Dialogo - Alex e Brad in \"La lista dei miei desideri\"

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Articolo a cura di...


~ LA REDAZIONE DI RC

La lista dei miei desideri

Partiamo da quella premessa che funziona un po' come chiave d’accesso all’universo del film: tutti abbiamo messo da parte dei sogni. Ed è proprio lì che La lista dei miei desideri, disponibile su Netflix dal 28 marzo, ci prende per mano. Non per dirci che è tutto possibile, ma per ricordarci che a volte basta solo riprendere in mano un vecchio quaderno per riscoprire chi volevamo diventare.


Alex Rose (Sofia Carson) è una donna che vive a New York, lavora, ha una routine, ha dei doveri… ma non ha più sogni. O almeno, così sembra. Dopo la morte della madre Elizabeth (Connie Britton), Alex si ritrova in un momento di sospensione emotiva: tutto le appare distante, piatto, e soprattutto lontano da quella ragazza piena di energia e speranze che era da adolescente. Ed è proprio sistemando casa che riemerge quel foglio. Una lista scritta da lei stessa anni prima, piena di desideri semplici, folli, teneri, ingenui. Desideri che aveva dimenticato. O peggio: archiviato. In quella lista c’è il cuore della storia.


Scopre, però, che sua madre conosceva quella lista. E che, prima di morire, l’ultimo desiderio che aveva espresso era quello di vedere sua figlia felice. Non sistemata, non realizzata secondo gli standard, ma felice.


I momenti-chiave della lista: più che sfide, sono frammenti d’identità


Esibirsi in un open mic in un comedy club la mette davanti alla sua paura più grande: esporsi. Ma è anche lì che scopre che mostrarsi per come si è davvero può diventare una forma di forza, e non di debolezza.

Condurre una lezione in un rifugio per donne è forse uno dei momenti più toccanti del film: il contatto con le storie delle altre donne le insegna che la vita non è fatta per essere vissuta da soli, e che l'empatia è una delle forme più autentiche di cambiamento.

Una sfida a basket con uno sconosciuto? Il piacere dell’imprevisto, la leggerezza che spesso dimentichiamo di concederci. Lì Alex si ricorda di quando non pianificava tutto, ma si buttava.

Partecipare a un evento benefico, dove incontra una donna che la ispira profondamente, è l’occasione per capire che guardare avanti non significa rinnegare il passato, ma integrarlo.

A supportarla nel percorso ci sono i fratelli (Dario Ladani Sanchez e Federico Rodriguez), figure affettuose e presenti che le ricordano l’importanza delle radici. E c’è Brad (Kyle Allen), l’avvocato che inizialmente osserva la lista con scetticismo ma che, pian piano, ne rimane coinvolto. Il loro rapporto cresce in maniera naturale, senza forzature, diventando una delle colonne emotive del film.


Ma il legame più forte è quello con la madre. Nonostante Elizabeth sia fisicamente assente per tutta la narrazione, la sua presenza è viva in ogni scelta di Alex. È lei a innescare la miccia, a renderle possibile questo viaggio, anche da lontano.

La lista dei miei desideri parla di riconciliazione con sé stessi. Di quel momento, spesso silenzioso, in cui ci si guarda allo specchio e ci si chiede: “Ma è davvero questa la vita che volevo?”. Il regista Adam Brooks lo fa alternando toni da commedia romantica a momenti più intimi e riflessivi, usando New York non come semplice sfondo, ma come metafora: una città piena di stimoli, ma anche piena di solitudine.

Il dialogo

Brad: Kyle Allen

Alex: Sofia Carson


Brad: Che stai facendo?

Alex: Cosa pensi che faccia? E perché non hai risposto alle mie chiamate? Volevo chiederti scusa.

Brad: Ok, scuse accettate. E ti chiedo scusa anche io, non serviva ammaccarmi l'auto.

Alex: Possiamo entrare? Devo parlarti.

Brad: No, non credo sia una buona idea.

Alex: Ma...

Brad: Davvero, non credo sia una buona idea dopo tutto quello che è successo. Mi... mi dispiace ma ... fare pace e tornare a essere amici? No, non se ne parla neanche.

