Unisciti alla nostra Community Famiglia! Compila il "FORM" in basso, inserendo il tuo nome e la tua mail, ed entra nell'universo di Recitazione Cinematografica. Ti aspettiamo!
Articolo a cura di...
~ LA REDAZIONE DI RC
Siamo dentro la terza stagione di Squid Game. La madre di Yong-sik, si rivolge a Gi-hun con parole che grondano disperazione. La scena arriva dopo che il figlio si è tolto la vita: un suicidio figlio non solo del fallimento, ma dell’umiliazione continua, e di un’ultima frase della madre che – in retrospettiva – diventa letale. In quel contesto dove ogni personaggio sembra essere ridotto al suo istinto di sopravvivenza, questa donna parla invece da un punto morto. Ha già perso tutto. È oltre il gioco. E proprio per questo può permettersi di guardare in faccia la verità.
STAGIONE 3 EP 3
MINUTAGGIO: 25:51-30:26
RUOLO: Geum-ja
ATTRICE: Kang Ae-shim
DOVE: Netflix
ITALIANO
Pensi veramente che sia colpa tua se le cose sono andate così? Non importa come la penso io. Comunque la vita molto spesso è ingiusta. Le persone cattive fanno sempre cose orribili, danno la colpa agli altri, e non gli importa niente. Invece le persone buone non fanno altro che incolpare se stesse per qualsiasi cosa che vada storta, e si tormentano ogni giorno. Il mio Yong-sik era così. Er un uomo debole, spaventosamente ingenuo. Si è incolpato quando la società in cui lavorava ha chiuso. Si è incolpato quando è stato pestato dai suoi creditori, e quando lo hanno truffato quando giocava d'azzardo. E una volta, quando un suo caro amico di cui si fidava ciecamente è fuggito con i suoi soldi, poveretto, si è ubriacato, fino a stordirsi. Ma un giorno mi sono stancata di vederlo così orribilmente patetico. Non ce la facevo più, sono scoppiata e gli ho urlato contro: "Io mi pento per aver sofferto di metterti al mondo. Da questo momento farò finta di non aver mai avuto un figlio come te. Sparisci immediatamente dalla mia vista, bastardo smidollato" E quella stessa notte, più tardi, ha mandato giù tante pillole. Ha anche lasciato un messaggio in cui si scusava per essere stato un fallimento. Mentre lo mettevo su un carretto per portarlo in ospedale, ho cominciato a pregare Dio. Ho giurato che avrei fatto di tutto se lo avesse salvato. Mi sarei anche gettato nelle fiamme dell'inferno, se necessario. Ma la realtà è che… alla fine… l'ho ucciso io stessa. Con le mie mani. Io ho ucciso il mio povero bambino. Ascolta. Jun-hee e la figlia hanno bisogno di aiuto. Ti andrebbe di dargli una mano, te ne supplico. Io continuo a credere che tu sei tornato qui dentro solo per salvare la vita a tutti. Alla mia età sono finita in un posto così… e non so se il motivo è perché ho sbagliato tutto nella vita, oppure… se è per colpa di quelle persone terribili e cattive come hai detto tu che erano di sopra. Ma quella bimba non c'entra niente, è una creatura innocente. Non è certo colpa sua se è nata in questo buco infernale. Gi-hun, ti supplico. Aiutale a sopravvivere a questo gioco. Piuttosto che a me e a mio figlio… pensa a loro. Salva la vita a Jun-hee e la bambina, ti prego. Ti supplico Gi-hun. Ti prego, proteggile, ti prego, ti prego. Ti prego, puoi salvarle.
“Hai ancora fede nell’umanità?” – questa è la domanda al centro dell’ultima stagione. E dopo tre cicli di giochi, tre stagioni di sopravvivenza, tradimenti e disillusioni… la risposta comincia a farsi sempre più amara.
Stagione 1 Un fenomeno. Squid Game esplode con un’idea semplice e feroce: centinaia di disperati vengono reclutati per partecipare a giochi infantili… con esiti letali. Chi perde, muore. Chi vince, si porta a casa una montagna di soldi. Ma il cuore è tutto in Gi-hun (Lee Jung-jae), il n°456, un uomo schiacciato dai debiti e dal fallimento personale che si ritrova a vincere il gioco, perdendo però tutto quello che aveva di umano lungo il cammino.
Stagione 2 Gi-hun, dopo aver deciso di non partire per gli Stati Uniti, si mette sulle tracce dell’organizzazione responsabile. Entra in gioco il Front Man, figura sinistra e autoritaria che scopriamo essere In-ho (Lee Byung-hun), il fratello dell’agente di polizia Jun-ho. Vengono introdotti nuovi personaggi, tra cui la guardia Kang No-eul (Park Gyu-young), e nuovi giochi. Ma la seconda stagione si chiude con un cliffhanger pesante: Gi-hun è pronto a colpire, a interrompere definitivamente il ciclo dei giochi.
La terza stagione riparte esattamente da dove si era fermata la seconda. Gi-hun è più solo che mai, devastato dalla carneficina scatenata nel suo tentativo di ribellione. Ha perso tutto, anche la direzione morale. Non sa ancora che il Front Man è proprio In-ho, ma il confronto tra i due è imminente.
