The Bear 4: Il monologo di zio Jimmy dietro la porta è uno dei momenti più intensi della stagione

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Questo monologo di zio Jimmy, interpretato da Oliver Platt, è uno dei momenti più fragili e insieme teneri della quarta stagione di The Bear. È una scena che arriva in sordina, ma che riesce a mettere a nudo un personaggio spesso percepito come “l’uomo d'affari”, il finanziatore pragmatico, una figura che finora si era mantenuta sempre un po’ ai margini del dolore espresso più apertamente da altri personaggi. Qui invece vediamo un padre. Punto. Siamo davanti a una porta chiusa — letteralmente. Jimmy è fuori dalla stanza di suo figlio, che ha tredici anni, e che in quel momento ha deciso di non voler sentire suo padre. E Jimmy, invece, decide di parlare. Non attraverso una conversazione, ma con una dichiarazione a senso unico, appoggiato fisicamente e psicologicamente a quella soglia chiusa. Una porta che diventa simbolo perfetto di distanza emotiva, di incomunicabilità e anche di vergogna. Ma invece di andarsene, Jimmy resta lì. E parla.

Per favore, dammi un calcio nelle palle

STAGIONE 4 EP 3

MINUTAGGIO: 5:15-7:00

RUOLO: Zio Gimmy

ATTORE: Oliver Platt

DOVE: Disney+

INGLESE

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ITALIANO

Mi dispiace tanto. Ho fatto un gran casino. E’ colpa mia. D’accordo? E’ una cosa temporanea, un paio di mesi e sistemerò tutto, andrà bene. Io e lo zio computer abbiamo un nuovo piano. E poi pensa positivo. Magari andare in una nuova scuola non sarà così male. Senza offesa, ma i ragazzini di qui sono delle fottute teste di cazzo. Io non sono cresciuto con delle teste di cazzo simili. Quelli con cui stavo io non avevano un centesimo. Non ci regalavano una cazzo di Ferrari per i sei anni. Sono fiero che tu non sia una testa di cazzo. Sono felice che tu, figlio mio, non sia una testa di cazzo nemmeno lontanamente. E non posso immaginare che cosa si provi ad avere 13 anni oggi. Non posso proprio immaginare di vedere il mondo attraverso i tuoi occhi. Tu meriti di meglio, davvero. Tu meriti la normalità. Ecco cosa meriti. Non ti meriti questi stravolgimenti. Soprattutto se il figlio di puttana che ha stravolto tutto è il tuo padre del cazzo. Mi è venuta un’idea. Se esci dalla stanza puoi darmi un calcio nelle palle. Puoi puntare dritto al cazzo. Ti prego esci e dammi un calcio. Ti sto implorando.

The Bear 4

La quarta stagione di The Bear, disponibile dal 26 giugno su Disney+, segna un punto di svolta per la serie, e forse anche un momento di riflessione per chi la segue fin dall'inizio. La stagione passata si era chiusa con il tanto atteso debutto del nuovo ristorante e la prima, incerta recensione del Tribune. Nessun disastro, ma nemmeno un trionfo: i panini da asporto de The Beef vengono elogiati, mentre il servizio in sala e la gestione emotiva del team vengono messi sotto osservazione. Per Carmy (Jeremy Allen White), basta questo per far scattare l’autodistruzione. La sensazione che il tempo non esista più — se non come una ripetizione ossessiva — prende il sopravvento. Una spirale che segna l’intera stagione.

The Bear ha sempre lavorato su tre binari narrativi fondamentali: il trauma familiare, la costruzione identitaria attraverso la cucina e l’ansia da prestazione costante. Questi elementi non vengono mai risolti, ma continuano a tornare — in modo più quieto, più stanco — anche in questa quarta stagione. Le esplosioni isteriche delle prime stagioni lasciano il posto a un senso di logoramento continuo. Carmy si sveglia sul divano mentre alla TV scorrono le immagini di Ricomincio da capo (1993, Harold Ramis). Un easter egg fin troppo esplicito: è il giorno della marmotta, ma in chiave gastro-esistenziale.

Sydney (Ayo Edebiri) si trova sospesa: il fallimento emotivo e operativo del ristorante la porta a considerare nuove strade. Shapiro (Adam Shapiro) le offre un’alternativa concreta, ma è chiaro che la sua lotta non è tra due carriere: è tra due idee di sé. In sogno si vede sorridere mentre tutto crolla e l’acqua la sommerge — una delle immagini più simboliche della stagione. Non riesce a uscire dal caos dei Berzatto perché quel caos ha finito per sostituire un senso di casa.

Richie (Ebon Moss-Bachrach), come sempre, è lo specchio più emotivamente instabile della serie. La figlia Eve è sempre più lontana, assorbita da un nuovo contesto familiare che Richie non può permettersi né comprendere. L’ingresso di Frank (Josh Hartnett), il nuovo compagno di Tiffany, è l’ennesima ferita mal sopportata. Eppure Richie cerca una forma di riscatto: affida il ristorante a un team di problem solver, rinunciando all’idea romantica del controllo in favore della funzionalità. È un piccolo passo avanti, ma non risolve il vuoto.

