Recensione - \"C'era una volta in America\" di Sergio Leone, a cura di Massimiliano Aita

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Recensione a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

LO CAPISCI ORA COSA SIGNIFICHI PER ME?

(ANALISI DI UN UOMO INNAMORATO DEL FILM CHE RAPPRESENTA IL TUTTO)

Nel 1984 frequentavo i cinema più assiduamente di quanto faccia oggi.


Molto più assiduamente.


A quell’epoca avevi due alternative: praticare uno sport o dedicarti al cinema ed alla lettura.


Io ho sempre odiato la concretezza dello sport, il combattere per vincere.


Dentro di me sapevo di appartenere alla categoria dei Losers.


E d’altro canto se ti sei appena trasferito in un quartiere denominato Bronx, pensi che il destino ti abbia giocato un brutto scherzo.


Scusate, tendo a divagare quando parlo del “film”.


In realtà, tendo a divagare sempre.


Comunque.


Dicevo che nel 1984 andavo spesso al cinema.


Era fine settembre.


Lo ricordo bene perché mio nonno era appena morto.


Mi pareva brutto chiedere a mia madre (mio padre in sedia a rotelle per la sclerosi multipla era fuori gioco) di accompagnarmi a vedere un film in cui si vedevano scene di nudo, sparatorie.


Almeno così me lo avevano descritto i miei amici quel “film”.


Mi raccontavano di un racconto sulla mafia che però non era un racconto di mafia; mi parlavano di una specie di western che però non era un western.


Dovetti aspettare l’anno dopo e l’arrivo di una copia in quelli che allora si chiamavano cinema del “Dopolavoro Ferroviario” per vedere C’era una volta in America.


Dopo forse un quarto d’ora, la prima lacrima scivolò lenta lungo le mie guance.


Fat Moe aveva appena chiesto a Noodles cosa aveva fatto in tutti gli anni in cui non si erano visti.


De Niro aveva indirizzato lo sguardo verso un punto indefinito e aveva risposto con la più bella battuta mai scritta nella storia del cinema “Sono andato a letto presto”.


Vi rendete conto della magnificenza di una simile frase?


Apparentemente “Sono andato a letto presto” evoca, illustra e rappresenta l’ammissione di un fallimento esistenziale. Sono andato a letto presto perché nulla mi teneva impegnato.


“Sono andato letto presto” però ci apre un mondo fantastico; un mondo in cui noi immaginiamo tutto quello che può aver vissuto, sognato, pensato Noodles negli anni di forzata assenza da New York.

“Sono andato a letto presto” ha sempre costituito, per me, l’essenza stessa del cinema.


Raccontare con il silenzio; raccontare invitando lo spettatore a sognare.


Il sogno, già il sogno.


La dimensione onirica rappresenta una delle molteplici facce che rendono C’era una volta in America il capolavoro assoluto che tutti noi. No aspettate, chissenefrega del tutti noi. Il capolavoro che io reputo sia.


Il sogno di Deborah (sul quale tornerò), il sogno di emanciparsi dai bassifondi di New York, il sogno di avere una propria famiglia costituita dagli amici.


Tutto in C’era una volta in America ha una duplice chiave di lettura: c’è quello che accade e quello che noi immaginiamo sia accaduto.Chi ha preso la valigia con i soldi? Cosa è successo a Noodles negli anni di carcere?


Soprattutto ad una domanda cerco inutilmente di rispondere da quarant’anni (ed in questi ultimi mesi con maggiore intensità).


Perché?


Perché Deborah hai avuto un figlio con Max?


Solo chiudendo gli occhi e sognando posso immaginarmi cosa possa avere indotto la più bella creatura mai esistita sull’orbe terracqueo a cedere alle lusinghe di un manipolatore come Max.


Dicevo prima di Deborah.


Difficile parlare di Deborah quando hai recitato il monologo di Noodles alla donna che ami nel cortile del suo palazzo – rischiando l’irrisione e la

derisione di chi ti ha ascoltato.


Difficile soprattutto parlare di come sia stato possibile inserire dei riferimenti così precisi, puntuali e suggestivi al Cantico dei Cantici in un monologo.


I gigli. Mio Dio, i gigli.


Quale infinita poesia quando Noodles recita: “Mi dicevo: Deborah esiste, è la

fuori, esiste”.


Si Deborah esiste. Esiste per me, per ciascuno di voi, per tutta l’umanità.


Anche qui assistiamo ad una commistione efficace e suggestiva tra le caratteristiche reali del personaggio e quelle che Noodles, innamorato, le attribuisce.


Deborah, in fondo, è molto più simile a Max: una donna manipolatrice, una arrampicatrice sociale se vogliamo. Certamente Deborah appartiene al novero delle persone concrete, pragmatiche.


Ma Noodles la vede in modo diverso.


Noodles la vede con gli occhi di chi un giorno ha incrociato quello sguardo che se hai la fortuna di incontrarlo nella vita mica puoi dimenticarlo.


Lo sguardo di quello che io definisco l’Amore Assoluto.


