The Bear 4: Il monologo di Georgie agli Alcolisti Anonimi è uno dei momenti più potenti della stagione

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Siamo in un incontro degli Alcolisti Anonimi in “The Bear 4”, e Carmy è lì, seduto ad ascoltare. A parlare è Georgie, una donna che non rivedremo più nella serie — non ha un arco narrativo, non ha un nome famoso dietro il volto. Eppure, in quei due minuti di racconto, lascia un’impronta che vale quanto un intero episodio.

È il racconto tragicomico, esasperato, ma lucido, di cosa vuol dire amare qualcuno che è fuori controllo. E in quella stanza dove tutti sono lì per cercare di rimettere insieme i cocci della propria vita, questa storia ha il suono preciso della realtà.

Innaffia le piante

STAGIONE 4 EP 5

MINUTAGGIO: 00:18-3:47

RUOLO: Georgie

ATTRICE:

DOVE: Disney+

ITALIANO

Così gli dico: “Si, certo che puoi stare da me questo weekend. Io sono via. Ma non devi combinare guai”. “Ma certo“, risponde. Io dico che sono serissima, e che deve rigare dritto. E che deve annaffiare le piante. Tra me e me penso: “Dio non voglia che non faccia qualche stupidaggine come temo. Devi annaffiare le piante”, gli dico “Devi annaffiare soprattutto questa pianta. E’ un’alocasia. Era di nostra madre, e io l’ho salvata da morte certa, io da sola, ok?” Così, lui me lo promette. Mi dice che penserà lui alla pianta. Mi spiega che è sobrio da sei mesi, tre settimane, quattordici giorni e otto ore, ormai. E’ mio fratello e lo adoro. Ma lo ucciderei. Lo adoro ma lo ammazzerei. Decido di fidarmi. Già… e così lui fa quello sguardo innocente. Dice: “Georgie, ti voglio bene, non preoccuparti. Annaffierò le piante. Farò il bravo” Io mi fido. Gli credo. Mi fido di mio fratello e me ne vado per tre giorni. O mio Dio. E al mio ritorno apro la porta… ecco, un piccolo sbaglio lo avrei accettato. Ma lì eravamo ben oltre. C’erano quattro persone nude che dormivano sul mio divano. Nessuno delle quali era mio fratello. Grazie al cielo, in realtà. C’erano bottiglie di birra e stagnola bruciata d’appertutto. Sigarette, vomito che lui mi ha detto essere sempre stato lì. Percorro il mio corridoio, entro in camera, e sul mio letto, a pezzetti, sparse ovunque, ci sono… non quello che state pensando, ma bustine di kechup, il che è tanto strano quanto sinceramente inquietante. Io sono disperata e nauseata. E vado nel panico perché penso sia morto. Così io entro nel mio nbagno e lì proprio nella vasca trovo lui, vestito, che si fuma una sigaretta ed è felice. Insomma, è felice come non mai. Io lo guardo e mi metto a piangere. E lui inizia a cantare una canzone che nostra madre adorava. Un pezzo di Doris Day, si chiama “Magic”. Lo conoscete, fa… (Ne canta un pezzetto). Così. Lo fisso, mentre canta, e… mi siedo sulla tavolettta del vater e a quel punto vado fuori di testa. Così lui viene verso di me, si siede ai miei piedi, guarda verso di me e dice: “Georgie, stai tranquilla, ho annaffiato le piante.” Grazie.

The Bear 4

La quarta stagione di The Bear, disponibile dal 26 giugno su Disney+, segna un punto di svolta per la serie, e forse anche un momento di riflessione per chi la segue fin dall'inizio. La stagione passata si era chiusa con il tanto atteso debutto del nuovo ristorante e la prima, incerta recensione del Tribune. Nessun disastro, ma nemmeno un trionfo: i panini da asporto de The Beef vengono elogiati, mentre il servizio in sala e la gestione emotiva del team vengono messi sotto osservazione. Per Carmy (Jeremy Allen White), basta questo per far scattare l’autodistruzione. La sensazione che il tempo non esista più — se non come una ripetizione ossessiva — prende il sopravvento. Una spirale che segna l’intera stagione.

The Bear ha sempre lavorato su tre binari narrativi fondamentali: il trauma familiare, la costruzione identitaria attraverso la cucina e l’ansia da prestazione costante. Questi elementi non vengono mai risolti, ma continuano a tornare — in modo più quieto, più stanco — anche in questa quarta stagione. Le esplosioni isteriche delle prime stagioni lasciano il posto a un senso di logoramento continuo. Carmy si sveglia sul divano mentre alla TV scorrono le immagini di Ricomincio da capo (1993, Harold Ramis). Un easter egg fin troppo esplicito: è il giorno della marmotta, ma in chiave gastro-esistenziale.

Sydney (Ayo Edebiri) si trova sospesa: il fallimento emotivo e operativo del ristorante la porta a considerare nuove strade. Shapiro (Adam Shapiro) le offre un’alternativa concreta, ma è chiaro che la sua lotta non è tra due carriere: è tra due idee di sé. In sogno si vede sorridere mentre tutto crolla e l’acqua la sommerge — una delle immagini più simboliche della stagione. Non riesce a uscire dal caos dei Berzatto perché quel caos ha finito per sostituire un senso di casa.

