Unisciti alla nostra Community Famiglia! Compila il "FORM" in basso, inserendo il tuo nome e la tua mail, ed entra nell'universo di Recitazione Cinematografica. Ti aspettiamo!
Articolo a cura di...
~ CLAUDIA LAZZARI
“Totò scollacciato, Totò volgare, Totò scurrile, Totò guitto, il solito Totò, Totò raffazzonato, Totò improvvisato, Totò da quattro soldi, le “totoate”…”
Colui che divenne, poi, l'indiscutibile Principe della Risata.
E non solo.
~ Chi è l'ommo?
Nun songo nu grand'ommo
nun songo nu scienziato.
'A scola nun sò gghiuto
nisciuno m'ha mannato.
S' i' songo intelliggente?
e m' 'o spiate a mme?
I' songo nato a Napule,
che ne pozzo sapè ?!
Appartengo alla massa...
a chella folla 'e ggente
ca nun capisce proprio 'o riesto 'e niente.
Però ve pozzo dicere na cosa:
campanno notte e ghiuomo a stu paese
pur i' me sò 'mparato quacche cosa,
quaccosa ca se chiamma umanità; [...]
"Madonna! - tremma 'o popolo-
E si mo chisto 'a jetta?".
Guardate che disgrazia
si 'a sciabbulella afferra
nu capo ca è lunatico:
te fa scuppià; na guerra.
Senza penzà; ca 'o popolo:
mamme, mugliere e figlie,
chiagneno a tante 'e lacreme.
Distrutte sò 'e famiglie!
A sti pupazze 'e carne affocaggente
l'avessame educà; cu 'o manganiello,
oppure, la natura priviggente,
avess' 'a fa turnà; nu Masaniello.
Ma 'e ccose no... nun cagnano
e v' 'o dich'i' 'o pecchè :
nuie simme tanta pecure...
facimmo sempe "mbee".
Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio, Altezza imperiale, conte palatino, cavaliere del Sacro Romano Impero, esarca di Ravenna, duca di Macedonia e di Illiria, principe di Costantinopoli, di Cicilia, di Tessaglia, di Ponte, di Moldavia, di Dardania, del Peloponneso, conte di Cipro e di Epiro, conte e duca di Drivasto e di Durazzo. Questo sì, è il nome, mischiato col titolo. L'appartenenza, il sangue e tutti i soldi che ha speso per ottenerlo, che lo hanno reso povero anche durante i periodi di miglior guadagno. Nomi e titoli che servivano al Principe per distruggere il terrore dell'abbandono, la sensazione del non esistere, del non essere ricordato. Quella che lo tormenta da quando le dannate sigle N.N., quelle dei figli di nessuno, gli fu applicata quand'era ancora in fasce, fino a mezza vita trascorsa ad essere sottostimato e oscurato dal grande cinema e dalla prosa.
Iniziamo questo viaggio alla scoperta della vita di Totò con una premessa: vivetelo come una fiaba. Certo, molta verità c'è. Si capisce. Ma i fatti, legati soprattutto al periodo antecedente la carriera e quello iniziale della stessa, sono pieni di dubbi e contraddizioni. Inoltre, le versioni di amici e familiari - tra cui le compagne di vita e la figlia Liliana, sono spesso discordanti. Mi permetto, quindi, di tirare un fil rouge, come posso.
Totò, Antonio Vincenzo Stefano Clemente nasce nel rione Sanità, a Napoli, Via Santa Maria Antesaecula, il 15 febbraio 1898. Sull'atto di nascita è Clemente Antonio, figlio di Clemente Anna, nubile. La povera donna si innamorò del marchesino Giuseppe de Curtis, rampollo di un'antica casata decaduta. Bastarono pochi incontri per far accadere " 'o fatto", lo scandalo che porta il marchesino a sfuggirgli. Anna, con l'aiuto della mamma e dei fratelli, cresce Totò come riesce e cerca di spingerlo a costruirsi un avvenire come ufficiale di marina. Ci tiene moltissimo che il figlio segua come si deve la scuola, ma la speranza di riscatto che cerca, per sé e suo figlio, non arriverà. O, almeno, non come la intende lei. Era un'epoca in cui la condizione di ragazza madre trascinava con sé difficoltà e sofferenze enormi. Sui muri delle scale dei vicoli, come si usava, ci saranno state tempeste di commenti maligni, gli antecedenti degli hater da sempre vissuti. Certi valori pesavano come lingotti d'oro e ci si aggrappava più a quelli che ai soldi (che non s'avevano), in un'epoca di fame e di arretratezza.
Ma, ad onor del vero, fame contro fame dopo un pò cede. E tutti si amano, si comprendono e si apprezzano nuovamente. Totò vivrà in pace, insieme agli altri bambini dei vicoli e riceverà proprio qui il soprannome napoletano con cui tutto il mondo, per sempre, lo chiamerà.
I "bassi" che lo vedono nascere e crescere offrono miseri spazi solo per dormire. La vita si svolge al loro esterno, nella miseria, nell'affollamento asfissiante, nella promiscuità di chi si arrangia volgarmente per vivere. Tutti i dolori e le gioie sono condivisi, impossibile non diventare un'unica e intera famiglia. Ci si protegge e ci si ama, questa forse, la più grande ricchezza che solo quel tipo di infanzia può donare. Il cuore pulsante dei bassi è l'anima viva dell'arte di Totò.
