione, che in altri racconti sarebbe un atto di liberazione, qui diventa l’innesco di un massacro.

Il cuore emotivo del monologo arriva con la descrizione delle conseguenze: uomini, donne, innocenti giustiziati. Yanez non usa immagini spettacolari, perché non servono. La forza sta nella semplicità brutale dell’elenco, che suona come una sentenza irrevocabile. È il momento in cui il personaggio smette di raccontare il passato e inizia a parlare al presente. “Non commettere il mio errore” una supplica. Yanez non sta dicendo a Sandokan di rinunciare alla lotta per codardia, ma di non trasformarsi, senza volerlo, in un altro uomo che porterà sulle spalle morti innocenti. L’invito finale a partire per Java è volutamente concreto, quasi banale: non è un sogno, è una via d’uscita. Ed è proprio questa concretezza a renderlo tragico, perché sappiamo che Sandokan difficilmente potrà accettarla.

Per un attore, questo monologo funziona se interpretato come un fallimento lucido, non come una crisi emotiva. Yanez non crolla, non piange, non implora. Ha già fatto i conti con il proprio passato, e ora cerca solo di impedire che qualcun altro lo ripeta. È un testo che parla di colpa senza redenzione, di responsabilità senza eroismo, e che mette in scena una delle domande più scomode della serie: quando una rivolta smette di essere giusta e diventa solo un altro massacro?

Sandokan - Finale Episodio 6

Sandokan e il capotribù entrano in territorio Cayan. Arrivano a un villaggio abbandonato e in macerie, segnato dal fuoco. Il capotribù lo invita a usare “gli occhi interiori”, come se il viaggio non fosse più geografico ma spirituale. Sandokan viene risucchiato in una visione dal passato: vede i suoi genitori, vede suo padre, la notte in cui arrivarono gli inglesi. E vede una cosa che spezza ogni certezza: in mezzo a quel plotone c’è un giovane Murray. Il padre dona a Sandokan il ciondolo della tigre, come ultimo atto di identità prima della fine. Poi la visione diventa massacro: Sandokan vede il suo popolo trucidato, compresi i suoi genitori. E in quella scena compaiono i volti del potere: un giovane Murray, un giovane console, un giovane Sultano, in mezzo agli inglesi. Sandokan è devastato. Il saggio parla della profezia della tigre che caccerà gli invasori e ribadisce che il capo atteso non era suo padre: è Sandokan. Ma l’ultima rivelazione è quella che distrugge il cuore dell’episodio: l’assassino di suo padre è il padre di Marianna. Torniamo al villaggio: Sani e Marianna parlano della relazione tra Marianna e Sandokan e, per un attimo, trovano una leggerezza rara. Nuotano, ridono, provano a respirare. Ma Sandokan rientra e porta addosso la tempesta: è scuro in volto, cambiato. In quel momento arrivano anche le bambine salvate da Brooke e Murray, raccontano ciò che è successo, dicono che bisogna chiamare Sandokan perché gli uomini del Sultano sono vicini. Ma Sandokan ha un pensiero che brucia più della paura: la verità.

Senza mezzi termini dice a Marianna quello che ha visto: suo padre è coinvolto, suo padre è responsabile, suo padre è l’uomo che ha ucciso il padre di Sandokan. E la lascia. La scena è una frattura netta: non è un litigio, è un taglio. Ma mentre discutono arrivano Brooke e Murray: hanno raggiunto il villaggio seguendo le tracce e l’onda di sangue. Salvano Marianna e provano ad arrestare Sandokan. Sandokan sta per essere catturato, ma un’ultima visione lo blocca: ricorda il passato, ricorda il momento in cui un uomo lo salvò… e quell’uomo era Murray, da giovane. È un riconoscimento paradossale: uno dei nemici di oggi è anche una delle figure del suo passato. Sandokan capisce che non è finita, colpisce Murray e scappa. Il finale si chiude così: Marianna resta con Brooke, mentre Sandokan fugge da solo nella giungla, portandosi dietro una verità che brucia e un destino che si sta stringendo attorno a lui.

Credits e dove vederlo

Regista: Jan Maria Michelini, Nicola Abbatangelo

Sceneggiatura: Dai romanzi di Emilio Salgari

Cast: Can Yaman (Sandokan) Alanah Bloor (Marianna Guillonk) Ed Westwick (James Brooke) Madeleine Price (Sani) Owen Teale (Lord Guillonk); John Hannah (sergente Murray); Alessandro Preziosi (Yanez de Gomera)

Dove vederlo: Rai Play

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