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Analisi a cura di...
~ ANGELICA ATTANASI
Quello che tenterò di fare con questa recensione, è mettere in parallelo due film che trattano lo stesso argomento con due visioni diverse.
Non due film qualsiasi, ma due film che parlano dell’ineluttabilità della fine della specie umana e come quest’ultima affronta e percepisce la propria estinzione.
Lo so, l’argomento è sicuramente pesante, ma vorrei suscitare qualche domanda nelle vostre fervide menti.
Un padre ed un figlio che vagano in un mondo morto a causa di un qualche disastro nucleare, la terra ormai è incapace di creare frutti o far crescere qualsiasi cosa, niente colori, niente rumori se non quelli di una pioggia incessante e velenosa.
In questo scenario devastato intraprendono un viaggio che ha valenza diversa per ognuno di loro.
Per il padre (uno strepitoso Viggo Mortensen) è il suo modo di difendere il figlio dagli ultimi umani trasformatisi in bestie assetate di sangue, umani che mangiano altri umani sopravvissuti, un modo per raccontare al figlio come era il mondo prima che lui nascesse, per raccontargli della madre (Charlize Theron) omettendo la paura di lei di sopravvivere in quel nuovo ordine di cose, sparendo dalle loro vite.
Per il figlio (Kodi Smit-McPhee) tutto ha il sapore di una avventura come è giusto che sia alla sua età, nonostante la difficoltà della situazione riesce a trovare il proprio spazio, non ha rimpianti perché non conosce nulla di diverso ed il suo viaggiare è una scoperta anche quando non c’è nulla da scoprire.
Intenso e devastante questo film, mette a nudo ogni possibile paura insita nel nostro cuore, sia che esso sia cuore di genitore o cuore di ragazzo.
Un viaggio fatto con una pistola in tasca con solo due proiettili, ultimo atto d’amore del padre per il figlio la dove la speranza sia quella di non essere separati.
Non c’è margine, visione futura, non c’è progetto, ma proprio con questa visione claustrofobica il regista lascia uno spiraglio nelle ultime scene affidandosi al sogno del padre che l’umanità venga ritrovata e sia l’unica vera arma affidandone la ricerca proprio al figlio.
Il monologo iniziale è qualcosa di meraviglioso.
Il regista John Hillcoat utilizza una fotografia monocromatica sui toni del seppia per rendere l’idea della mancanza totale di vita, i dialoghi sono centellinati e le espressioni facciali sono un esercizio di bravura per i protagonisti.
Un asteroide ha impattato la terra, la dove è caduto si è sprigionata una onda d’urto che sta divorando ogni cosa sul suo cammino, solo dodici ore dividono il protagonista dalla fine.
Anche qui inizia un viaggio, che non è una fuga, non ci sono vie di fuga, ma è una ricerca forse del se, del proprio posto dove accettare l’ineluttabile.
Come per The Road ci viene mostrata una umanità che perde la propria umanità, scusate il gioco di parole ma rende l’idea del caos e dell’egoismo che travolge ogni cosa, anche il nostro protagonista inizialmente, sino a quando l’incontro con una bambina lo riporta a considerare le proprie azioni.
Attraverso il tentativo di aiutare la bambina a ricercare la propria famiglia, Valery riconsidera le sue scelte e ciò che si è lasciato alle spalle lungo la strada.
In dodici, disperate ore compirà la sua crescita interiore tornando indietro e scegliendo dove finire e con chi finire.
Il regista Zak Hilditch utilizza sapientemente una luce accecante, la sensazione che la terra bruci ancora prima che l’onda d’urto arrivi, alternando momenti caotici a momenti di perfetta quiete.
Due film che consiglio vivamente di vedere, scavano nel profondo e pongono mille domande alle quali forse non siamo pronti a rispondere, ma possono in qualche modo, essere uno sprone a calarsi nella realtà che ci circonda senza dare più nulla per scontato.
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