Anna, però, si disperava. Quel figlio irrequieto e vivace, non voleva studiare. Scappava di continuo e delle scuole elementari non voleva saperne. Così, decise di iscriverlo in un collegio per ragazzi poveri, il Cimino, e il risultato fu una retrocessione dalla quarta alla terza elementare. Solo a trent'anni recupererà il diploma di maturità classica, presso il liceo Celentano di Napoli, anno scolastico 1928-29. Cosa faceva a scuola invece di studiare? Semplice, " 'o spione". Sperimenta la vita, attraverso un'acuta osservazione di tutti i tipi strani che attiravano la sua attenzione. Li seguiva, per imitarli. Tic, intercalari, movimenti, modi di dire e fare. Appartengono a questi anni i personaggi che diventeranno poi parte precisa del suo repertorio. Il miope, ad esempio, come ammette lui stesso, altri non era che il maestro delle elementari, colui il quale leggeva i compiti di Totò avvicinando il foglio all'occhio destro fino a poggiarci il viso. Oppure il bigotto, frutto di ore ed ore trascorse in chiesa a fissare gente in preghiera e i colloqui privati con i santi. Appartiene a questa fase il primo incontro con i burattini, in particolare quello di Pulcinella, che si esercitava a muovere di continuo e ad assorbirne le movenze.
Poi, osservando, gli operai napoletani, con i loro panuozzi di carne e contorni, che costituiranno il suo Pasquale Miele in Napoli Milionaria. L'umorismo, insomma, filtra difetti, pregi, cultura e ambizione di uomini comuni, attraverso una forte sensibilità. Il tutto, con un imbattibile costume:
Come se avessi a mia disposizione della creta, posso formare in pochi secondi, sul mio volto, l'espressione corrucciata del dittatore, stupefatta dello sciocco, impaurita del debole, audace e avida del dongiovanni, istericamente ghignante del guapparello vanitoso, imbronciata o civettuola del bambino, pseudo-misteriosa dell'uomo che si ritiene depositario dei segreti di Pulcinella. Interpreto gli uomini a modo mio, è vero; ma tento di produrre, con la maggiore fedeltà possibile, lembi di vita autentica, aspetti sentimentali, tristi e lieti, di tutti i giorni.
Un viso, una maschera. Fili muscolari nervosi che si snodano, come pure il corpo. Naso e mento tendenti leggermente a destra, prima con l'aiuto di un incidente in collegio e poi con una raffica estenuante di esercizi, che li lasciarono per sempre lì, fieri. La mandibola è come sganciata da tutto il resto, si articola e disarticola come avesse un funzionamento a sé. Eserciterà da subito, non smettendo mai, il proprio corpo, per tenerlo sempre agile e sezionabile, come quello delle marionette, guadagnandosi l'appellativo di uomo di gomma.
Siamo al 1912, lascia la scuola e inizia a lavorare come imbianchino e come garzone di un fornaio. Frequenta i teatri, mangia gli spettacoli dei più grandi. Primo su tutti, la sua più grande ispirazione: Gustavo De Marco. Totò imita le sue macchiette alla perfezione e grazie a quelle debutta nei primi teatri napoletani, dove l'accoglienza - però - non è quella desiderata. Dopo un breve periodo in guerra come soldato volontario, nel quale incappa certamente per incoscienza e per l'illusione di poter trovare un pubblico da far divertire, rientra dal fronte fingendo un attacco epilettico. Giungiamo al periodo delle "periodiche", le prime occasioni, la fresca gavetta. Il suo repertorio espone sempre le macchiette di De Marco.
Nel 1921, alla morte del marchese de Curtis padre, Giuseppe de Curtis decide di sposare Anna Clemente, riconoscendo legalmente nel '28 suo figlio. Anche qui, i ricordi e le testimonianze sono molteplici. Secondo Diana, la sua prima moglie, quando Totò cominciò a lavorare stabilmente in teatro andò a trovare il padre, chiedendogli di sposare sua madre in cambio di un mantenimento a vita. Il marchese accettò. Cerca suo padre con forza e lo vuole fortemente proprio per darsi un nome, ufficialmente. E da quel momento in poi, si metterà alla ricerca di anziani nobili, gente senza prole, da cui farsi adottare. Con cinquemila lire al mese, il principe Gagliardi accettò, per cui l'artista si ritrovò con una lista di nomi e si fermò quando credette che la distanza dal povero cognome materno fosse stata colmata. Potremmo definire, questa, la sua più grande macchietta in assoluto.
Roma
Nel 1922, insieme ai genitori, Totò si trasferisce a Roma. La sua Napoli, non lo apprezza. Contro la volontà dei genitori, lavora senza compenso nella compagnia di Umberto Capece e si esibisce nel fatiscente Cinema Teatro Salone Sant'Elena. Tutti i giorni, attraversa la città (vive nei pressi della stazione ferroviaria) per giungere a Piazza Risorgimento ed esibirsi, finché viene "licenziato" perché inizia a chiedere quanto meno il rimborso per prendere un tram al ritorno. A questo punto cerca un impiego al teatro di Jovinelli, il regno del varietà dell'epoca, e continua a studiare il suo amato De Marco (che incontrerà solo una volta, frettolosamente, quando l'attore si recherà nel camerino del suo imitatore Totò, per complimentarsi). Una sera, lavorando in teatro come maschera, assiste ad un litigio tra De Marco e Jovinelli. Con coraggio, chiede a Jovinelli di poter sostituire De Marco, che aveva deciso di abbandonare quella situazione. Jovinelli si accorge subito che quel giovane era dotato di un talento importante e lo fa debuttare proprio col cavallo di battaglia di De Marco, Il bel Ciccillo. E' l'inizio di una meravigliosa storia, che spazzò via i tanti anni di fame e sacrifici. Soprattutto quelli che, a detta di molti, sono fasulli, come l'affermazione che la fame nel periodo romano fosse voluta dai genitori, che preferivano impedirgli di campare dignitosamente, piuttosto che vederlo già come attore...figurarsi come comico e non di prosa.
