Quando l’Animazione ispira il cinema Live Action: quattro registi e le loro fonti animate

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~ LA REDAZIONE DI RC

Tutto nasce da una domanda...

C'è stato un film di animazione che ha ispirato un regista di film live action, per quanto riguarda lo stile dei personaggi, lo stile delle ambientazioni, o lo stile del racconto?

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C’è una cosa che spesso dimentichiamo: l’animazione non è un genere, è un linguaggio. E in quanto linguaggio, può influenzare qualsiasi altra forma di espressione cinematografica, compreso il cinema live action. Anzi, negli ultimi trent’anni, alcuni dei registi più riconoscibili hanno preso in prestito, a volte in modo evidente, altre in maniera più sottile, elementi visivi, narrativi o simbolici dal mondo dell’animazione. Non si tratta solo di estetica, ma di un vero e proprio modo di raccontare, di costruire ambienti, di dare corpo e voce a personaggi che spesso sfidano le regole del realismo.

In questo articolo esploriamo quattro casi emblematici, in cui l’animazione ha avuto un ruolo chiave nell’ispirare opere cinematografiche live action: Guillermo del Toro, Wes Anderson, Quentin Tarantino e James Cameron.

Guillermo del Toro e lo spirito di Miyazaki

Guillermo del Toro è un regista con un’immaginazione visiva fuori dagli schemi, e chi ha visto anche solo un paio dei suoi film lo sa bene. Ma se c’è un autore che ha davvero inciso sul suo modo di costruire mondi e personaggi, questo è Hayao Miyazaki. Del Toro ha spesso dichiarato la sua venerazione per l’autore giapponese, in particolare per "La città incantata" (Spirited Away), un film che ha lasciato un segno profondo sul regista messicano.

L’influenza è evidente in “Il labirinto del fauno” (2006). Qui c’è una bambina, Ofelia, che si rifugia in un mondo magico per fuggire alla brutalità della guerra e della realtà. Esattamente come Chihiro in "La città incantata", anche Ofelia affronta prove, incontra creature fantastiche e deve imparare a muoversi in un mondo che segue logiche non sempre razionali, ma cariche di significato simbolico. L’ambiguità morale dei personaggi, la commistione di elementi fiabeschi con la crudezza della realtà e l’approccio visivo quasi pittorico sono tratti in comune che collegano direttamente Del Toro a Miyazaki.

E c’è un’altra cosa: l’attenzione per i dettagli nei mondi fantastici. Del Toro, come Miyazaki, non si limita a costruire “mostri” o “creature”, ma dà loro una mitologia, un’esistenza. Sono entità vive, con una storia alle spalle. È proprio questa sensibilità – che spesso troviamo nei film d’animazione giapponesi – ad aver trovato casa anche nel suo cinema.

Wes Anderson e la grammatica della stop motion

Wes Anderson ha un modo di fare cinema che già di per sé sembra uscito da un film d’animazione. I suoi mondi sono geometrici, simmetrici, ordinati fino all’ossessione. Ma questa estetica non è solo una scelta visiva: è un modo per controllare il ritmo, la narrazione, e perfino le emozioni dei suoi personaggi.
E non è un caso che due dei suoi film siano realizzati interamente in stop motion: “Fantastic Mr. Fox” (2009) e “L'Isola dei cani” (2018). Quello che è interessante, però, è che anche i suoi film live action – da “Moonrise Kingdom” a “Grand Budapest Hotel” – sembrano seguire le stesse regole. Anderson prende a prestito dall’animazione non solo la composizione dell’inquadratura, ma anche la gestione del tempo, delle transizioni, e perfino dei movimenti dei personaggi. Molti suoi personaggi, infatti, sembrano quasi “animati” anche quando sono interpretati da attori in carne e ossa: muovono gli occhi e le mani in modo ritmico, parlano con cadenze calibrate, come se fossero doppiati anziché realmente presenti.

Tra le sue fonti dichiarate c’è il lavoro di Jiří Trnka, maestro ceco della stop motion, e quello di Ray Harryhausen, pioniere degli effetti speciali in animazione: costruire mondi che funzionano come orologi narrativi, dove tutto è al proprio posto e ogni gesto ha un significato.

Quentin Tarantino e l’impatto degli anime

Chi conosce bene "Kill Bill: Volume 1" (2003) sa già dove stiamo andando a parare. La sequenza che racconta il passato di O-Ren Ishii è realizzata interamente in stile anime, con sangue a fiotti, inquadrature dinamiche e una carica emotiva fortissima. È una dichiarazione d’amore. Tarantino è cresciuto con gli anime giapponesi, in particolare con quelli più crudi e violenti come "Golgo 13" e "Violence Jack". Questi prodotti non avevano paura di mostrare il sangue, di raccontare storie di vendetta, traumi infantili e violenza psicologica. E tutto questo lo ritroviamo in Kill Bill: nel personaggio della Sposa, nella rappresentazione della violenza come forma di catarsi, e nel modo in cui i combattimenti sono coreografati con una logica quasi “fumettistica”. Anche la struttura narrativa prende a prestito dal mondo degli anime. Ogni personaggio che la Sposa affronta è come un boss di fine livello, con il proprio background, la propria estetica, le proprie regole. La vendetta è costruita come una “scalata”, e ogni confronto diventa un duello con un’identità ben definita, come succede spesso negli anime.

James Cameron e il mondo post-apocalittico di “Akira”

Quando James Cameron ha cominciato a lavorare come produttore e sceneggiatore su “Alita: Battle Angel”, aveva già dichiarato da tempo la sua ammirazione per "Akira" (1988) di Katsuhiro Otomo. Quel film ha segnato una generazione di cineasti occidentali, e Cameron è uno dei pochi ad averne assorbito davvero la grammatica.

“Akira” è una riflessione sulla mutazione del corpo, sull’identità individuale in un mondo tecnologicamente degradato, e sulla violenza come linguaggio dominante. E questi temi ritornano in “Terminator 2”, “The Abyss”, “Avatar”, e soprattutto in Alita. Cameron riprende da Otomo il design delle città – caotiche, sovraffollate, illuminate da luci al neon – ma anche il senso di disorientamento e la tensione tra il corpo umano e la macchina. In “Akira”, il corpo di Tetsuo muta fino a perdere ogni forma. In “Alita”, il corpo è un campo di battaglia tra ciò che siamo e ciò che potremmo diventare. E ancora una volta, si torna alla lezione dell’animazione: la libertà di rappresentare l’irrapresentabile, di dare forma a trasformazioni che nel cinema live action tradizionale sarebbero quasi impensabili.

In tutti questi esempi, l’animazione non è una fase “infantile” da cui il cinema deve emanciparsi. Al contrario, è un serbatoio ricchissimo di linguaggi, visioni e strutture narrative che continuano a nutrire il cinema in carne e ossa.

È come se i registi di oggi fossero cresciuti in un mondo dove Akira Kurosawa e Hayao Miyazaki occupano lo stesso scaffale mentale. Dove non c’è più una distinzione netta tra “film veri” e “cartoni animati”, ma solo tra buone idee e idee pigre.

E il fatto che un film animato possa influenzare un blockbuster da milioni di dollari o un’opera d’autore premiata a Cannes ci dice una cosa semplice: l’animazione è cinema, punto. E forse è il cinema che riesce ancora a sorprendere davvero.

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