Lo sguardo della persona cui sai che rimarrai legato per sempre.


Deborah è nello stesso tempo soggetto ed oggetto di desiderio carnale ma anche donna ideale, sublimata in un empireo celeste dove incontra il suo …


Scusate stavo divagando di nuovo.

C’era una volta in America però ha una caratteristica che lo distingue da altri film in cui lui ama lei ma non viene ricambiato etc.


C’era una volta in America ha una dimensione epica.


Vi ricordate il tizio cieco cui viene attribuita la scrittura dell’Iliade?


“Cantami, o Diva, del pelide Achille l'ira funesta” scriveva.


Ecco nel “film” si canta e si racconta un’epopea; l’epopea di alcuni ragazzi

nati ai bordi di periferia (si, Ramazzotti. Eh allora, avete qualcosa contro Ramazzotti?) che grazie ad inganni, strategemmi ed una buona dose di intraprendenza riescono ad affrancarsi da un destino che sembra segnato.


Cosa dite? Che sopra avevo parlato di uno scherzo del destino?


Uff, siete pignoli. Troppo pignoli.


Ed avete ragione.


Ecco, C’era una volta in America – almeno per quanto mi riguarda – ha prodotto nel mio animo un sentimento di totale identificazione.


Se Noodles, Max e gli altri ce l’avevano fatta, anche io potevo riuscirci.


Ed in effetti qualcosina ho combinato nella mia vita.


Excusatio non petita: ad oggi ho zero morti sulla coscienza.


Ritorno al tema dell’epopea.


Avete presente quando nelle lezioni di recitazione vi insegnano a respirare con il diaframma?


Prendete un respiro profondo e quando vi sembra di arrivare al limite andate oltre; un passo in più. Un altro piccolo respiro.


Ecco, il “film” ha questo stesso andamento: pensi di aver capito tutto, di essere giunto al climax e no.


Sbagliato.


C’è ancora un piccolo sviluppo in più.


L’esempio più chiaro e rappresentativo sta nel momento in cui Noodles va in stazione convinto di recuperare la valigia con i soldi.


Anche per gli spettatori è chiaro che siamo giunti alla fine, no?


Noi tutti abbiamo pensato: adesso prende la valigia, la apre, sorride mesto e The End.


Invece no.


Invece i soldi non ci sono, santa genoveffa.


Un altro esempio? Volete un altro esempio?


Facile.


Pensate a quando Noodles incontra Deborah a teatro.

Lei lo vede, impallidisce (lo so ha il cerone ma è uno sbiancare espressivo…siete sempre più pignoli. Che fastidio) e tutti noi pensiamo: ecco siamo arrivati al momento topico del film.


Immaginiamo che sarà Deborah a rivelare l’identità del senatore.


Ed invece è un altro incontro. Pochi secondi in cui Noodles intravede nella penombra la copia di Max giovane.


Se solo ci penso sento i brividi salire.


Gli stessi brividi che provo quando ricordo che Max, Noodles e gli altri non hanno origini italiane.


Trovo che questa sia stata un’idea che definire geniale appare riduttivo.


Parlare indirettamente e solo in quanto essenziale agli sviluppi narrativi di mafia senza rappresentarla attraverso i classici stereotipi dell’italo americano emigrato ha costituito, credo, una sfida ed anche un’opportunità.


Se Leone avesse immaginato un’accozzaglia di ragazzini italiani mai avrebbe potuto ricorrere all’ironia, alla rappresentazione della follia.


Non dimentichiamo che nel 1984 andava in onda su Rai 1 la prima stagione

de La Piovra.


Non dimentichiamo che nel 1984, in Italia, era da poco terminata la guerra di mafia che aveva portato il pazzo sanguinario di Riina a divenire il capo dei capi.


Ed allora, la scelta di illustrare un’epopea attraverso gli occhi degli irlandesi ha permesso a Leone di evitare il rischio di subire critiche, per così dire, etiche.


Che poi il “film” contiene anche un forte messaggio etico sull’amicizia, sull’amore, sul tradimento.


Il messaggio che un po'; muove ed ispira (ho detto ispira quindi evitate il ditino puntato per la serie: “Ma sei stato incoerente”) il mio agire: ogni azione ha un prezzo.


Un prezzo salato che prima o poi ciascuno dei protagonisti paga.


Noodles – ritrovandosi senza soldi e braccato – scappa.


Max – al centro di una inchiesta del Senato Americano – cerca la morte per mano dell’amico.


Deborah – attrice affermata – rivela la sua fragilità ed il suo reale ed effettivo “amore” per Noodles.


Proprio sul concetto di amore che C’era una volta in America trasmette vorrei soffermarmi in chiusura.


L’amore che il “film” rappresenta ha una dimensione universale, collettiva.

Deborah diviene “oggetto” del desiderio sia di Noodles che di Max perché l’amore deve portare gioia a tutti.