Proprio in questi anni nasce la maschera di Totò, la divisa da comico: una "sciammeria", o fracchesciasse, pantaloni "a zompafosso", cioè corti sopra le caviglie, una bombetta per cappello e al posto della cravatta un laccio da scarpe annodato.
Possiamo tranquillamente affermare che, nel periodo della giovinezza, Totò lavorasse per le donne. Amava la loro compagnia e, quando non riusciva ad accalappiare ballerine, attrici o ammiratrici, affrontava le tournée con una vestaglia da donna e un paio di scarpette col tacco che teneva con cura nel suo alloggio. In un'intervista a Oriana Fallaci, confessò di non poter concepire la propria vita senza la compagnia di una donna, asserendo: "...amo troppo le donne. Sarà perché sono meridionale, sarà perché odio gli uomini: ma le donne, secondo me, sono la cosa più bella che ha inventato il Signore [...]. Io le amo tanto, le donne, che riesco persino a non essere geloso. Tanto, a che serve essere geloso? Se una donna ti vuole bene è fedele. Se non ti vuole bene ne prendi un'altra. Sì, lo so cosa pensa: che dalle mie canzoni risulta il contrario. Ma quelle cose si scrivono così, perché fanno comodo".
Mmh. Bellissime parole, ma le "sue" donne, mai furono di questo avviso.
Il suo primo amore fu Liliana Castagnola. Definita "donna fatale" dall'ambito del varietà da cui proveniva, Liliana era capace di passioni folli e distruttrici. Si vociferava di duelli, uomini in rovina, famiglie devastate, suicidi, tentati omicidi alla sua persona. Totò la conobbe quando aveva superato i trent'anni, dettaglio importante da tenere a mente. Capello alla garçonne con basetta a punta e frangetta su una cicatrice, che si diceva fosse il segno di una pallottola sparatale da un uomo geloso. Non posso dilungarmi sulla storia tortuosa di Totò e Liliana che, ammetto, ha comunque il suo fascino nella follia. Ma mi limito a dire che Totò impiegò poco, nonostante la folle passione che lo travolse, ad essere asfissiato dalla donna. Quando decise di lasciarla, Liliana reagì male e senza veramente dimostrare - apparentemente - di aver colto le intenzioni di Totò. Ma, in pochi giorni, l'uomo capì che Liliana era capace di sentimenti ben più profondi di quelli estremi che dimostrava.
Antonio, potrai scrivere a mia sorella Gina per tutta la roba che lascio in questa Pensione. Meglio che se la goda Gina, anziché chi mai m'ha voluto bene. Perché non sei voluto venire a salutarmi un'ultima volta? Scortese, omaccio! Mi hai fatto felice o infelice? Non so. In questo momento, mi trema la mano...Ah, se mi fossi vicino! Mi salveresti, è vero?
La lettera continua, nonostante una prima firma dopo questo pezzo. Questo perché il veleno che aveva assunto fece effetto con lentezza. Il dubbio di Liliana affliggerà Totò per sempre, tanto che la sua unica figlia femmina prenderà il suo nome.
Diana Bandini Rogliani, giovane ragazza fiorentina di sedici anni, fu la sua prima moglie. Il legame più duraturo. Aveva 34 anni quando Diana scappò da lui, contro la volontà dei suoi genitori. Le lunghe ore chiuso in camerino, prima di ogni replica, furono sostituite da passeggiate lunghissime con Diana. Girarono l'Italia, alloggiando in posti di lusso, mangiando nei migliori ristoranti ma anche nelle peggiori bettole, e dormendo nei letti tarmati. Ogni giorno era un'avventura e ogni spettacolo lo affrontava con Diana posizionata in quinta. Spesso usciva, nel bel mezzo delle rappresentazioni, per salutarla. Tutto procedeva a gonfie vele, finché un parassita pian piano invase l'animo di Totò. Un parassita che si insinua, per la prima volta, con la semplice vicinanza a sua moglie di un pompiere in servizio a causa della quale presenza, una sera, Totò decide di chiudere Diana in camerino. Sempre. Durante ogni spettacolo e per tutta la durata dello spettacolo. A chiave.
Quand'era bambina, e lo fu giustamente per molto, Diana accettava queste "fantasie" del marito. Le assecondava. Ma col passare del tempo, la sua personalità si formava e si rese conto che Totò provava una gelosia malata e ossessiva. Quando nacque Liliana, nel 1933, il parassita della gelosia si faceva largo anche per la figlia e la situazione peggiorò notevolmente. Liliana racconta che suo padre non le permetteva di frequentare le scuole e che, ad un certo punto, quando alle volte sua moglie doveva necessariamente restare nella casa ai Parioli che aveva acquistato, lui gettava del borotalco sulla soglia della porta, per controllare che - al suo ritorno - non ci fossero impronte che attestassero il passaggio di qualcuno. Totò fece di tutto per la sua famiglia, questo gli imputano entrambe le donne. Ma la situazione non impedì a Diana di voler divorziare e a Liliana di sposarsi per scappare letteralmente da quell'asfissia. Tali furono la gelosia e il terrore della solitudine - ricordiamo la paura dell'essere dimenticato e dell'essere lasciato solo - che Totò visse persino il matrimonio della figlia come un abbandono personale.
