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Articolo a cura di...
~ JESSICA FLORE
Mi sono imbattuta su Amazon nel film “Un momento di follia” quasi per caso, ma quello che sembrava un semplice film sulle contraddizioni dell’amore si è rivelato un viaggio profondo nei desideri, nei silenzi e nelle fratture emotive dell’animo umano. È un film che ha diviso, che è stato criticato duramente in patria e all’estero, forse perché costringe a guardare in faccia ciò che normalmente si evita: l’ambiguità, l’urgenza, la fame d’amore che non conosce età né regole.
Non è un’opera perfetta, ma è viva. E io credo che valga sempre la pena fermarsi di fronte a qualcosa che pulsa ancora di vita in un mondo che ormai è pregno di censure, politicamente scorretto, corretto, di pregiudizio nel tentativo di cancellare il pregiudizio stesso... in un mondo che in qualche modo è stato snaturato della sua vera natura. Ne vale la pena soffermarsi su un’opera così limpida e vera soprattutto se, come Lola, ci ricorda che, a volte, gli errori non sono altro che risposte. Risposte alla nostra solitudine più profonda. In un giardino selvaggio della Corsica, un uomo siede assorto. Due ragazze lo osservano.
È un istante sospeso, immobile ma denso. Non è più vacanza, non è ancora colpa. In quello spazio apparentemente vuoto si consuma il cuore del film: l'istante in cui il desiderio oltrepassa la soglia del lecito, scuotendo certezze, ruoli, età, famiglie. Come un sisma intimo che incrina la superficie delle relazioni e rivela ciò che sotto e che preme da sempre. “Un momento di follia”, remake del film omonimo di Claude Berri del 1977, riletto da Jean-Frangois Richet, affronta l’amore interdetto con uno sguardo inquieto e disilluso. In una società che, come scriveva Erich Fromm, ha confuso l’amare con il possedere e la ribellione con il capriccio, la trasgressione diventa opaca, quasi irriconoscibile. Il film non idealizza né la condanna: la espone, la osserva, la lascia fermentare sotto gli occhi dello spettatore. E lo fa nel corpo di una ragazza che non vuole più essere solo "figlia di qualcuno”, ma finalmente sé stessa. E credo che non ci sia cosa più vera e che faccia venire i brividi per l’emozione soprattutto per una donna di 40 anni che come me ha vissuto esperienze simili e che non si dimenticano facilmente.
No: non mi sento in imbarazzo nel raccontare ma felice di farlo cosi posso combattere quella che oggi potrebbe essere chiamata “la censura del sentimento”. Louna, interpretata dalla magnetica Lola Le Lann, è la vera protagonista del film. Figlia di Antoine (Frangois Cluzet), è adolescente ma tutt’altro che ingenua. La sua è una fame di riconoscimento emotivo e sensuale che non chiede permesso, che non si traveste di provocazione, ma nasce da un’urgenza profonda, antica, a cui è difficile sottrarsi: quella di essere desiderata non come una ragazzina, ma come una donna consapevole. Nei suoi occhi non c’è solo desiderio, ma una consapevolezza precoce e struggente: la necessita di essere vista per davvero. E questo bisogno che la spinge verso Laurent (Vincent Cassel), padre single e amico di lunga data del padre di Louna. Uomo stanco, divorziato, affaticato dalla vita, Laurent è immerso in una crisi silenziosa. Il vuoto lo attraversa come una corrente sotterranea. L'energia bruciante di Louna diventa allora una miccia accesa: per un istante, Laurent crede di poter tornare a sentirsi vivo, acceso, presente.
Ma ciò che lui confonde per resurrezione è in realtà un abbaglio, un miraggio. L'errore non è (solo) morale: è esistenziale. Tra loro non nasce semplicemente un rapporto fisico. E una connessione emotiva pericolosa, diseguale, ma autentica. Un incontro in una bolla che li separa dal mondo in riva alla spiaggia e che ha il sapore di un cortocircuito più che di una relazione, ma che per Louna rappresenta un'esperienza fondamentale nella costruzione della sua identità. Con Laurent, Louna smette per un attimo di essere "l'amica di Marie" — la figlia di Antoine, la ragazzina in vacanza - e diventa semplicemente Louna. E questo basta a far deflagrare tutto.
