Analisi del Monologo di Mark Kerr (Dwayne “The Rock” Johnson) in The Smashing Machine

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi del monologo di Mark Kerr in "The Smashing Machine"

Questo monologo di Mark Kerr in The Smashing Machine rivela la mente di un lottatore che vive il combattimento come un linguaggio fatto di sensazioni, paura e dominio fisico. In questa scena Dwayne Johnson dà voce a un flusso interiore che racconta il rapporto con l’adrenalina, la sottomissione dell’avversario e quella ricerca quasi istintiva della vittoria. Il monologo diventa una confessione che permette allo spettatore di capire cosa accade dentro un atleta quando entra in un torneo senza pause, dove ogni incontro cambia il modo di percepire sé stesso.

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Finale del film (con spoiler)

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Serie: The Smashing Machine (2025)
Personaggio: Mark Kerr
Attore: Dwayne Johnson

Minutaggio: 3:30-6:30

Durata: 3 minuti

Difficoltà Alta: gestione della fisicità + capacità di far percepire un impulso primordiale senza scivolare nella caricatura

Emozioni chiave esaltazione controllata, desiderio quasi rituale del combattimento,  fascinazione per il potere fisico, stupore verso sé stess,  lucidità fredda quando parla della violenza
Contesto ideale per un attore Situazioni in cui si vuole mostrare aggressività mentale senza aggressività gratuita, capacità di gestire energia e calma nello stesso discorso.

Dove vederlo: Al cinema!

Contesto e finale del film "The smashing Machine"

Il film segue tre anni nella vita di Mark Kerr, colosso delle arti marziali miste che negli anni a cavallo tra ’90 e 2000 diventa un riferimento per la scena del fighting. Non è un percorso di ascesa lineare: è una sezione della sua vita, osservata come se Safdie avesse infilato la macchina da presa dentro i corridoi, le camere d’albergo e gli spogliatoi di un atleta che vive sul filo. Kerr passa da un torneo all’altro, tra Brasile e Giappone, affrontando match ravvicinati che lasciano sul corpo cicatrici sempre più pesanti. Per attutire il dolore si affida agli oppiacei, una scorciatoia che diventa abitudine. Il film non lo mostra come una caduta clamorosa: è una deriva silenziosa, un gesto ripetuto che scivola nella quotidianità. A casa, in Arizona, lo attende Dawn, compagna affettuosa e diretta. Tra i due c’è un legame forte, attraversato però da scatti impulsivi e da quel bisogno di Kerr di chiudersi, quasi a proteggere qualcosa che non sa esprimere. Le scene domestiche mescolano tenerezza e tensione, come se ogni momento potesse cambiare peso da un istante all’altro.

Il sostegno più concreto arriva da Mark Coleman, amico, rivale e figura con cui Kerr condivide un senso di appartenenza quasi fraterno. Coleman introduce Kerr nelle prime fasi del mondo UFC, che sta iniziando a trasformarsi in un ecosistema più ricco e più ordinato rispetto ai tornei overseas. Non è una porta verso la gloria: è un ambiente nuovo che promette guadagni e lascia intendere una via diversa, forse più stabile. Safdie filma i momenti tra Kerr e Coleman in modo naturale, come se fossero schegge di conversazioni catturate al volo. Allenamenti, pasti condivisi, telefonate rapide: tutto costruisce una relazione dove l’affetto passa dalle piccole cose. I due finiscono ancora una volta in Giappone, al Pride, dove la narrazione entra nel vivo. I match sono ripresi senza la retorica dell’eroe che affronta il destino: sono lunghi sprazzi di fiato corto, corpi che cedono, sforzi che sembrano appartenere a un animale ferito. Tra un combattimento e l’altro si percepisce la pressione crescente su Kerr, una specie di rumore di fondo che lo accompagna. Il legame con Dawn attraversa una serie di piccoli scossoni. I due si cercano, si fraintendono, si ritrovano. Le discussioni non sono finalizzate a creare “il momento di svolta”: sono frammenti della loro intimità, luoghi dove emerge il peso che il mestiere di Kerr mette su qualsiasi relazione. L’uso degli oppiacei diventa più evidente man mano che il film procede. Non c’è un crollo plateale, bensì una lenta usura: pillole prese di notte, dolori mascherati, giornate che si impastano.