Fu in un momento emotivo molto fragile che arrivò Franca Faldini, la sua ultima compagna anche se altrettanto giovane, a colmare il vuoto lasciato da Diana e Liliana. Quell'amore fu diverso, per tempistiche e momenti di vita diversi. Franca si impose subito con una personalità forte e decisa, indipendente e molto aperta mentalmente. Totò era, chiaramente, il contrario, soprattutto per quanto riguarda la "modernità". Avranno molti scontri, trentatré anni di differenza sono molti, ma Franca ci sarà fino alla fine. Quindici anni che per Totò, nonostante le tragedie che si susseguirono - tra cui la morte del loro stesso figlio - significarono rinascita, sicurezza, amore. L'abbandono dei sentimenti d'abbandono che, da sempre, lo torturavano.
Un carattere particolare: la verità del "doppio"
Totò, Principe dei Poveri, venerato come un santo al quale spesso il popolo napoletano chiedeva le grazie. Totò l'altruista, l'amante degli animali che comprò un canile per sfamare tutti quelli che poteva. Totò che offriva auto, soldi, possedimenti, come se piovesse. Inflessibile e serissimo sulle regole del teatro, cattivo e odioso con chi non gli interessava, poi euforico e divertente con chi gli scaturiva un interesse. E poi, di base, malinconico e a volte chiuso. Dopo la morte di Liliana, addirittura non ci si capacitava di come quel dolore trascinato e quella tristezza infinita che lo affliggevano quotidianamente, potesse diventare motore della comicità che faceva spaccare di risate il suo pubblico, ancora e ancora. Gentile con tutti, ma riservato. Pochi amici veri, nessuno nell'ambito teatrale o cinematografico. Con i colleghi, ad eccezione di alcuni conosciuti in gioventù, si dava del lei o del voi. Con Eduardo e Peppino De Filippo fu lo stesso. Affabile, cortese in maniera aristocratica. Totò iper geloso, fino alla malattia. Totò umile e malleabile ma, all'occorrenza, pronto a tirar fuori i suoi titoli contro chi minava il suo orgoglio. Un orgoglio sfoggiato in difesa di fasi continue di sottostima, riservategli prima perché la comicità non era degna della serietà del dramma, considerata volgare e sempliciotta, e poi per un iniziale passaggio al cinema sfortunato, che gli è costato parecchi anni di insicurezze e soprattutto di un'autovalutazione negativa.
Con i registi aveva un rapporto distaccato, li chiamava "dottori" e loro lo chiamavano "Principe". Nel quotidiano, il Principe Totò vestiva di nero, un eleganza sobria e disciplinata. E' riservato, poco loquace, solitario. Totò, invece, è grossolano, si agita e fa gestacci, veste con abiti larghissimi o strettissimi. Scherza, parla moltissimo, vuole conoscere tutto e tutti, vivere gli aneddoti degli altri come fossero i suoi. Il Principe si compiace di essere chiamato tale, ma spesso chiede di essere chiamato "Totò", eppure, quando qualcosa lo ferisce, reagisce malissimo a chi mischia i due personaggi in eccessi di confidenza. Persino la voce, dicono i pochi eletti che riuscirono a frequentarlo, era diversa tra i due "Antonio". Quella del Principe è quasi sussurrata, sostenuta; quella di Totò è impostata e violenta.
Quando non era in scena, Totò s'interessava principalmente alla storia e all'araldica. Ore e ore spese su libri rari, che collezionava per trovare eventuali corrispettivi nobiliari delle sue origini. Nulla, la sua nascita disconosciuta fu il tema principale delle sua vita e condizionava scelte, atteggiamenti, reazioni e azioni.
Era religioso, ma non praticante. Molto superstizioso, dialogava con i suoi santi preferiti, soprattutto con Antonio Da Padova, il suo protettore. Portava sempre una sua immagine con sé. Quando una grazia che gli chiedeva non era realizzata, lo metteva "faccia a muro", in castigo. Per poi perdonarlo. Scherzò molto con la religione nei suoi repertori, per questo veniva spesso censurato e non era ben visto dal clero, che lo disconosceva in molti modi. Ma alla sua morte, finanche la Chiesa lo rivalutò.
Dopo due anni e la conoscenza di Diana, approda all'avanspettacolo: negli anni '30, con l'avvento del sonoro, il cinema diventa l'attrazione principale; per cui il teatro - per sopravvivere - ci si appoggia, dando vita al genere, un fenomeno totalmente italiano. Cinquanta minuti di piccole riviste che introducevano lo spettacolo cinematografico. Totò, in particolare, ne diventa il re indiscusso, esibendosi al pari dei grandi Walter Chiari, Nino Taranto, Erminio Macario, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Aldo Fabrizi, Renato Rascel e tanti altri. Entra in compagnia di Giuseppe Inglese e diventa capocomico, se pur per poco: certe paghe teatrali non ricoprono i suoi vizi e sperpera un intero patrimonio, in questo periodo. Per cui, ben presto inizia a pretendere quanto gli spetta, abbandonando il ruolo di capocomico. Con Inglese, Totò creerà molti pezzi ai quali attingerà per i successivi lavori, anche nel cinema. Pezzi principalmente basati sull'equivoco, sulla fame o l'appetito sessuale, contenuti del teatro popolare mai abbandonato da Totò e resi unici dalle sue capacità. Ricordiamo la processione in passerella col cero, la direzione d'orchestra coi fuochi d'artificio, tutti gran finali che facevano scoppiare il pubblico di ammirazione.
Importante pagina di questo momento storico è la geniale elusione della censura fascista: nessuno riusciva a farsi beffe del regime come lui, nessuno - passando al setaccio coi copioni - riusciva a scamparla. Ma Totò, che improvvisava interi copioni, assolutamente sì. Il copione che veniva controllato non corrispondeva mai a quanto metteva in scena. Totò non fu mai dotato di una forte coscienza politica, patteggiava per la monarchia, ma certamente era antifascista. Gli bastava un gesto, un cambiamento minimo di voce che alludesse a Mussolini o a Hitler, che il pubblico capiva immediatamente e partecipava ad un'esperienza divertente, col brivido del proibito.
