L’avaro di Molière: analisi del monologo del furto di Arpagone

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di Arpagone nella Scena VII segna l’apice dell’opera di Molière. La perdita del denaro diventa per lui la perdita della vita stessa. Non siamo davanti a un semplice lamento: qui si svela in tutta la sua forza il paradosso del protagonista. L’avaro non ha più identità, non è più padre, non è più uomo, ma soltanto custode di una cassetta che rappresenta la sua esistenza. La scena diventa una parodia della tragedia classica, in cui il dolore privato di un eroe viene sostituito da un dolore ridicolo e ossessivo.

Il monologo di Arpagone, Scena VII, Atto 5

Scena VII

Arpagone grida al ladro fin dal giardino, ed entra senza cappello.



Al ladro! al ladro! all’assassino! al brigante! Giustizia, giusto Cielo! sono perduto, assassinato, mi hanno tagliato la gola, mi hanno derubato di tutto il denaro. E chi può essere? Che fine ha fatto? Dov’è? Dove si nasconde? Che cosa posso fare per trovarlo? Dove correre? Dove non correre? Sarà di là? Sarà di qua? E tu chi sei? Fermati. Rendimi i soldi, manigoldo… (Si afferra da sé il braccio) Ah! sono io. Son tutto in confusione, non so più dove sono, chi sono e quel che faccio. Misero me! povero mio denaro, povero mio denaro, amico mio carissimo! mi hanno privato di te; ti hanno portato via, ho perduto il mio sostegno, la mia consolazione, la mia gioia; tutto è finito, non ho più niente da fare al mondo, non posso vivere senza di te. È la fine, più non resisto; son lì per morire, son morto, son seppellito; c’è qualcuno che voglia resuscitarmi, che mi renda l’amato denaro o che mi indichi chi l’ha preso? Eh? che avete detto? No, non c’è nessuno qui attorno. Chiunque abbia fatto il colpo, dev’essere rimasto vigile a spiare il momento buono; e ha scelto giustamente di intervenire quando stavo parlando con quel traditore di mio figlio. Usciamo. Voglio ricorrere alla giustizia e coinvolgere tutta la casa: fantesche, servitori, figlio, figlia, e me compreso. Quanta gente vedo riunita! Chiunque mi cada sotto gli occhi, mi fa nascere il sospetto, vedo il mio ladro in ogni cosa. Eh! di che si parla laggiù? Di colui che mi ha derubato? Che chiasso si sta facendo là in alto? Che c’entri il mio ladro? Di grazia, se avete notizie del ladro, vi supplico, parlate. Non sarà nascosto in mezzo a voi? Tutti mi guardano e se la ridono; garantito, hanno a che fare col furto, non c’è dubbio. Su, presto, commissari, armigeri, bargelli, giudici, supplizi, patiboli e carnefici. Voglio fare impiccare tutti; e se non ritrovo il mio denaro, m’impiccherò io stesso.

L'Avaro di Molière

L’avaro” di Molière, commedia in cinque atti del 1668, è uno dei testi più celebri del teatro francese del Seicento. È una commedia che mette al centro Arpagone, un vecchio ossessionato dal denaro, incapace di vedere altro nella vita. Il denaro diventa il vero protagonista del testo: più che un bene da accumulare, una forza che modella i rapporti familiari, amorosi e sociali.

Atto I – Presentazione dei conflitti

L’opera si apre presentando i figli di Arpagone, Cléante ed Élise, entrambi desiderosi di sposare le persone amate: Cléante vuole Marianna, Élise vuole Valère. Ma subito si capisce che c’è un ostacolo enorme: la tirannia paterna. Arpagone non solo controlla rigidamente ogni spesa, ma arriva a progettare matrimoni combinati che possano avvantaggiarlo economicamente, ignorando i desideri dei figli. Già qui emerge la prima contraddizione: il denaro, che dovrebbe garantire sicurezza e stabilità, diventa la causa di instabilità e tensione familiare.

Atto II – L’avidità prende forma

Arpagone dichiara le sue intenzioni matrimoniali: vuole sposare Marianna, la stessa ragazza amata da suo figlio Cléante. Questo rovesciamento farsesco, tipico della commedia di Molière, mette in scena la rivalità padre-figlio non sul piano del potere o dell’eredità, ma su quello del desiderio amoroso. Nel frattempo, Élise e Valère cercano di proteggere la loro relazione in segreto, mentre il servitore La Flèche osserva e commenta, diventando la voce ironica che smaschera l’avarizia del padrone.

