Analisi - \"Maria\"

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Articolo a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

“Quando morirò la mia anima tornerà ad Atene, troverà un posto al porticciolo e aspetterà che arrivi una nave con una donna a bordo”.


“Lei, per Onassis, era la vita”.


Due frasi (ricostruite, l’originale è leggermente diverso); due frasi per ricostruire

l’importanza che Maria Callas rivestì nella vita di Aristotele Onassis.


Due frasi cui aggiungere il racconto del sogno iniziale che Maria riferisce alla propria

governante: ogni sera Onassis la raggiunge a letto.


Due frasi per sintetizzare l’immensità di un amore e la delusione insanabile per la sua fine.


“Maria” narra con dolcezza, con empatia, con attenzione la storia degli ultimi giorni

della Callas nel suo “buen ritiro” parigino.


Tutto il film risulta pervaso da un senso incombente di morte che, lungi dall’intristire

l’atmosfera, genera nello spettatore un “surplus” di attenzione verso ciò che appare sullo schermo.


Chi, come me, guarda il susseguirsi delle scene si chiede se il fotogramma che sta

passando in quel momento sarà l’ultimo o se la storia proseguirà.


Eh sì.


Maria restituisce un’immagine della Callas, donna difficile, spigolosa, alle volte anche

respingente, quale individuo fragile, incerto.


Questa sua incertezza nell’affrontare la vita rende, tuttavia, il personaggio ancora più

grande – soprattutto nelle parti del film in cui assistiamo al tentativo della “Divina” di

recuperare la propria voce.


Un tentativo che si nutre di illusioni; che viene alimentato dai compiacenti pareri della

governante e che, tuttavia, ha risuonato dentro di me per giorni.


Quante volte capita, a ciascuno di noi, di porsi degli obiettivi irrealizzabili o comunque

difficilmente realizzabili e di ignorare bellamente la realtà dei fatti; realtà che non possiamo e non vogliamo sostenere.


Maria racconta, più che l’amore, la passione anzi le passioni assolute e devastanti che

albergano nel cuore della “Divina” (e che, diciamolo chiaramente, albergano nel cuore di

tutti noi).


Sono passioni che portano all’autodistruzione, alla creazione di mondi immaginari nei quali vivere ed agire.


E sono proprio queste le parti che ho trovato più convincenti: quelle in cui Maria lascia la dimensione reale per rifugiarsi nel suo mondo; mondo la cui consistenza, per lei e per noi che guardiamo lo schermo, diviene presto altrettanto reale.


A mio modesto avviso, la credibilità del personaggio poggia tutto sulla magistrale

interpretazione della Jolie.

Un’attrice che ho sempre amato molto anche per alcune scelte coraggiose (penso a “Nella terra del latte e del miele) prive di riscontro positivo ma che comunque ne sottolineano la determinazione e la forza interiore.


La protagonista femminile del film “Maria” è sublime sia nelle parti in cui canta, sia in

quelle in cui piange, sia in quelle che rivelano l’atteggiamento scostante della “Divina” nei confronti del mondo esterno.


Atteggiamento quest’ultimo che rivela sottotraccia la fragilità della Callas: una donna

estremamente bisognosa del riconoscimento altrui e dunque esposta ad ogni cattiveria

anche inconsapevole (la scena del turista che l’avvicina al bar ricordandole come, in

passato, Maria gli abbia spezzato il cuore dando forfait ad un concerto, è memorabile).


La Jolie passa dal registro drammatico a quello ironico (il duello verbale con Onassis al

ricevimento in cui i due si innamorarono evoca le parate e le controparate di una gara di

fioretto) con assoluta naturalezza.


Naturalezza che, purtroppo, si scontra con le interpretazioni non soddisfacenti degli altri attori che le orbitano attorno.


Mi riferisco in particolare a Favino e alla Rohrwacher.


Il primo, in realtà, abbandona quella recitazione sopra le righe che negli ultimi anni mi ha infastidito tantissimo.


In questo film Favino abbandona il ricorso smodato alle “faccette” e vorrebbe affidare a

un’espressività di sguardi la manifestazione esteriore del suo rapporto con la Callas.


Solo che.


Solo che non gli riesce.


Si vede proprio che gli costa fatica contenersi; recitare in modo dimesso non è nelle sue

corde e quindi uno dei nostri “migliori attori” affida alle parole la restituzione del suo amore incondizionato per Maria (parlo di amore in termini puri ed astratti senza attribuire al termine altre connotazioni).


Il problema è che il film di cui sto parlando attribuisce al “detto” una importanza davvero

infinitesimale.


Ciò che conta è l’immaginario.


Penso, ad esempio, alla scena in cui Maria – accompagnata da Favino e dalla

Rohrwacher – va nell’albergo in cui ricorda di aver conosciuto Onassis.


La discesa dalla scala della Jolie potrebbe (e forse lo è, non sono sicurissimo) essere

muta – rappresentando in sé il ritorno alla realtà dell’attrice.


E Favino dunque si riduce a pronunciare due-tre frasi ripetute con un tono monocorde ed inespressivo.


Ancor meno mi è piaciuta la Rohrwacher, attrice che avevo davvero apprezzato ne “Le

occasioni dell’amore”.


In Maria, al contrario, l’attrice italiana sembra un oggetto estraneo, un brodo senza dado.


Mi avvio a concludere invitandovi ad andare a vedere questo film che non si può certo

definire un capolavoro ma che merita appieno il tempo che gli dedicherete.


E lo merita perché è un film che fa molto riflettere soprattutto su un tema: c’è qualcuno o qualche sentimento, emozione per la quale valga la pena di annullarsi?


Ed una volta perso il “qualcuno” o finito il “sentimento” è possibile recuperare noi stessi

dagli abissi?

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