Perché ricordiamo i villain più dei protagonisti

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Viva i Villain

A volte entri in sala convinto di tifare per l’eroe… e poi esci citando battute del villain. Succede da sempre: Joker oscura Batman, Hannibal Lecter seduce più di Clarice, Darth Vader resta stampato nella memoria ben oltre Luke. E allora la domanda è inevitabile: perché ricordiamo i cattivi più degli “eroi della storia”?

Quando si lavora con attori e studenti su scene drammatiche, c’è una costante: i personaggi negativi richiedono un’attenzione diversa. Sono meno prevedibili, più iconici, più liberi. E questo, a livello narrativo e recitativo, cambia tutto. In questo articolo entriamo dentro questa dinamica, come se stessimo analizzando una scena insieme in studio: gesto, intenzione, conflitto interno, ritmo, scrittura.

Se togli il cattivo, la storia non parte. È lui – o lei – a generare il bisogno dell’eroe, a cambiare l’equilibrio iniziale, a rompere la quiete che la sceneggiatura imposta nel primo atto. Per un attore questo significa incarnare la forza che spinge la storia in avanti. Il villain non reagisce: agisce. Ha un obiettivo chiaro, spesso più preciso di quello del protagonista.

E questo lo rende immediatamente memorabile. Un antagonista ben scritto ragiona così: “Io voglio X.”/“Per ottenerlo, devo distruggere/ingannare/ostacolare Y.”

“E nessuno potrà fermarmi.”

È la semplicità cristallina che trasforma un villain in un magnete narrativo. L’eroe spesso deve scoprire cosa vuole davvero; il cattivo lo sa fin dall’inizio. La vulnerabilità è la scintilla che trasforma un antagonista in un personaggio tragico, quindi potente. Non ricordiamo i villain perché sono “malvagi”. Li ricordiamo perché sono umani nei modi peggiori: fragili, feriti, ossessivi, affamati di riconoscimento, desiderosi di controllo. Interpretare un cattivo è, per molti attori, un’occasione d’oro per lavorare sulle parti nascoste: il piacere del dominio, le ferite non elaborate, la necessità disperata di essere visti, il bisogno patologico di cambiare il mondo “a modo proprio”.

Il pubblico questo lo percepisce in un istante: non sta guardando un “mostro”, sta guardando una persona con una crepa profonda… e quella crepa sa raccontare più della perfezione del protagonista.

Molti eroi devono mantenere un’etica: essere “buoni”, controllati, responsabili.  Il villain no. Il villain può permettersi di essere:

impulsivo

ironico

disturbante

elegante

animalesco

imprevedibile

disperatamente logico

Questa libertà espressiva permette all’attore di osare: voce, piccoli gesti, modulazioni, posture non convenzionali. Una scelta che sull’eroe sarebbe “troppo”, sul villain diventa linguaggio. È lo spazio della creazione pura. Quando un personaggio può permettersi di rompere lo schema, di uscire dalla norma, di manipolare, di ridere nei momenti in cui nessun altro dovrebbe ridere… il pubblico non può far altro che guardarlo.

La scrittura dei cattivi è quasi sempre più cesellata. Le loro battute sono scolpite per essere ricordate: monologhi, frasi filosofiche, verità scomode, provocazioni che ribaltano il punto di vista. L’eroe parla di speranza. Il villain parla della realtà.

Ed è per questo che:

“I am your father.”
“Why so serious”

rimangono nell’immaginario più delle frasi dell’eroe.Il villain dice ciò che noi non diciamo. E quando un personaggio dà voce all’inconfessabile, resta inciso. Sul piano simbolico, l’antagonista è la parte d’ombra. È quello che in noi è represso, ma vivo. Il pubblico prova paura, sì… ma anche attrazione. Perché il cattivo fa cose che noi non potremmo mai fare: parla senza filtri, agisce senza vergogna, lotta senza compromessi. Non è la sua malvagità a colpirci: è la sua libertà. Il villain mette in scena l’istinto, l’impulso, la versione non addomesticata dell’essere umano. E per questo lo ricordiamo più del protagonista, che è spesso “giusto” ma anche più lineare.

Paradossalmente un antagonista funziona quando l’attore non interpreta un “cattivo”, ma una persona convinta di essere nel giusto. E allora si crea quello strano effetto per cui: più il villain è reale, più è disturbante. Più è disturbante, più resta impresso. Gli attori che lavorano su questi ruoli solitamente scavano in profondità: respirazione, micro-espressioni, sguardi, ritmi spezzati, movimenti calibrati. Ogni dettagli diventa un indizio. Ed è lì che scatta la memorabilità: nei piccoli scarti.

Un protagonista è spesso definito dalla trama: obiettivi, ostacoli, relazioni. Un cattivo, invece, è definito dalla presenza. E anche quando non è in scena, c’è. Un buon film ti fa chiedere: “Cosa starà facendo adesso il cattivo?” “Quando tornerà?” “Qual è il suo prossimo piano?” La sua ombra è narrativa. E quando un personaggio vive anche fuori campo, allora è entrato dentro di noi.L’eroe scorre nella direzione che immaginiamo. Il cattivo devia sempre un millimetro più in là.

Quello scarto, per il cervello, è puro cinema: il punto in cui attenzione e piacere si sovrappongono.

Questo è fondamentale nel lavoro in accademia. Quando agli studenti capita di affrontare un antagonista, il consiglio è sempre lo stesso:

non interpretarlo come “cattivo”.
Interpretalo come “inevitabile”. (Cit)

Ricordiamo i villain più dei protagonisti perché sono i vettori del conflitto, i portatori dell’ombra, gli interpreti delle pulsioni che la storia non può permettere all’eroe di mostrare. Sono magnetici perché sono complessi, coerenti, liberi. E perché, nel loro modo distorto, ci somigliano più di quanto vorremmo ammettere.

Per questo, quando analizzi una scena o studi un personaggio, non pensare mai al cattivo come “colui che sbaglia”: pensa a colui che vede il mondo attraverso una verità che lo ha deformato. Da lì nasce tutto.

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