Alla fine degli anni '30, Totò fa ritorno alla rivista. L'incontro con Michele Galdieri fu determinante: segna il passaggio dal pubblico popolare al pubblico borghese dei grandi teatri. E per un artista come Totò, certamente il primo era più esigente del secondo. Da questo momento, rinuncia ad essere autore, atteggiamento aumentato poi col cinema, permettendo di associare alle opere firmati coi nomi altrui, anche i suoi sketch di repertorio di cui continuerà sempre a servirsi. Galdieri fu artefice di un immenso sodalizio: Totò e Anna Magnani. L'unica artista che potè contenere la presenza di Totò. Non era secondaria come le altre, ma potè essere protagonista insieme al Principe, gli rispondeva a tono e pretendeva il suo spazio, difendendolo coi denti e con le unghie, come solo lei sapeva fare.
Liliana De Curtis raccontò:
Una sera, Anna Magnani accusò papà di aver corrotto il tecnico delle luci perché mettesse lei in ombra e lui in evidenza. Non riusciva a spiegarsi altrimenti perché il pubblico badasse più alle battute di lui e trascurasse invece le sue. La sera dopo, papà dette ordine al datore luci di illuminare soltanto la Magnani e di tenere lui in ombra. Il pubblico rise ancora di più alle battute di papà che venivano dal buio: pensavano si trattasse di una trovata. "Non c'è niente da fare" ,disse alla fine Nannarella "con te non c'è difesa".
Con la Magnani fecero un solo film, Risate di gioia di Monicelli. E la Magnani si oppose molto alla partecipazione del Totò: dopo la rivista i due presero strade diverse, Totò non abbandonò mai la comicità. E, come ho già accennato, per molti decenni la comicità fu una forma di spettacolo, soprattutto al cinema, di serie B.
Con la Magnani e Galdieri, Totò rischiò moltissimo con la censura. Per niente copioni sottili scrivevano e ad un certo punto, dopo l'attentato ad Hitler, Totò - e insieme a lui Eduardo e Peppino De Filippo - subirono un mandato di cattura. L'artista scappò a Valmontone con la famiglia e vi rimase fino alla fine della guerra.
Gli attori dell'avanspettacolo erano forse conosciuti solo dagli spettatori dell'avanspettacolo. Il genere era poco recensito alla fine degli anni '30 e disdegnato dagli artisti "di cultura". Nel '37, per i registi del momento, Totò è uno sconosciuto: domina la commedia brillante e, per certe cose, è impossibile attirare l'attenzione, nel bel mezzo del cinema dei telefoni bianchi.
E allora come fa ad accadere Fermo con le mani, il primo film di Totò? Tutt'oggi, le ricerche rimandano sempre al secondo, o al terzo, mai a questo primo debutto, che certamente fu un insuccesso. Il regista fu Gero Zambuto (che dopo il trauma tornò alla professione di attore, per divenire l'asso del doppiaggio), lo sceneggiatore fu Guglielmo Giannini e la produzione fu Titanus. E' probabile che lo straordinario successo di Charlot abbia contribuito a far ricadere la scelta della produzione su Totò, come volesse creare uno "Charlot italiano". Questo non fu l'unico errore della pellicola, ma certamente il più grande. Dopo un inizio che richiama molto le situazioni dei film di Chaplin, che sposano benissimo le corde dell'immenso attore, Totò utilizza il suo repertorio teatrale. Parliamo di due comicità totalmente diverse: Chaplin è uno stesso personaggio, oppresso, disincantato, che si protegge dalle sventure con l'immaginazione; Totò è una macchietta di centinaia di situazioni diverse, comiche e assurde.
Accantonata quella prima esperienza, Totò si rifocillò nuovamente col teatro, col suo pubblico reagente, con la misura della risata altrui attraverso la quale modulava, costantemente a braccio, quei pezzi di repertorio che nelle prime repliche nascevano di dieci minuti; durante le ultime, si dilatavano anche fino ad un'ora. In fondo, il cinema era solo un modo per fare più soldi e più velocemente, campando meglio.
Dopo pochi altri tentativi, da contarsi sulle dita di una mano, in qualche altro film (in cui sempre girava come si trovasse su di un palco teatrale) arriva lui: Cesare Zavattini. Sì, un intellettuale che si accorse di Totò.
Totò era un mimo quindi qualcosa che, basandosi sull'immagine, appartiene al cinema. Totò era però un "mimo da fermo", perché il movimento era lui ed era in lui, mentre i suoi colleghi, già grandi nel cinema, si basavano prevalentemente sul movimento insito nel complesso dell'ideazione del film.
Zavattini, infatti, non scelse alcuna storia originale o paradossale in cui poi Totò avrebbe pescato le proprie macchiette teatrali. Scelse una commedia di Nino Martoglio, San Giovanni Decollato, un classico del teatro dialettale siciliano. L'intuizione geniale di Zavattini fu di sfruttare quanto di più prezioso aveva individuato in Totò: l'arte del teatro popolare. Purtroppo Zavattini declinò l'invito alla regia del film e il prodotto ne risentì, così come quello successivo. Zavattini aveva colto l'anima di Totò e aveva capito come indirizzarla nel cinema, per permettere alle due entità di incontrarsi.