Richie (Ebon Moss-Bachrach), come sempre, è lo specchio più emotivamente instabile della serie. La figlia Eve è sempre più lontana, assorbita da un nuovo contesto familiare che Richie non può permettersi né comprendere. L’ingresso di Frank (Josh Hartnett), il nuovo compagno di Tiffany, è l’ennesima ferita mal sopportata. Eppure Richie cerca una forma di riscatto: affida il ristorante a un team di problem solver, rinunciando all’idea romantica del controllo in favore della funzionalità. È un piccolo passo avanti, ma non risolve il vuoto.

Ebra, al contrario, è l’unico personaggio in crescita reale. Rimasto nella vecchia sede del Beef, si concentra su ciò che sa fare: panini da asporto. Niente visione artistica, niente stelle, solo solidità e attenzione al cliente. E quando incontra Albert Schnurr (Rob Reiner), non gli viene proposto un impero, ma una cosa molto più concreta: un piccolo franchising. Non è “il grande sogno”, ma forse è la cosa giusta.

Nat (Abby Elliott), divisa tra il ruolo di madre e quello di manager, è una presenza che cerca di tenere tutto insieme. La pressione è altissima: lo zio Jimmy (Oliver Platt) lancia l’allarme. Le uscite superano le entrate, e il tempo stringe. Hanno due mesi. L’obiettivo è chiaro: ottenere una stella Michelin. Un obiettivo che Carmy non sa più nemmeno se vuole davvero. Carmy è completamente fuori fase. Torna a frequentare i gruppi di sostegno per familiari di alcolisti, ma anche lì non trova sollievo. È disconnesso dalla cucina, dalle relazioni, da sé stesso. Quando si presenta a casa di Claire (Molly Gordon), la scena è dolorosa nella sua semplicità: due persone che hanno condiviso qualcosa di profondo, incapaci di parlarne con chiarezza. Non è una riconciliazione e non è una rottura. È il limbo emotivo perfetto per un personaggio che vive ormai senza presente.

Il matrimonio di Tiffany riunisce tutto il gruppo. C’è Donna (Jamie Lee Curtis), sempre instabile e imprevedibile, e persino lo zio Lee (Bob Odenkirk), che abbandona il sarcasmo velenoso delle stagioni passate per mostrare un lato più umano. È una festa sorprendentemente serena, quasi catartica. Richie e Frank si chiariscono per amore della figlia. Claire e Carmy si riavvicinano. Ma ogni riconciliazione è precaria, ogni passo avanti è condizionato dal tempo che manca.

La quarta stagione è forse la più lenta, la più riflessiva e la più spigolosa. Mostra il logoramento interno dei personaggi senza cedere alla spettacolarizzazione. I litigi ci sono ancora, ma non sono più fuoco e fiamme. Sono apatie, silenzi lunghi, dialoghi fatti di “scusa” e “sto cercando di migliorare”. Nessuno cambia davvero, ma tutti cercano disperatamente una direzione. Se il ristorante chiude… ai suoi protagonisti cosa accadrà?

Analisi Monologo

Il monologo parte con un tono apparentemente leggero: “Si, certo che puoi stare da me questo weekend. Io sono via. Ma non devi combinare guai.” Georgie sa già che sta per fare un errore. Ma lo fa lo stesso. Perché si fida? No. Perché ama suo fratello. E qui c'è una verità che molti evitano di dire ad alta voce: fidarsi, a volte, non è una scelta lucida ma un gesto di disperazione pieno d’amore. “Devi annaffiare le piante. Soprattutto questa pianta. È un’alocasia. Era di nostra madre.” La pianta è il simbolo perfetto. È qualcosa di vivo, ma fragile. È ciò che resta della madre, è memoria, responsabilità, legame. Quando lei gli chiede di annaffiarla, in realtà sta chiedendo a suo fratello di non distruggere ciò che ancora può essere salvato della loro storia familiare.

Poi la storia prende la piega che temevamo: la casa distrutta, i corpi nudi sul divano, la stagnola bruciata, il vomito, il ketchup. Ma non è solo una scena da commedia dark — è una rappresentazione precisa del disordine che l’abuso e la dipendenza portano nella vita degli altri. Georgie attraversa la sua casa come se fosse un campo minato, e quando trova suo fratello, vivo, la reazione non è rabbia o sollievo. È panico emotivo. “Lo guardo e mi metto a piangere. E lui inizia a cantare una canzone che nostra madre adorava.” E qui arriva la frattura. La canzone di Doris Day, “Magic”, non è solo un ricordo. È la colonna sonora del passato idealizzato, della madre che non c’è più, di una vita che forse non è mai stata davvero felice, ma che adesso viene rievocata da un uomo affondato, in una vasca da bagno, mentre fuma. “Georgie, stai tranquilla, ho annaffiato le piante.”

Nonostante tutto — il disastro, la paura, la vergogna — lui si aggrappa a quel piccolo gesto, come se potesse assolverlo. Ed è qui che il monologo si chiude in modo perfetto: con la tensione tra amore e impotenza, tra cura e caos.

Conclusione

Carmy ascolta, in silenzio, ma sappiamo che quella storia gli entra dentro. Perché parla di famiglia, di fratelli, di madri, di promesse che non si possono mantenere, e di un dolore che si ripete con tonalità sempre diverse, ma riconoscibili. Come succede spesso in The Bear, le scene più significative ti arrivano di traverso. Quelle che non si concludono con un abbraccio, ma con una battuta che suona come un pugno. Questo monologo è uno di quei momenti. 

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