Il Pride mette Kerr e Coleman nella stessa cornice, e la loro amicizia assume il ruolo più caldo del film. È un rapporto che mostra cosa significhi stare accanto a qualcuno quando la pressione agonistica toglie fiato. Tra vittorie e cadute, l’immagine che resta è quella dei due uomini che condividono una strana routine fatta di fatica, coraggio e un tacito senso di protezione reciproca. Il film si chiude senza il classico trionfo: Kerr prosegue, Coleman lo accompagna, Dawn resta un punto di riferimento incerto ma vivo. Safdie lascia lo spettatore con la sensazione di avere osservato una porzione di vita, senza un arco rigido, senza un epilogo rassicurante.

Testo del monologo + note

Beh, nel momento esatto in cui suona il gong con alcune persone lo capisci subito che sono spaventate a morto. Glielo leggi negli occhi, lo puoi sentire nel loro sudore, wow. Però è solo quando gli metto le mani addosso per la prima volta e inizio a dominare l'altra persona che riesco a sentire quasi istantaneamente se quella persona cederà o no. Diventa è una questione di fargli male da lì che lui lo faccia a me. E se lui mi fa male, allora io gli faccio male il doppio. Perché sai, quando prendi il pugno in faccia puoi avere 2 reazioni. Puoi accasciarti tremante o puoi voler punire la persona che ti colpito. Ma io ho sviluppato la terza modalità: se mi prendi a calci oppure a pugni faccio una cosa diversa. Non ti punisco, ti sottometto fisicamente con la mia volontà. E quando succede senti davvero che la persona si lascia andare, si affloscia tra le tue braccia, ed è… è una cosa molto potente. È pazzesco perché all'inizio lo facevo solo per divertirmi. Agivo seguendo un istinto animale che prendeva il sopravvento. Provo a spiegarlo così, magari si capisce meglio, ma è una cosa un po' strana. Mi è sembrato tutto come un'evoluzione. Cioè, io facevo la lotta libera al college, ma questo è qualcosa di completamente diverso. Nel momento in cui ho provato quell’adrenalina, il primo punto, ho capito che stavo arrivando molto vicino a qualcosa che è quasi magico. Arrivi al punto in cui ti devi chiedere: “Metterei il dito nella ferita del mio avversario? Per allargarla ancora un pò, solo per vincere, per fargli più male? Lo farei? Certo che lo faresti, e sai perché? Perché vincere è la sensazione più bella che esista. E tieni presente che questo torneo era in Brasile. Se vincevi non tornavi a casa. No. Andavi avanti, combattevi contro l’avversario successivo, poi contro quello dopo, poi quello dopo, poi quello dopo ancora. Alla fine, ti sentivi praticamente un Dio. Sinceramente, quando vinci tutto il resto perde importanza. Forse è la sensazione più bella del mondo. E’ una sensazione che non sapevo nemmeno esistesse. Cazzo. Mi vengono i brividi solo a raccontartelo. 

“Beh, nel momento esatto in cui suona il gong con alcune persone lo capisci subito che sono spaventate a morto.” “Beh” detto come se stesse spiegando una verità che conosce da anni; pausa breve dopo “gong”; sguardo come se osservasse un avversario che ricorda bene; voce bassa su “spaventate a morto”.

“Glielo leggi negli occhi, lo puoi sentire nel loro sudore, wow.” “Glielo leggi negli occhi” detto con calma; micro-sorriso quando dice “wow”, come se lo sorprendesse ancora; gesto della mano come se indicasse uno spazio vicino al viso.

“Però è solo quando gli metto le mani addosso per la prima volta e inizio a dominare l'altra persona che riesco a sentire quasi istantaneamente se quella persona cederà o no.”: ritmo più lento; su “metto le mani addosso” la voce si fa più ruvida; sguardo in basso quando dice “cederà o no”, come se ricordasse un momento preciso; pausa breve prima di “se quella persona cederà”.

“Diventa è una questione di fargli male da lì che lui lo faccia a me.”: tono diretto; taglio netto su “fargli male”; leggero irrigidimento delle spalle; sguardo fisso, non minaccioso ma concentrato.

“E se lui mi fa male, allora io gli faccio male il doppio.”: pausa prima di “allora”; tono quasi didattico; intensità controllata, non urlata; lascia un respiro dopo “il doppio”.

"Perché sai, quando prendi il pugno in faccia puoi avere 2 reazioni.: “Perché sai” come se si avvicinasse all’interlocutore; gesto della mano che divide in due; intonazione chiara su “2 reazioni”.

“Puoi accasciarti tremante o puoi voler punire la persona che ti colpito.”: “accasciarti tremante” detto con voce più calma; cambio registro su “punire”, più asciutto; sguardo frontale.