Infine, a lanciare definitivamente Totò nel panorama cinematografico, fu l'incontro con Mario Mattoli, dando vita ad un sodalizio indimenticabile. Diceva il regista, a proposito di Totò:
Totò era ignorante e presuntuoso. Voleva fare sempre le stesse cose e se ne fregava dei registi, dei film e delle sceneggiature. Era tormentato da manie nobiliari, manteneva un grande distacco da tutti, sia pure mascherato da un'apparente cordialità. Una volta, nel bailamme di un set particolarmente confuso e faticoso, mi rivolsi a lui chiamandolo "coso": era un mio vezzo e poi, in quel momento, giuro che ero molto frastornato. Totò si irrigidì, passo dal tu al lei, repentinamente, quindi mi disse: "Coso a me?! Si ricordi che io non sono 'coso' bensì Focas Gagliardi de Curtis eccetera. E stette lì, per un'ora, davanti alla troupe ammutolita che non lo aveva mai visto arrabbiato [...]. Che vuoi, non aveva avuto il padre per tutti gli anni dell'infanzia e della fanciullezza. Quando riuscì ad avere un nome, per di più un nobile, si sentì talmente importante che ci si era quasi fissato. Ci aveva creduto pure lui, di essere principe, marchese, tutte quelle cose lì.
I due orfanelli consacrò dunque Totò. Da lì, tutto in salita. Fu un film che nasceva come Il fiacre n.13, tratto da un feuilleton francese. Quando Mattoli, assistendo ad uno spettacolo di Totò e ascoltando risate di una potenza mai udita prima, decise di scritturarlo, chiamò i suoi sceneggiatori e stravolse tutto. Perché avevano già molto materiale da riadattare. Capitò spesso a Totò di lavorare su materiale riadattato. Difficilmente i produttori puntavano in maniera totalizzante su di lui, nonostante dopo I due orfanelli si capì quanto permettesse di guadagnare. Totò, Peppino e la dolce vita venne fatto per riutilizzare la Via Veneto del film di Fellini, così come in Totò e Cleopatra che sfruttava le scenografie, i costumi e le scene di gruppo avanzate del kolossal.
Dopo Mattoli, il cui sodalizio durò 20 anni e ci ha lasciato capolavori come Miseria e nobiltà, si fecero avanti addirittura registi esordienti, che debuttarono con Totò: Peppino Amato, Steno, Monicelli e Comencini.
Fu la volta di Napoli Milionaria, prodotto da De Laurentiis e diretto da Eduardo De Filippo; si aggiunsero poi Castellani con Figaro qua, Figaro là, Rossellini con Dov'è la libertà, Zampa con Questa è la vita, De Sica con L'oro di Napoli, l'amico Fabrizi con Una di quelle, Blasetti con Tempi nostri, Mastrocinque con Totò all'inferno, Lattuada con La mandragola e tanti, tanti altri.
Novantasette divennero, tutti i film di Totò.
Uno degli incontri più significativi per l'artista fu, però, quello con Pasolini.
Totò sapeva che l'uomo che aveva richiesto un appuntamento era uno scrittore importantissimo e un regista apprezzato. Conosceva anche gli scandali che lo riguardavano: omosessuale, corruttore di minori, uomo dalle dichiarazioni scandalose e violente. Così la gente comune dipingeva Pasolini. E Totò, in questo, era un uomo molto comune.
Ciò non gli impedì, ugualmente, di ricevere il regista e di non dargli la mano quando si presentò. Definiva gli omosessuali "omonidi", persone da curare, e non poteva assolutamente cedere alle cortesie di un diverso, lui, così virile e aristocratico. Come finì? Che lo chiamava "Pier Paolo", confidenza per noi semplice, ma segnale - come ricorderà Franca Faldini - di un legame e di un entusiasmo senza precedenti. Diceva Totò:
Di quello che facciamo non capisco niente, non so che film stiamo facendo. Pier Paolo mi spiega le scene e io eseguo con l'entusiasmo di un principiante perché sento che mi posso affidare a lui completamente.
In riferimento a Uccellacci e Uccellini, Pasolini dirà:
Ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare [...].
Totò si convinse che adesso e solo adesso stesse combinando qualcosa nel cinema, che le persone lo stessero davvero riconoscendo. Aveva una visione così alta dell'opera che si apprestava a fare perché così bassa era la visione del proprio saper fare, che credeva - sino ad allora - di non aver combinato nulla nei precedenti quarant'anni di carriera.
Totò e Pasolini, grande insegnamento per la storia dell'arte e dell'uomo. Quanto è importante sapersi prendere, saper scovare, saper andare oltre...
Esordì in questo modo, quando s'accorse che la sua visione del mondo si ridusse a qualche macchietta. Reduce da un distacco della retina, nel 1938, quasi vent'anni dopo, quando ritornò alla rivista, tutto si spense. Era il 1 dicembre 1956 al Sistina di Roma, il tempio della rivista, quando Totò ritorna dopo la prima pausa cinematografica. Il pubblico è trepidante e quando lo vede spuntare con la bombetta e i suoi panni dismessi, come non lo vedeva da tempo, scoppia in un'ovazione che farà piangere Totò di commozione. Mai aveva avuto un'accoglienza simile. Nelle prime file, ci sono proprio tutti, compreso Alberto Sordi, il nuovo comico che stima molto.
Dopo due mesi di spettacoli, arriva una fortissima febbre. Il medico sentenzia: broncopolmonite. Totò doveva curarsi, ma per l'impresario dell'epoca, Paone, il fatto era una tragedia. Inoltre, per Totò era impossibile lasciare la compagnia senza guadagno. Per un piccolo attore, quell'intoppo significava fame. E lui sapeva benissimo cosa comportasse. Va in scena, dopo solo quattro giorni di cure. La sera, si truccò e si vestì faticosamente e già approdato dietro le quinte, si teneva su a fatica. Pallido e sudato, chiese una sedia al momento di entrare in scena e si accasciò. Al mattino, però, richiamò Paone e decise di proseguire la tournée.