Marie, interpretata da Alice Isaaz, è la figlia di Laurent e la migliore amica di Louna. È la figura che porta sulle spalle il peso reale delle conseguenze. Non si sfoga, non esplode subito nonostante quella maglietta gialla che va ad indicare che si è è passata quella che potrebbe essere definita la soglia della normalità delle relazioni sociali. Ma la sua presenza, il suo dolore silenzioso, sono le cicatrici emotive lasciate da quella relazione segreta. Se Louna è la fiamma e Laurent l’uomo che si brucia, Marie è la cenere che resta. È lei, con il suo sguardo disilluso e il suo silenzio pesante, a incarnare la coscienza collettiva della storia.
Il film gioca sull’equilibrio precario tra la carne e l’anima, tra l’adolescenza come esplosione vitale e l’età adulta come resa, come paralisi morale. | due padri — Antoine e Laurent - rappresentano una mascolinità in crisi: incapace di contenere, di guidare, di porre confini. Antoine, pur essendo il genitore diretto di Lola, è un padre distratto, più compagno che figura autorevole. Laurent, invece, vacilla e cede. Non per vizio, ma per smarrimento. Perché anche gli adulti, come gli adolescenti, cercano di essere visti. Il dialogo (brevissimo) chiave del film è una domanda sussurrata da Louna (che nel copione è chiamata Louna, come nell’originale): «C’est quoi le vrai problè me? C’est moi ou c’est les autres?» (“Qual è il vero problema? lo o gli altri?”). È una domanda pascaliana. E insieme una confessione disarmante: non si può amare a metà. O si tace, o si ama fino in fondo. Laurent non tace, ma non ama nemmeno: fugge. Il suo “momento di smarrimento” non è un impulso carnale, ma una resa. È la disfatta del coraggio, più che una colpa.
Laurent: “È un problema serio non è proprio il caso di scherzare, Louna. Tuo padre si è messo in testa di uccidere l'uomo che ti ha toccata. E quell’uomo?”
Louna: “Sei tu...”
Laurent: “Ah...”
Louna: “Ma se non fossi minorenne e non fossi la figlia di papa... Pensi che mi potresti amare?”
Laurent: “Non è questo il punto, Luna.”
Louna: “lo ho bisogno di sapere. E a causa mia che non vuoi che stiamo insieme? O a causa degli altri?”
Laurent: “Diciamo che non è a causa tua!”
Louna: “Ma allora è uno spreco insensato!”
Laurent: “Non è uno spreco”
Louna: “Si!”
Laurent: “Dovevo evitare questo casino! Louna, facciamo finta che non sia successo niente. D'accordo?”
Louna: “Tra qualche mese sarò maggiorenne. Ti aspetto!”
Laurent: “Sarai, comunque, la figlia di tuo padre. La figlia del mio migliore amico!”
Louna: “E assurdo rinunciare alla felicita. E uno spreco”
Laurent: “Sara assurdo mai cosi”
Louna: “Ma la vita serve a fare cose che ricorderemo in punto di morte”
Nel contesto psicologico, Freud parlerebbe di transfert: Louna proietta su Laurent una forma di amore idealizzato, un’eco della propria fame di identità erotica ed emotiva. Ma Richet sceglie di non spingere fino in fondo questa analisi: lascia emergere il conflitto ma non lo affonda. E qui, forse, sta la debolezza - o la delicatezza - del film. Perché resta sospeso, ambiguo, esattamente come lo sguardo di Louna alla fine del film che regala un finale aperto e che carica ancora di più. E proprio quello sguardo — che chiude il film - è l'elemento più potente, più bruciante. Non è più lo sguardo della tentazione, ma quello della consapevolezza. Ha amato. Ha perso. Ma non si è arresa.
E lo sguardo di chi ha toccato il fuoco e vuole ancora sentirne il calore, anche se brucia. Come scrive Barthes, “ciò che scandalizza non è la nudità, ma l’abbandono”. E Louna si abbandona totalmente all’amore, senza protezioni, senza strategie. Come una fiamma che brucia senza chiedere il permesso. Louna è questo: un amore che non chiede di essere capito, ma solo di essere sentito. È la memoria viva di tutti quegli amori che ci sono accaduti addosso, contro ogni logica, contro ogni morale. Amori che ci hanno lasciato cambiati per sempre, nella pelle, nello stomaco, nel battito. Ma se i personaggi principali muovono la trama attraverso desiderio, smarrimento e consapevolezza, c’è un'assenza che pesa quanto una presenza costante: quella delle madri. Nessuna delle due ragazze ha una figura materna attiva o visibile nel racconto.