Gi-hun sull’isola: È tornato al centro dell’arena. Ma stavolta non per giocare, bensì per distruggere il gioco dall’interno. Il suo arco è quello del vendicatore stanco, che non ha più nulla da perdere ma neanche la lucidità di un eroe. E non è detto che ce la faccia.
Jun-ho alla ricerca dell’isola: Il poliziotto, creduto morto nella prima stagione, è ormai vicino a scoprire tutto. La sua linea narrativa si intreccia con quella del Capitano Park, figura ambigua che ostacola le sue indagini. Questo filone si muove in stile thriller: infiltrazioni, documenti rubati, e una verità sempre più scomoda.
Kang No-eul e il giocatore n°246: Il terzo arco è più personale. La guardia introdotta nella stagione 2 vuole salvare a tutti i costi un giocatore. Questo segmento porta dentro il tema della maternità, dell'eredità emotiva e morale, ed è uno dei pochi punti in cui l’umanità sembra ancora esistere. Ma la domanda è: a che prezzo?
Due giochi restano da giocare. Non è stato svelato quali, ma seguendo la logica della serie, si può intuire che saranno distorsioni feroci di simboli infantili. Nella tradizione di Red Light, Green Light o del Gioco delle Biglie, questi ultimi round sembrano messi in scena per annientare ogni residuo di innocenza.
Il monologo è costruito su due strati che si sovrappongono:
Un racconto in flashback personale e privato La madre ricostruisce gli ultimi giorni di suo figlio, la sua fragilità, le umiliazioni subite, e il momento in cui – esasperata – lo ha respinto verbalmente. Non c’è una ricerca di perdono: c’è consapevolezza. La frase “l’ho ucciso io stessa” non è detta per autocommiserazione, ma come sentenza.
Un appello verso il futuro La donna si rivolge a Gi-hun con un ultimo desiderio: che qualcun altro si salvi, che qualcuno innocente possa essere strappato a quell’inferno. Chiede a Gi-hun di proteggere Jun-hee e una bambina – due figure che non hanno colpa, e che rappresentano l’unica possibilità di redenzione attraverso l’azione, non il pentimento.
Il cuore del monologo è un meccanismo che Squid Game ha esplorato fin dall’inizio: il senso di colpa come veleno psicologico, soprattutto nei “buoni”. La madre descrive il figlio Yong-sik come un uomo buono e fragile, incapace di reagire alla brutalità del mondo. La sua rovina non viene da una cattiva scelta, ma dalla costanza dell’umiliazione – dalla società, dai debiti, dagli amici, e infine dalla madre stessa. E quando lei urla quelle parole tremende (“Sparisci immediatamente dalla mia vista, bastardo smidollato”), non è solo rabbia. È frustrazione senza filtri, il crollo di una persona che non ha più riserve emotive. Quel momento, nel linguaggio della tragedia, è lo sparagmos: la frattura irreversibile, la parola che uccide più della mano.
All’inizio del monologo, la donna pone una distinzione netta:
“Le persone cattive fanno cose orribili e non si sentono in colpa. Le persone buone si tormentano.”
Qui emerge un tema già noto nella serie: la bontà è un peso, non una virtù. Chi è empatico, in Squid Game, è destinato a soccombere o a farsi logorare. Gi-hun stesso ne è testimone. La frase assume un significato ancora più disturbante se considerata nel contesto dei giochi: chi si colpevolizza, muore. Chi si giustifica, sopravvive. Il monologo si chiude spostando l’attenzione su Jun-hee e la bambina. Una chiusura che non è centrata su sé stessa, ma sugli altri, proprio come chi ha capito di essere fuori tempo massimo. La bambina viene descritta come una creatura innocente, nata in questo buco infernale. Il sottotesto è chiaro: non si può scegliere dove si nasce, ma forse si può decidere chi provare a salvare.
Questo monologo è una lama che incide con precisione: taglia l’illusione che esista un confine netto tra colpa e responsabilità. La madre non ha ucciso fisicamente il figlio, ma lo ha fatto con la sua disperazione, con la violenza delle parole dette in un momento estremo. E nel mondo narrativo di Squid Game, dove il sangue è spesso spettacolarizzato, qui assistiamo a una morte diversa. Silenziosa, psicologica, definitiva. Gi-hun è l’ascoltatore, ma anche il destinatario dell’ultima speranza: non perché possa redimere la donna, ma perché può ancora salvare qualcun altro. È un passaggio di testimone. Da chi non è riuscito, a chi può ancora fare la scelta giusta. Forse.
Le Migliori Classifiche
di Recitazione Cinematografica
Entra nella nostra Community Famiglia!
Recitazione Cinematografica: Scrivi la Tua Storia, Vivi il Tuo Sogno
Scopri 'Recitazione Cinematografica', il tuo rifugio nel mondo del cinema. Una Community gratuita su WhatsApp di Attori e Maestranze del mondo cinematografico. Un blog di Recitazione Cinematografica, dove attori emergenti e affermati si incontrano, si ispirano e crescono insieme.
Monologhi Cinematografici, Dialoghi, Classifiche, Interviste ad Attori, Registi e Professionisti del mondo del Cinema. I Diari Emotivi degli Attori. I Vostri Self Tape.