Nessuno può metterlo in un angolo (siii, sto citando); nessuno può confinare Deborah al ruolo di moglie di, ragazza di…


Lei incarna e simboleggia, come ho scritto sopra, l’Amore assoluto.

E questo Amore Assoluto rischiara, illumina e poi devasta le vite sia di Noodles che di Max.


Perché diciamoci la verità: davvero credete che Noodles si sia appropriato dei soldi per avidità?


Ecco.


Dovrei parlare della regia, della fotografia, della recitazione.


Servirebbero forse altre dieci pagine.


Due parole però su regia e recitazione DEVO scriverle.


Leone era perfettamente consapevole di aver realizzato un capolavoro.


C’era una volta in America costituisce il suo Megalopolis.


Solo che, solo che Leone ha (dovrei scrivere aveva lo so ma io lo immagino

qui, davanti a me) un magnetismo incredibile.


La sua capacità di dirigere gli attori si manifesta quasi in ogni scena.


Nessuno e dico nessuno compie un gesto che sia anche solo lontanamente fuori posto.


Soprattutto (e lasciatemelo dire con stupore) gli attori bambini.


Nei loro volti si sussegue una gamma di espressioni , che oscillano tra l’intensità e la gravità del dramma e l’incoscienza che anima chi si affaccia alla vita.


Talento certo ma il talento senza qualcuno che lo indirizza spesso evapora.

Invece Leone ricava delle scene corali memorabili come quella dell’agguato da parte del loro avversario per il controllo del racket.


La rabbia di Noodles nel momento in cui lo accoltella per vendicare la morte dell’amico è vera, autentica.


Come vero ed autentico è Max con gli occhi aperti, sgranati nello stesso momento.

Forse è qui che Max comprende la grandezza di Noodles e comincia ad amarlo-odiarlo.


Perché Noodles è ciò che Max non potrà mai essere: coraggioso.


Vorrei soffermarmi ora sui due protagonisti principali: Noodles e Max.


Possibile che un attore raggiunga la perfezione? O meglio esiste la perfezione attoriale.


Bene, la risposta sta nell’interpretazione di De Niro in questo film.


Appassionato, innamorato, dolente, sorpreso, amareggiato, deluso.


In sintesi: un uomo che la vita ha sconfitto; un uomo cui la vita ha tolto tutto: gli amici, la donna amata, i soldi.


Un predestinato cui il destino però ha serbato alcuni scherzi.


Nonostante, ciò l’atteggiamento di De Niro di fronte a Max divenuto

senatore è quello che noi tutti vorremmo avere di fronte al nostro peggior nemico.


E’ quello che Francesco Ferrucci ebbe di fronte a Maramaldo: “Tu uccidi un uomo morto”.


Ecco De Niro è già morto e non asseconda la richiesta di Max proprio per questo.

Chi muore dentro congela l’anima e vive solo di ricordi.


Ed ai ricordi non si rinuncia.


Max si palesa da subito come l’antieroe, il truffatore, il manipolatore.


E queste sue caratteristiche vengono portate da James Woods ad analogo

livello di perfezione rispetto a quanto fa De Niro con Noodles.


Max vuole farsi il mondo (si, Tony Manero, si) perché solo il mondo può appagare l’ego narcisistico che ne caratterizza la personalità.


Per arrivare in vetta però devi calpestare tutto e tutti; non devi lasciarti condizionare dai sentimenti.


Mai. Nemmeno quando ti stanno per uccidere.


Se prestate attenzione al dialogo tra De Niro e Woods in chiusura di film, Max non porge mai le proprie scuse.


Perché lui gioca a fare Dio.


No. Ho sbagliato: LUI E’ DIO.


E Dio mica chiede scusa ad Abramo quando gli ordina di uccidere Isacco.


Max-Dio usa o pensa di poter usare il risentimento di Noodles per ottenere la propria libertà.


Woods consacra questo obiettivo in una frase: “Ti ho rubato la vita”.


Una frase pronunciata senza dolore; una constatazione obiettiva

dell’accaduto.


Purtroppo, la scalata al successo di Max lo ha portato, così sembra al termine del colloquio infruttuoso con Max, a dimenticare uno dei “canoni” che lui e Noodles avevano posto quale fondamenta della propria “associazione”: mai dipendere dagli altri.


Ma non è così. Max ha forse progettato per sé un finale alternativo.

D’altronde LUI E’ DIO.


Lascio per ultima Jennifer Connelly ossia Deborah da piccola.


Giuro che quando la vidi sullo schermo la prima volta pensai: ecco io mi sposerò con una donna come lei.


Bella oltre ogni immaginazione, affascinante come solo una creatura

cantata nelle sacre scritture può esserlo.


Soprattutto una ragazza determinata, decisa.


La Deborah di Jennifer, secondo me, dovrebbe rappresentare una delle icone femminili di questo inizio di millennio.


Mai doma, mai piegata, soprattutto mai asservita al ruolo di comprimaria dei bisogni o dei desideri degli uomini.


Si, io sposerò una donna come quella.


Ho ancora venticinque anni davanti.


Verona, 24.12.2024

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