È una mancanza silenziosa, ma gravida di significato. Le madri sono fantasmi narrativi, ombre che non attraversano mai lo schermo ma il cui vuoto si fa sentire in ogni scelta, in ogni confusione affettiva, in ogni bruciante desiderio non filtrato da una figura femminile adulta capace di contenere. Louna cresce come figlia, amica, adolescente, senza un modello di femminilità adulta in cui rispecchiarsi o contro cui ribellarsi. E allora l’unico modo che ha per esistere è quello di diventare donna attraverso lo sguardo maschile. Come osserva lo psicoanalista Serge Tisseron, in molte famiglie contemporanee si assiste alla figura del padre-madre, un ibrido emotivo incapace di contenere ma neppure di separare. È ciò che accade anche qui: Antoine e Laurent, ciascuno a modo suo, incarnano una genitorialità incompleta, che non sa essere guida né barriera, e per questo si sgretola.
Eppure, il vero baricentro etico del film non è nei due uomini. È in Marie. Figlia di Laurent e migliore amica di Lola, Marie è il personaggio che più profondamente attraversa il trauma. Non urla, non si vendica, non reclama attenzione. Ma ogni suo sguardo, ogni sua assenza, ogni gesto appena accennato è un memento della devastazione affettiva causata da quella relazione. Marie è la ferita viva. Non è la gelosa, non è la vittima. È la coscienza. È lei che assorbe le macerie emotive lasciate dagli adulti.
È la figlia tradita non solo dal padre, ma anche dal silenzio. Marie non è solo una spettatrice, è il contraltare morale di tutto ciò che accade. Alla fine, però, ciò che resta davvero impresso è lo sguardo conclusivo di Louna. Quello sguardo non cerca più conferme, non domanda perdono, non supplica amore. È lo sguardo di chi ha amato e ha perso, ma non si è spento e anzi dice: “Sei bellissimo!”. È lo sguardo di chi ha attraversato il fuoco e, nonostante le bruciature, desidera ancora. Un misto di ferita e ostinazione, dolore e desiderio, incoscienza e forza. Quello sguardo entra nelle ossa, brucia l’anima. Non è uno sguardo da dimenticare. È un richiamo. Un marchio. In quella chiusa muta ma potentissima, si gioca tutto il senso del film. Perché Un momento di follia non è solo un film sulla trasgressione. È un film sull’amore quando diventa detonatore.
Quando non è più morale, ma esistenziale. Quando non ti chiede "è giusto?" ma "è vivo?". Non è un film sull’erotismo adolescenziale, ma sul bisogno feroce di essere qualcosa per qualcuno. Di essere riconosciuti nella propria fame di amore. E nella propria vulnerabilità. In un mondo che consuma tutto — emozioni, corpi, relazioni — in tempo reale, questo film ci dice che ci sono ancora esperienze che lasciano cicatrici vere. Che il desiderio può essere un’arma. Che l’amore non corrisposto può essere una costruzione identitaria. Che gli errori non sono sempre colpe, ma spesso risposte —risposte confuse, sbagliate, ma profondamente umane — a una solitudine ancestrale, a un vuoto che portiamo nel DNA. Platone, nel Simposio, raccontava che gli amanti si cercano perché in origine erano uniti, e ora sentono il bisogno di tornare a essere uno. Ma cosa succede quando quell’unità impossibile è anche proibita? Succede che l’amore diventa urto, vertigine, scandalo. Succede che ci rimane addosso come una bruciatura leggera, ma eterna.
Un momento di follia non offre catarsi. Non fornisce giudizi. Ci lascia in bilico. Ma proprio lì, in quell’incertezza etica e affettiva, pulsa il suo valore. Perché ci ricorda che amare — davvero - significa mettere a rischio tutto. Anche noi stessi. E Lola, con il suo silenzio finale, è la memoria viva di ogni amore che ci ha scavalcato. Di ogni errore che era solo sete di essere visti. Di ogni scelta che ci ha trasformati, anche se non la rifaremmo mai. Lei è la fiamma. E anche quando sembra essersi spenta, continua a bruciare da qualche parte dentro di noi.
Vi lascio con alcune domande; non voglio che rispondiate a me ma a voi stessi: quand’è l’ultima volta che vi siete sentiti così vivi? Se la “vita serve a fare cose che ricorderemo in punto di morte” è peccato sentirsi così vivi? lo rispondo per me e la risposta è: credo di no: non è peccato. È solo umano.
Terribilmente, meravigliosamente umano. Perché l’eros non è solo pelle, è un linguaggio arcaico, antico come il mito, è la fiamma che Platone chiamava reminiscenza: qualcosa che ci ricorda chi eravamo prima di dimenticarci. È fuoco che chiede solo di essere alimentato.
E chi brucia non ha tempo per il giudizio, solo per la verità.
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