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Articolo a cura di...
~ MASSIMILIANO AITA
Avevo sei anni, sei anni e mezzo.
Portai a casa la prima pagella scolastica – confidando in un’accoglienza entusiastica da parte dei miei genitori.
Ricordo perfettamente la scena: mio padre che guarda il foglio mentre siamo a cena, me lo restituisce, zero commenti.
Un mancato riconoscimento, un trauma che tuttora porto con me.
Il bisogno di essere visto ha segnato e segna tutta la mia vita.
Da adulto, questo bisogno si è espresso nella necessità quasi spasmodica di trovare
l’amore o meglio di trovare qualcuno, chiunque che pronunciasse quelle due parole: “Ti
amo”.
Purtroppo, lo sappiamo tutti – quando cerchi di soddisfare in questo modo un bisogno,
rischi di accontentarti, di accettare compromessi al ribasso.
Perché tutta questa premessa?
Perché ieri sera, io e Tiziana Buccarella abbiamo visto Queer.
Un film che colpisce, che è un pugno in pieno petto, in cui ogni scena, ogni digressione
onirica ha un significato profondo finalizzato a sviluppare il percorso narrativo.
Cosa racconta Queer?
Il film di Guadagnino racconta, cercherò di spiegarlo senza eccessivi spoiler, una storia
d’amore omosessuale.
Un amore “diverso”, per così dire, sotto tanti profili.
E’ un amore tra due persone separate da età molto lontane tra loro, dalle disponibilità
economiche, dalla consapevolezza delle proprie preferenze sessuali.
Se infatti William Lee (nome di fantasia dietro il quale si cela effettivamente l’immenso
scrittore William S. Burroughs e tacerò su “Il pasto nudo” che meriterebbe una recensione a sé) incarna il prototipo del ricco americano nullafacente, omosessuale – per così dire – liberato, in Eugene Allerton ritroviamo o almeno io ho ritrovato molto del mio trascorso adolescenziale.
Giovane, di una bellezza intellettuale più che fisica (d’accordo, su questo accetto
obiezioni), interessato a sperimentare più che acquisire certezze.
Queer racconta la “relazione” tra questi due uomini.
O meglio racconta di come il protagonista si aggrappi con tutte le proprie forze alla vitalità del suo giovane amante.
L’amore di William Lee per Eugene è nello stesso tempo un innamoramento dell’amore e il necessario stravolgimento di una vita che stava precipitando verso la noia e
l’abbruttimento.
Ecco, questo particolare aspetto della vicenda (ossia amare per sconfiggere la noia del
quotidiano) ha risuonato a lungo dentro di me dopo uscito dal cinema.
Quanti di noi, nel corso della propria maturazione emotiva, hanno ceduto alla tentazione di lasciarsi coinvolgere in relazioni che apparivano una novità rispetto al succedersi uguale dei giorni.
A me, lo confesso, è accaduto spesso.
Ho mandato a monte almeno due relazioni per questo motivo: la ripetitività dei gesti, gli
obblighi assunti avevano creato una tale soffocante cappa che dovevo evadere.
Ed essendo, come William Lee, bisognoso di amore quanto un tossico alla ricerca di una dose mi infilavo in nuove relazioni.
Anche in Queer troviamo questa “assonanza” tra dipendenza da eroina e dipendenza
affettiva.
Una suggestione che ricorre per tutto il film e che spiega perché il protagonista accetta di ricevere solo briciole da Eugene.
Strano (o forse no) che io abbia usato la parola che rappresenta pure il titolo dello
spettacolo che porterò in scena a Lecce.
In realtà, nel film (così come nella drammaturgia oggetto di rappresentazione teatrale), il poco che William Lee riceve dal suo “alter ego” (le briciole appunto) incarna la progressiva dissoluzione dell’amor proprio del protagonista stesso.
Queer parla di anime perse che possono ritrovare la propria identità solo in un contesto
onirico in cui tutto ciò che desideriamo si realizza e le rende/ci rende appagati e, mein
Gott, felici.
Sino al risveglio dal sogno.
Sì, perché quando William Lee torna in questa dimensione che convenzionalmente
definiamo realtà, lo spreco inutile del proprio tempo, del proprio amore si palesa ai suoi
occhi con ancor più forza, ancor più devastante capacità distruttiva di un’anima pura e
sensibile.
Non abbiamo molte strade da percorrere noi che attribuiamo all’amore capacità
taumaturgiche di ben altre e più profonde mancanze.
Ci rimangono solo gesti estremi: sopprimere il nostro alter ego e dunque rinunciare ad
amare per sempre oppure continuare ad attendere che un qualche miracolo conduca a
noi, nuovamente, lei/lui/loro.
Così passa il tempo, così invecchiamo oppressi da un peso insostenibile.
Così alla fine moriamo.
In silenzio, in solitudine mentre là fuori il mondo reale continua a vivere – ignorandoci.
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