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Recensione a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Come si parla della più grande tragedia collettiva, dopo la Shoah, del ventesimo secolo
senza cadere o scadere nella retorica?
Come si trasmette l’impossibile tentativo di comunicare “cosa” questa tragedia ha
significato per gli individui che l’hanno sofferta ad individui di uno dei popoli che, anche
solo indirettamente (la Francia), l’hanno causata?
Come si racconta una storia d’amore tra vincitori e vinti che nasce, cresce e naufraga
intorno al dilemma dell’incomunicabilità di un dolore così profondo da divenire assoluto ed assorbente rispetto ad ogni altro sentimento.
Alain Resnais in “Hiroshima mon amour“ risponde alle tre domande che ho posto.
E risponde da par suo – unendo una tecnica registica sublime ad una capacità di
trasmettere le emozioni che lo rende, a mio modesto avviso, il più grande regista della
Nouvelle vague.
Non è un caso infatti che sia proprio Resnais ad affrontare – in due prodotti
apparentemente diversi ossia un documentario (Notte e Nebbia) ed un lungometraggio di finzione (Hiroshima appunto) – le due tragedie che hanno segnato per sempre i limiti si auspica inarrivabili cui possono arrivare cattiveria e cinismo umani.
In Hiroshima mon amour, le capacità registiche di Resnais emergono sin dall’avvio del
film.
I protagonisti appaiono solo per pochi istanti sulla scena che presto si trasferisce altrove.
L’altrove è il museo dedicato alla bomba atomica ad Hiroshima e l’ingresso al suo interno viene rappresentato inquadrando la scala che sembra non finire mai.
Una scala tendente ad infinito; infinito che io ho letto come evocativo del dolore che il
protagonista maschile, giapponese, porta dentro di sé.
Un dolore che egli, mentre la macchina da presa vaga (non senza metà ma senza un
ordine cronologico) nelle diverse stanze del museo, cerca di spiegare alla donna
americana di cui è innamorato.
Un dolore che alla protagonista femminile, americana, risulta incomprensibile nella sua
intensità.
Per lei Hiroshima è solo un fatto storico: condannabile e condannato ma un fatto.
Per lui Hiroshima rappresenta lo spartiacque tra la vita e la morte.
Una morte, se vogliamo, ancor più dolorosa perché non consacrata dalla perdita della vita ma costretta a rivivere ogni giorno il dramma nel ricordo di una tragedia inenarrabile.
D’altro canto per lei ricordare significa morire come è morto il suo amore impossibile.
Impossibile perché schierato anch’egli dalla parte dei perdenti.
In sostanza, la protagonista femminile che vorrebbe rinascere a nuova vita immergendosi in un dolore più grande di quello che sta vivendo, si trova di fronte ad un dilemma che viviamo anche noi con frequenza purtroppo crescente: le tragedie collettive si riflettono ed in che misura sulla vita degli individui che di queste tragedie sono autori, fautori o semplicemente inerti spettatori?
Per capirci ed attualizzare il discorso, il dramma di Gaza può castrare la mia, tua, vostra
capacità di amare un israeliano od un palestinese od un siriano?
La risposta del film anche qui viene lasciata sospesa o meglio il regista offre una sua
lettura ma la costruisce in modo emotivamente ambiguo e quindi utile a portare lo
spettatore ad un bivio in cui spetta a lui che lettura darne.
Quando ho visto per la prima volta questo film, ho pianto come una fontana.
E non per la storia d’amore, no. Perché ho avuto ulteriore conferma del fatto che noi
uomini (specie animale) siamo del tutto incapaci tanto di agire con raziocinio quanto di
abbandonarci alle emozioni.
Siamo come i timonieri di una nave rimasta senza albero maestro: cerchiamo di evitare i flutti destreggiandoci ed ondeggiando ma prima o poi un’onda troppo alta ci soverchia ed affondiamo inesorabilmente.
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