“Ma io ho sviluppato la terza modalità: se mi prendi a calci oppure a pugni faccio una cosa diversa.”: piccola pausa prima di “la terza modalità”; tono quasi confidenziale; accento su “diversa”; postura che si apre, come se stesse rivelando qualcosa.

“Non ti punisco, ti sottometto fisicamente con la mia volontà.”: frase più lenta; “ti sottometto” detto senza enfasi, come constatazione; sguardo fermo; niente aggressività superflua.

“E quando succede senti davvero che la persona si lascia andare, si affloscia tra le tue braccia, ed è… è una cosa molto potente.”: immagina il peso di un corpo; voce morbida su “si lascia andare”; pausa lunga dopo “ed è…”; tono riflessivo, quasi sorpreso.

“È pazzesco perché all'inizio lo facevo solo per divertirmi.”: sorriso piccolo su “all’inizio”; intonazione più leggera; sguardo che va altrove, ricordo lontano.

“Agivo seguendo un istinto animale che prendeva il sopravvento.”: rallentare; tono più interno; breve silenzio dopo “sopravvento”, come se sentisse ancora quell’impulso.

“Provo a spiegarlo così, magari si capisce meglio, ma è una cosa un po' strana.”: mani che cercano un’immagine; voce più bassa; “un po’ strana” detto con sincerità, non ironia.

“Mi è sembrato tutto come un'evoluzione.”: tono lineare; nessuna enfasi; sguardo fisso verso un punto lontano.

“Cioè, io facevo la lotta libera al college, ma questo è qualcosa di completamente diverso.”: “Cioè” come tentativo di ricollegarsi a un’origine; accento leggero su “completamente diverso”; espressione che riconosce un passaggio importante.

“Nel momento in cui ho provato quell’adrenalina, il primo punto, ho capito che stavo arrivando molto vicino a qualcosa che è quasi magico.” “quel­l’adrenalina” detto con un filo di eccitazione; pausa su “il primo punto”; “quasi magico” sussurrato.

“Arrivi al punto in cui ti devi chiedere: “Metterei il dito nella ferita del mio avversario? Per allargarla ancora un pò, solo per vincere, per fargli più male? Lo farei?”: tono interrogativo ma non moraleggiante; guarda come se vedesse la ferita; pausa prima di “Lo farei?”; intonazione sincera.

“Certo che lo faresti, e sai perché?”: risposta rapida; gesto della mano come se desse per ovvia la cosa; pausa dopo “perché?”.

“Perché vincere è la sensazione più bella che esista.”: respiro profondo prima di dirlo; tono quasi sereno; sguardo diretto.

“E tieni presente che questo torneo era in Brasile.”: cambio di contesto, come se stesse aprendo una parentesi; voce più pratica.

“Se vincevi non tornavi a casa. No.”: “No” secco, breve; sguardo fermo; ritmo cadenzato.

“Andavi avanti, combattevi contro l’avversario successivo, poi contro quello dopo, poi quello dopo, poi quello dopo ancora.”: accelerazione progressiva; uso del respiro per marcare la ripetizione; sguardo che segue una linea orizzontale, come una serie di ostacoli.

“Alla fine, ti sentivi praticamente un Dio.”: voce più bassa, quasi un sussurro; occhi che si allargano leggermente; pausa lunga dopo.

“Sinceramente, quando vinci tutto il resto perde importanza.”: tono pulito, senza enfasi; “Sinceramente” detto come se si stesse confessando.

“Forse è la sensazione più bella del mondo.”: parla piano; micro-pausa prima di “del mondo”; sguardo verso il basso.

“È una sensazione che non sapevo nemmeno esistesse.” voce che si incrina appena; ritmo lento; un sorriso corto come reazione involontaria.

“Cazzo. Mi vengono i brividi solo a raccontartelo.”: “Cazzo” detto come sfogo vero; passo indietro o piccolo respiro; chiude con un tremito nella voce; sguardo che si stacca dall’interlocutore.