Atto III – Intrighi e inganni

La commedia accelera con una serie di malintesi e sotterfugi. Cléante, disperato, cerca di ottenere un prestito per sostenere i suoi piani, ma scopre che l’usuraio con cui deve trattare è in realtà collegato ad Arpagone stesso. Qui la drammaturgia mostra il paradosso dell’avarizia: il padre finisce per ostacolare il figlio non solo come genitore, ma anche come creditore.

Atto IV – Il nodo comico e tragico

Il cuore dell’opera esplode con il furto della cassetta di denaro di Arpagone. Questa scena è centrale perché mette a nudo la vera natura del protagonista: non è l’amore per i figli, non è il rispetto della reputazione, ma è la perdita materiale a scatenare la sua furia. Arpagone si dispera in modo quasi grottesco, trasformando la sua ossessione in una parodia della tragedia: il lamento per il denaro rubato ricorda quello per la morte di un familiare. Parallelamente, si avvicina la rivelazione delle identità: Marianna e Valère risultano essere figli di Anselmo, un personaggio nobile che diventa il deus ex machina della vicenda.

Atto V – La risoluzione

Il finale scioglie i nodi: Marianna e Valère vengono riconosciuti come figli perduti di Anselmo, che accetta di favorire le unioni amorose. Cléante può così sposare Marianna ed Élise può restare con Valère. Arpagone, pur restando legato al suo denaro, è costretto a cedere sulle nozze per non restare isolato.
Il vero compromesso, però, non è morale: Arpagone non cambia e non impara. Il suo unico pensiero è riavere la cassetta. La commedia si chiude così senza redenzione: il protagonista rimane prigioniero del suo vizio.

Perché funziona drammaturgicamente

Arpagone come maschera: È una figura che discende dalla tradizione della commedia antica (Plauto, Aulularia), ma Molière gli dà una dimensione più complessa. È ridicolo per la sua ossessione, ma al tempo stesso inquietante perché sacrifica legami umani autentici in nome del denaro.

Equilibrio tra farsa e critica sociale: Gli equivoci, i travestimenti e i malintesi fanno ridere, ma dietro ogni gag si avverte la satira contro una società in cui i rapporti umani sono schiacciati dall’ossessione economica.

Struttura a incastro: Le relazioni amorose dei figli, gli intrighi dei servitori e l’avidità paterna sono tre fili narrativi che si intrecciano in un crescendo, fino al culmine della perdita del denaro.

Analisi Monologo

Il monologo è costruito su frasi brevi, esclamazioni, ripetizioni. Arpagone grida, corre da un lato all’altro, sospetta di tutti, si aggrappa perfino a se stesso credendo di inseguire il ladro. Questa frammentazione verbale rispecchia il caos interiore: l’uomo è smarrito, incapace di distinguere realtà e immaginazione. Arpagone chiama il denaro “amico mio carissimo”, lo considera la sua consolazione, la sua gioia, la sua ragione di vivere. La cassetta rubata non è un oggetto, ma un’estensione del suo corpo e della sua anima. La sua disperazione non è diversa da quella di chi piange un lutto. In questo modo, Molière eleva la farsa a critica sociale: mostra un personaggio che sacrifica ogni valore umano sull’altare dell’avidità.


Nel delirio, Arpagone vede il ladro ovunque: nei servi, nei figli, persino in se stesso. La comicità nasce dall’eccesso, dall’ossessione che cancella ogni rapporto di fiducia. La famiglia, che dovrebbe essere rifugio, diventa il primo bersaglio del suo odio. Arpagone invoca commissari, giudici, carnefici. Chiede supplizi e patiboli come se fosse vittima di un delitto capitale. La sproporzione tra il reato e la reazione fa emergere il carattere grottesco del personaggio: un uomo disposto a condannare il mondo pur di riavere il suo tesoro.

Conclusione

Questo monologo concentra in pochi minuti la natura di Arpagone: ridicolo, ossessionato, incapace di distinguere l’amore dal possesso. La sua perdita economica diventa una catastrofe personale, un lutto esistenziale che lo annienta. È in questo eccesso che la commedia di Molière trova la sua forza: fa ridere, ma dietro la risata c’è un’ombra inquietante, quella di un uomo che ha rinunciato a vivere pur di accumulare.

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