Terminò gli spettacoli milanesi e quelli in altre città. A Sanremo, durante un post serata, iniziò a vedere gli oggetti ballare e macchie continue. La febbre, tenuta a bada dai medicinali, sfogò sull'occhio sano.
A Palermo, sul palcoscenico, Totò divenne ceco. E nessuno, al di fuori del dietro palco, s'accorse di nulla.
Il teatro fu sospeso per sempre.
Continuò la carriera cinematografica riprendendo da subito il lavoro, instancabile, modificando la propria tecnica in base alle nuove esigenze. La marionetta non si snodava più, la recitazione era quasi tutta basata sulla parola. Aveva quindi bisogno di ottime spalle, artisti che potessero seguire la sua maniera di stravolgere tutto, di continuare a lavorare a braccetto col canovaccio teatrale. Ottimi "sposi" furono Aldo Fabrizi ( legato a Totò da un profondo affetto, nonostante il timore di essere messo in ombra dal suo talento), Nino Taranto (intimo amico), Macario, Vittorio De Sica e colui il quale fu considerato la spalla perfetta per il Principe, Peppino De Filippo. Ironia della sorte, quello con cui viveva un rapporto di freddo distacco. Totò stimolava la poca attenzione di Peppino sul set con provocanti angherie, per ottenere gag più divertenti. E Peppino si vendicò in maniera postuma, parlandone in modo un pò sprezzante.
Il risultato fu, che il risultato non cambiò.
E giungiamo, dunque, alla fine. Che per l'anima di Totò, credo proprio sia stato un nuovo inizio. Il vero sogno, la consapevolezza di essere esistito, e come una delle esistenze più importanti della storia.
Muore dopo un afoso pomeriggio di primavera, con l’estate alle porte. L’Italia viveva la fine del boom economico, ancora inconsciamente protetta dalle seicento e dal potere della cambiale, che donavano l’illusione di essere ricca potenza seduta al tavolo dei vincitori nel post-guerra. Aldo moro al governo da poco, i socialisti riuniti dopo quasi vent’anni, utopiche situazioni assurde che facevano ben sperare, in ciò che sarebbe poi sfociano nelle bombe e nella contestazione.
Da qualche anno aveva abbandonato le sue abitudini legate ai set: < Al mattino non si può far ridere >, questo era il mantra al seguito del quale strutturava le sue giornate lavorative. Anche perché la sua vita, dedicata al teatro, gli imponeva il sonno al mattino, terminando le repliche la notte, seguite da cene e festeggiamenti. Le troupe lo accoglievano alle due del pomeriggio in punto, salutava ogni singolo membro, si sedeva con calma a sorseggiare un caffè col regista e gli attori principali e, dopo un pò di conversazione, chiamava l’inseparabile braccio destro, l’aiuto regista Mario Castellani. < Castellà, c’avimma’ a fa’? Dicite! >. Castellani spiegava la scena del copione che Totò fingeva di visionare in pre-produzione e commentava positivamente le idee di quanto avrebbe dovuto inscenare in quel momento. Poi, esortando Castellani a prendere < il lapis >, gli dettava una nuova scena e infine, giunto il momento delle riprese, gli attori che recitavano con lui si trovavano ad interpretare una terza sceneggiatura. Verso le otto, poi, quando sentiva di aver dato quanto potesse per quella giornata, iniziava a fischiettare. Quel suono indicava a tutti la fine del set, era l’ora di rientrare a casa.
Negli anni precedenti alla morte, la routine era cambiata: con i nuovi registi, innamorati del “maestro” provava soggezione, una difficoltà dettata dalla falsa consapevolezza che molti gli avevano cucito addosso, quella delle “totoate”. Quando Pasolini prima e - a seguire - Ugo Gregoretti e Nanni Loy infine, lo vollero fortemente, la sua coscienza cambiò, insieme alle abitudini. Si convinse, fino a quel momento, di aver fatto delle boiate, che la gente avesse avuto ragione a criticarlo, che avesse buttato via il tempo e la propria arte. Ma la storia, quella vera, non darà ragione né a lui, né a coloro i quali lo avevano convinto, con penne avvelenate, di quest’assurda verità. Non una delle malelingue risultò assente alla sua veglia e ai suoi diversi funerali.
Si affidava completamente agli ultimi registi, si presentava sul set a qualsiasi ora, ascoltava le richieste con attenzione e le seguiva, e quando Nanni Loy gli presentò il suo personaggio de Il padre di famiglia descrivendolo in maniera “sinistroide” (come egli stesso si definiva) dicendogli ad esempio che era “un uomo che vive in maniera conflittuale le contraddizioni del suo tempo, che crea di prendere coscienza della propria condizione…”, Totò lo interrompeva con domande come “Sì, ma come è vestito?” Oppure “Ma tiene fame o non tiene fame?”. Insomma, lo interrompeva con quanto realmente crea contatto col personaggio. Con la realtà che era abituato a vivere.