Ebra, al contrario, è l’unico personaggio in crescita reale. Rimasto nella vecchia sede del Beef, si concentra su ciò che sa fare: panini da asporto. Niente visione artistica, niente stelle, solo solidità e attenzione al cliente. E quando incontra Albert Schnurr (Rob Reiner), non gli viene proposto un impero, ma una cosa molto più concreta: un piccolo franchising. Non è “il grande sogno”, ma forse è la cosa giusta.

Nat (Abby Elliott), divisa tra il ruolo di madre e quello di manager, è una presenza che cerca di tenere tutto insieme. La pressione è altissima: lo zio Jimmy (Oliver Platt) lancia l’allarme. Le uscite superano le entrate, e il tempo stringe. Hanno due mesi. L’obiettivo è chiaro: ottenere una stella Michelin. Un obiettivo che Carmy non sa più nemmeno se vuole davvero. Carmy è completamente fuori fase. Torna a frequentare i gruppi di sostegno per familiari di alcolisti, ma anche lì non trova sollievo. È disconnesso dalla cucina, dalle relazioni, da sé stesso. Quando si presenta a casa di Claire (Molly Gordon), la scena è dolorosa nella sua semplicità: due persone che hanno condiviso qualcosa di profondo, incapaci di parlarne con chiarezza. Non è una riconciliazione e non è una rottura. È il limbo emotivo perfetto per un personaggio che vive ormai senza presente.

Il matrimonio di Tiffany riunisce tutto il gruppo. C’è Donna (Jamie Lee Curtis), sempre instabile e imprevedibile, e persino lo zio Lee (Bob Odenkirk), che abbandona il sarcasmo velenoso delle stagioni passate per mostrare un lato più umano. È una festa sorprendentemente serena, quasi catartica. Richie e Frank si chiariscono per amore della figlia. Claire e Carmy si riavvicinano. Ma ogni riconciliazione è precaria, ogni passo avanti è condizionato dal tempo che manca.

La quarta stagione è forse la più lenta, la più riflessiva e la più spigolosa. Mostra il logoramento interno dei personaggi senza cedere alla spettacolarizzazione. I litigi ci sono ancora, ma non sono più fuoco e fiamme. Sono apatie, silenzi lunghi, dialoghi fatti di “scusa” e “sto cercando di migliorare”. Nessuno cambia davvero, ma tutti cercano disperatamente una direzione. Se il ristorante chiude… ai suoi protagonisti cosa accadrà?

Analisi Monologo

“Mi dispiace tanto. Ho fatto un gran casino. È colpa mia. D’accordo?” Jimmy non parte da una difesa. Parte da una confessione. Non edulcora, non minimizza. Usa il linguaggio che ha: ruvido, diretto, persino volgare, ma mai falso. Sa che ha sbagliato, e rivendica il fallimento come qualcosa da mettere in chiaro subito, senza scuse. “È una cosa temporanea, un paio di mesi e sistemerò tutto…” Qui entra in modalità risolutiva, come se bastasse un piano per rimettere insieme i cocci. Ma anche lui sa che non è così semplice. È una menzogna affettuosa, un tentativo di rassicurazione disperata.

Poi subito la deviazione comica:

“Senza offesa, ma i ragazzini di qui sono delle fottute teste di cazzo.” È qui che Jimmy riesce a fare quello che pochi adulti fanno con i ragazzi: non tratta suo figlio come un bambino, ma come un interlocutore reale. Gli parla come si parlerebbe a un amico più giovane, o forse come avrebbe voluto che parlasse suo padre con lui. Il linguaggio volgare non è maleducazione: è un modo per dire “io ti vedo, e non ti tratto con condiscendenza”. “Sono fiero che tu non sia una testa di cazzo.” Questa frase fa quasi sorridere per la sua assurda tenerezza. Per Jimmy, essere fiero del figlio non è legato ai voti, al comportamento, ai traguardi: è legato al fatto che non è diventato come il mondo tossico che ha intorno. Lo rispetta profondamente, e glielo dice nel modo più sincero e rozzo che conosce.

“Tu meriti la normalità. Ecco cosa meriti.” Jimmy sa benissimo che non può offrirgliela. E ammettere questo, da parte di un padre, è un atto di vulnerabilità. La “normalità” in The Bear è quasi un miraggio, una parola che i personaggi ripetono come se fosse un luogo perduto dell’infanzia. Per Jimmy, diventa un desiderio impossibile da regalare. “Mi è venuta un’idea. Se esci dalla stanza puoi darmi un calcio nelle palle.” Chiude con una disperata richiesta di espiazione. Letterale. Vuole subire un’umiliazione fisica perché non sa come altro chiedere perdono. È un padre che ha perso il controllo, ma non ha perso l’amore. E si aggrappa a quello.

Conclusione

È un uomo imperfetto che parla nel modo in cui è in grado di farlo: con un amore sgraziato, impacciato, ma onesto. E in questa serie dove quasi tutti i personaggi si esprimono attraverso piatti, silenzi o scoppi d’ira, Jimmy si prende uno spazio tutto suo per dire qualcosa che non riguarda la cucina, non riguarda le stelle Michelin, ma riguarda cosa significa essere genitori quando si è emotivamente impreparati a farlo.

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