Analisi - \"A Complete Unknown\"

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Articolo a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

Era il 1990.


Avevo appena iniziato l’Università a Bologna.


C’era la Pantera a Lettere.


Io che, con quelli di Giurisprudenza ho sempre avuto poco a che fare, frequentavo i reading della Facoltà accanto alla mia (Via Zamboni 33, Giurisprudenza; Via Zamboni 36, Lettere).


Durante questi reading si cantavano sempre due canzoni: Blowin’ in the wind e Mr. Tambourine man.


Fu in quell’occasione che conobbi Dylan, l’alias di Robert Allen Zimmermann.


Fu in quell’occasione che divorai in una notte la biografia di Anthony Scadutio.


E devo dire che odiai profondamente Dylan e anche Dio.


Mi chiesi e anche oggi mi chiedo: perché Dio assegna a singoli individui un talento così

immenso?


Perché questa premessa?


Perché “A complete unknown” mi ha dato la risposta.


Dio assegna a taluni individui un talento immenso perché immenso è il compito che assegna loro: rendere il mondo un posto migliore.


Il film di Mangold spiega proprio questo: come si fa a rendere il mondo un posto migliore.


Semplice: rifiutando ogni incasellamento.


Fuggendo dall’immagine che i fan ti stanno costruendo intorno.


Affermando la propria identità come uomo prima ancora che artista.


Il Dylan di Thimotee non viene raccontato per quello che è o per quello che ha fatto quanto piuttosto per quello che non è stato o non è fatto.


Robert Allen Zimmermann aveva il destino segnato: diventare il nuovo Woody Guthrie.


Così lo voleva Seeger (a proposito ascoltate l’album di Springsteen che rappresenta un omaggio a Seeger), così lo voleva John Hammond, così lo volevano i suoi fans.


E se vogliamo, così lo voleva anche Joan Baez.


I dialoghi tra la Barbaro e Chalamet sono emblematici: lei vede in Dylan qualcosa che Dylan non vuole essere.


Una sorta di profeta, di eroe del popolo per il popolo.


Questo aspetto ossia la capacità di parlare, attraverso la musica al popolo, viene ben evidenziata in alcune battute del film.


Quando Thimotée – Dylan chiede ad Albert Grosmann, patron del Newport Folk Festival, “Cos’è il folk?” non si riferisce solo alla musica ma metaforicamente alla gente.


Ed anche la frase che il manager di Dylan indirizza a Pete Seeger: “Tu hai paura che la nuova musica di Bob piaccia alla gente là sotto” rappresenta un’affermazione ma anche una domanda paradossale.


Le scelte rivoluzionarie, fuori dagli schemi devono incontrare i gusti del pubblico? O devono esprimere i bisogni dell’artista a prescindere da ogni valutazione di opportunità.

A complete unknown, come vedrà chi decide oggi di assistere alla sua proiezione in uno dei numerosi cinema in cui il film si trova ancora in cartellone, non risponde all’interrogativo.


No, sbagliato.


Dylan evita di rispondere all’interrogativo.


Proprio perché lui rifugge da qualsiasi incasellamento.

Credo che la scelta narrativa del regista, Mangold, sia corretta ed anzi meriti una lode: è il pubblico che deve farsi una propria idea.


Sceneggiatore, regista, attori devono lanciare il sasso ma sta ad ogni singolo spettatore attribuire un significato ai cerchi sull’acqua che quel sasso forma.


Vengo ora ad alcune considerazioni personali sulla recitazione dei protagonisti.


Thimotèe Chalamet non vincerà l’Oscar.


Lo sappiamo che andrà a Brody.


Posso dire?


Chissenefrega.


Lui è talmente bravo in questa interpretazione che può andare davvero oltre.


In alcuni momenti, io che di Dylan ho visto decine e decine di interviste, credevo la produzione avesse utilizzato l’intelligenza artificiale per ringiovanire l’originale.

Thimotèe è semplicemente perfetto.


Soprattutto in un’espressione: tiene gli occhi bassi.


Come tiene gli occhi bassi?


Non si fa. I sacri dogmi della recitazione lo vietano.


Ragazzi, lui tiene gli occhi bassi e quegli occhi bassi hanno una potenza evocativa che rende lo spettatore totalmente partecipe del dramma interiore che vive Dylan.


Devo parlarvi di come canta?


Guardate su youtube la sovrapposizione tra il cantato originale di Dylan e quello di Chalamet: uguali.


Una immedesimazione nel personaggio totale e credibile.


Joan.


Io l’ho vista Joan in concerto.


E che dire?


La Barbaro è Joan Baez.


Non tanto nell’aspetto (troppo tutto) quanto nell’esprimere la fragilità coniugata alla determinazione che Joan mi ha sempre trasmesso.


Quando la Barbaro e Chalamet cantano “I ain’t me baby” mi è tornato in mente il concerto del 1975 (stranamente non quello terribile del 1965): i due sembrano legati per sempre.


Ed almeno nel ricordo collettivo, lo sono e lo saranno.


Pete Seeger.


Chi meglio di Edward Norton poteva interpretare – rendendone evidente lo spessore umano ma pure le incertezze – di uno dei padri del folk americano?


Pete Seeger, nel film di Mangold, non è solo lo scopritore di Dylan.


E’ quello che, se vogliamo, per primo lo etichetta.


E’ il genitore che trasferisce sul figlio le proprie ambizioni deluse o comunque non

pienamente realizzate.


E’ Crono che vorrebbe divorare i propri figli quando si ribellano.


E tuttavia, Crono esce sconfitto dalla battaglia.


Sconfitto ma paradossalmente vincitore.


Perché suo malgrado, in quel benedetto festival del 1965, Dylan ha dimostrato che la musica folk, per arrivare a tutti, deve evitare di diventare dogmatica, di chiudersi in un tranquillo recinto di autoassoluzione.


Riassumendo e finendo: A complete unknow è un film straordinario; racconta in modo straordinario la creazione e l’ascesa di un mito e la ribellione del mito all’immagine che il mondo gli aveva costruito addosso.


Dylan, alla fine, vince.

E con lui vince la libertà.

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