Fu proprio alla fine di una delle giornate di lavorazione al Padre di famiglia che Totò iniziò a star male, prima lievemente, con debolezza e “un peso qui, sullo stomaco”, che dopo poco tempo divennero tre infarti e una morte lenta. Le sue ultime parole, prima di morire, furono “Ricordatevi che sono cattolico, apostolico, romano”. Ma cosa aveva avuto, questo immenso artista, di cattolico, apostolico e romano, quando i suoi film erano vietati dalla Chiesa, la sua vita da “concubino” sempre criticata, i suoi film esclusi dal Centro Cattolico Cinematografico come “sconsigliati”, “riservati agli adulti” o “agli adulti con riserva”. Totò liberava i giovani da tabù e pulsioni, sdrammatizzava la rigida educazione, sfondava le porte del perbenismo. Tanto che, la stessa benedizione della salma fu concessa a sua figlia Liliana, solo grazie intercessione di un amico dentista che aveva in cura il papa. Totò ottenne una breve benedizione frettolosa da un prete, che non agì prima di aver chiesto alla “concubina” Franca di abbandonare la stanza. Forse l’attore pronunciò quelle parole data la consapevolezza della morte, parole che contrastavano la sua convinzione che il paradiso e l’inferno esistessero in terra e che l’esistenza dell’Aldilà fosse vera solo nelle preghiere che ci infilavano in testa.
Inaspettatamente, migliaia di persone arrivarono in casa De Curtis per due giorni, dopo aver appreso la morte del Principe. Gente da tutta Italia, giungeva in treno solo per lanciargli un bacio o lasciargli un fiore. E non solo i colleghi che lo avevano amato, erano tra loro: anche quelli che lo avevano invidiato o odiato (o entrambe le cose); registi che si erano rifiutati di lavorare con lui, critici disprezzanti e demolitori. Studiosi che non si erano mai accostati alla sua carriera perché lo consideravano un “prodotto volgare, qualunquista, superficiale, di destra, diseducativo, fuori dalle regole”. E da reietto, Totò ridivenne Principe. Principe come nacque e come rifiutò d’essere, un Santo per Napoli, un mito per l’Italia. Il Principe della Risata. La marionetta. L’altruismo. Colui al quale chiunque scriveva per chiedere aiuto. Il caro Totò. Il genio e la meraviglia.
Al momento del funerale, nonostante l’approdo e la costruzione di un’intera carriera a Roma e la tendenza artistica a staccarsi dalla “napoletaneità”, Totò aveva chiesto sempre di tornare a Napoli, alla fine. Anche negli ultimi istanti. Lì era nato, vissuto, cresciuto, lì aveva preparato la sua tomba.
I familiari decisero, anche per sua richiesta, di portarlo a Napoli dopo i funerali a Roma. E il clero romano decise bene, dopo una vita passata a rinnegarlo, che la cosa non fosse possibile. Ma Napoli, attraverso le persone più vicine a Totò, vinse. E se all’inizio l’idea era quella di far arrivare la salma in territorio partenopeo in incognito, grazie a Nino Taranto - intimo amico e collega di Totò, e a Aldo Bovio, redattore del “Mattino” si organizzarono quelli che ancora oggi sono i più profondi funerali di Napoli. Tutti sapete come andò: dall’uscita dell’autostrada alla chiesa del Carmine, un’intera regione bloccò l’Italia; la bara di Totò veniva strappata agli amici che la reggevano, perché tutti vollero portarli sul sagrato della chiesa.
Non sapremo mai quanto visceralmente fosse legato alla sua terra natia, sicché tutta la sua arte s’era sviluppata altrove, era divenuto personaggio universale, con una lingua che tendeva all’italiano degli emigrati, con i personaggi che non rappresentavano il napoletano medio ma l'italiano piccolo - borghese. Tuttavia l’umanità, la passione, l’esperienza devastante della Sanità alla quale apparteneva, l’aggressività, la fantasia…questo continuava a parlare del suo sangue. E il richiamo del sangue alla fine vinse, anche in questo caso, in maniera grottesca e teatrale.
Famme vedé..-piglia sta violenza...
'A verità,Marché,mme so' scucciato
'e te senti;e si perdo 'a pacienza,
mme scordo ca so' muorto e so mazzate!...Ma chi te cride d'essere...nu ddio?
Ccà dinto,'o vvuo capi,ca simmo eguale?...
...Muorto si'tu e muorto so' pur'io;
ognuno comme a 'na'ato é tale e quale"."Lurido porco!...Come ti permetti
paragonarti a me ch'ebbi natali
illustri,nobilissimi e perfetti,
da fare invidia a Principi Reali?"."Tu qua' Natale...Pasca e Ppifania!!!
T''o vvuo' mettere 'ncapo...'int'a cervella
che staje malato ancora e' fantasia?...
'A morte 'o ssaje ched''e?...è una livella.'Nu rre,'nu maggistrato,'nu grand'ommo,
trasenno stu canciello ha fatt'o punto
c'ha perzo tutto,'a vita e pure 'o nomme:
tu nu t'hè fatto ancora chistu cunto?Perciò,stamme a ssenti...nun fa''o restivo,
suppuorteme vicino-che te 'mporta?
Sti ppagliacciate 'e ffanno sulo 'e vive:
nuje simmo serie...appartenimmo à morte!"
Le Migliori Classifiche
di Recitazione Cinematografica
Entra nella nostra Community Famiglia!
Recitazione Cinematografica: Scrivi la Tua Storia, Vivi il Tuo Sogno
Scopri 'Recitazione Cinematografica', il tuo rifugio nel mondo del cinema. Una Community gratuita su WhatsApp di Attori e Maestranze del mondo cinematografico. Un blog di Recitazione Cinematografica, dove attori emergenti e affermati si incontrano, si ispirano e crescono insieme.
Monologhi Cinematografici, Dialoghi, Classifiche, Interviste ad Attori, Registi e Professionisti del mondo del Cinema. I Diari Emotivi degli Attori. I Vostri Self Tape.