Analisi del monologo di Mark Kerr in "The smashing machine"

Il monologo di Mark Kerr in The Smashing Machine è uno dei momenti più intensi del film di Benny Safdie, un passaggio che permette allo spettatore di entrare nella mente di un lottatore nel pieno della propria trasformazione fisica e mentale. Qui non si parla di scontri sul ring: la scena è una finestra sul modo in cui un atleta percepisce il corpo, la paura e il bisogno quasi rituale di imporsi sull’avversario. Questo pezzo torna utile a chi studia recitazione perché offre un esempio chiaro di costruzione psicologica, ritmo, tensione interiore e uso del corpo come estensione della parola. Il monologo si apre con l’osservazione diretta della paura. Mark descrive quel momento in cui il gong suona e l’atleta davanti a lui mostra, a livello corporeo, il proprio terrore. Non è un ingresso trionfale: è una lettura sensoriale. Occhi, sudore, micro-reazioni. In ottica interpretativa questo incipit dà subito un taglio chiaro: la scena non parla della forza, ma della percezione. Il personaggio si mette in una posizione quasi analitica, come se stesse descrivendo una scienza comportamentale nata nell’arena.

Quando Mark racconta del primo contatto, emerge l’idea che l’incontro vero non comincia con la strategia, ma con la sensazione. Nel momento in cui tocca l’avversario capisce quasi subito se l’altro resisterà o se crollerà. Questo aspetto è centrale: il combattere diventa un dialogo fisico. L’impatto genera comprensione. È come se il ring fosse un tavolo di conversazione dove le parole sono sostituite dalla tensione muscolare. Il monologo prende una direzione più scura quando Mark introduce la dinamica del dolore. Spiega che, se l’avversario colpisce, la risposta è infliggere di più. Non lo dice con esaltazione: lo dice con lucidità. Questa sezione apre una finestra sulla mente di un atleta che non ragiona in termini morali, ma in termini di sopravvivenza. L’idea della “terza modalità”, quella in cui non punisce, ma sottomette, è una svolta psicologica che un attore può esplorare attraverso il concetto di controllo assoluto.

Quando Mark descrive l’attimo in cui l’avversario si affloscia tra le sue braccia, parla di una sensazione potente. È un momento quasi intimo, dove il corpo dell’altro cede e il suo diventa struttura dominante. Questa descrizione permette all’attore di giocare su un paradosso: la violenza come momento di contatto umano. È un gesto che combina ferocia e delicatezza, un equilibrio che dà al monologo una complessità rara. Mark ammette che tutto è iniziato come un gioco, un divertimento quasi animale. Poi spiega che quella sensazione è cambiata, diventando qualcosa che lui stesso percepisce come un passaggio evolutivo. Qui si nota la struttura tematica di Safdie: un uomo che scopre una parte di sé che non conosceva. Non viene raccontata come un’epifania gloriosa, ma come un lento riconoscimento.

Il punto centrale arriva con il primo “punto” di un torneo: l’adrenalina che si accende e porta Mark a percepire qualcosa che definisce “quasi magico”. Qui non è magia nel senso poetico: è un sentimento di potenza e presenza totale. Per un attore questa frase è un invito a esplorare un momento di sospensione. Non è esagerazione: è una scoperta. La parte più forte del monologo è la domanda: “Metterei il dito nella ferita del mio avversario per allargarla?” È una confessione che mette lo spettatore davanti al limite tra disciplina e brutalità. È un pensiero che Mark ha davvero considerato, e proprio per questo va detto con semplicità.

Mark afferma che vincere dà una sensazione potentissima. Parlare della vittoria non la rende banale: la descrive come uno stato in cui tutto il resto perde peso. Il linguaggio del personaggio è diretto, spogliato da qualsiasi retorica sportiva. Quando cita il torneo in Brasile, Mark introduce un ritmo serrato: un avversario dopo l’altro. Questo crea una progressione che schiaccia qualsiasi pausa mentale. Il monologo, in questa parte, assume un andamento fisico: quasi come se il pubblico percepisse il fiato corto del combattente. Il culmine arriva quando descrive lo stato mentale che si raggiunge dopo una serie di vittorie consecutive. Non è presunzione: è un effetto psicologico della pressione, dell’adrenalina e della scarsità di pause. L’attore qui deve portare un misto di stanchezza e euforia controllata, come se Mark stesse confessando qualcosa che capisce pienamente solo nel momento in cui lo dice.

La chiusura è fondamentale: Mark torna umano. “Mi vengono i brividi solo a raccontartelo.” Il finale apre un varco nella corazza: quello che stava descrivendo non è soltanto una memoria fisica, ma una memoria emotiva.

Credits e dove vederlo

Regista: Benny Safdie

Sceneggiatura: Benny Safdie

Produttore: Benny Safdie Dwayne Johnson Eli Bush

Cast: Dwayne Johnson Emily Blunt Ryan Bader Bas Rutten Oleksandr Usyk

Dove vederlo: Al cinema!

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