Alex: Ma non ho detto di voler essere tua amica.

Brad: Aahah, ok... allora questione chiusa. Notte.


Fa per andarsene.


Alex: Voglio qualcosa di più. Cioè, molto di più.

Brad: L'ultima volta non volevi questo.

Alex: Forse si, ma ero troppo confusa per rendermene conto e... forse avevo solo bisogno di pormi alcune domande importanti. Quattro, per la precisione. (Legge al cellulare)

Brad: Le hai scritte?

Alex: Uno: lui è gentile? Intendo, te. Non c'è dubbio. Tu sei come un cucciolo, potresti essere un labrador retriver.

Brad:Ne avevo uno quando ero piccolo.

Alex: Due: Posso dirgli tutto quello che ho nel cuore? Ma certo. Ti ho raccontato tutto senza censure fin dal primo giorno in cui ci siamo incontrati. Tre: mi aiuta a diventare la versione migliore di me stessa? Beh, questo è sicuro. Credi che avrei avuto qualche chanche di superare quest'ultimo anno se non ci fossi stato tu? Di fare tutto questo, senza di te?

Brad: E la quarta domanda?

Alex: (legge a mente, è una domanda sull'essere padre dei suoi figli) Non importa. L'importante è che la risposta sia si, quindi... ok. Quattro su quattro.

Brad: E ora che succede?


Brad e Alex si baciano.


Alex: Uao, è vero ciò che si dice. I soci a pieno titolo baciano molto meglio.

Brad: Facciamo tutto meglio.

Alex: Si, è vero.


Si baciano di nuovo.

Analisi dialogo

Questo dialogo tra Denise Cosco e Carmine Venturino è uno dei momenti più crudi e dolorosi di The Good Mothers. Inizia a far esplodere il sospetto su quello che è successo a Lea, ma perché mette a nudo la dinamica più ambigua e disturbante dell’intera serie: l’amore (o la dipendenza) tra vittima e carnefice, tra bugia e bisogno. Qui c’è il conflitto tra il bisogno di sapere e la paura di scoprirlo. E in mezzo, Carmine, che si muove come una figura ambigua e pericolosa, ma anche tremendamente umana. Andiamoci dentro.


C: “Tanto lo sai perché sono qua no?”

Carmine entra in scena con una falsa leggerezza, come se tutto fosse chiaro, come se tra loro ci fosse ancora un’intesa. Ma questa frase ha un doppio fondo inquietante: è vero, Denise lo sa perché lui è lì — è lì per portarla via, per fare da emissario del padre. Non per lei.

C: “Senti, io mi sa che vado a ballare. Che fai, vieni con me?”

Tentativo superficiale di normalizzare l’assurdo. Carmine si comporta come se fossero due ragazzi che devono andare a una festa, ma il contesto è carico di tensione. È un gioco psicologico: cerca di riportare Denise sotto controllo attraverso la normalità apparente. Ma Denise ha ormai superato il limite.


D: “Perché non te ne vai a fanculo, invece?”

Frase tagliente, liberatoria, che rompe il gioco. Denise non ci sta più a fingere. Questo insulto segna la frattura definitiva: lo ama? Forse. Ma non si fida più. La rabbia la protegge dalla paura.

C: “Ma perché mi parli così? Ti pare giusto?”

Carmine passa subito alla parte della vittima. È un classico meccanismo manipolatorio: sposta il focus da ciò che ha fatto o sta coprendo, a come lei gli sta parlando. Tipica strategia per confondere, far sentire in colpa. Ma Denise ormai vede chiaro.

C: “Tuo padre vuole che vai alla festa… mi ha mandato a prenderti.”

Ecco la verità nuda: Carmine è il tramite del potere patriarcale. Non è lì per Denise, ma per il padre di Denise. E lo dice senza accorgersi di quanto sia terribile. Denise è un oggetto da esibire, un “trofeo” da portare alla festa. È “bella vestita”, ma solo per essere vista. Non per essere.


D: “Deve strozzarsi con la mia torta di compleanno.”

Il rancore di Denise esplode in questa frase. È una ragazza ferita, disillusa, tradita, che usa il sarcasmo per canalizzare la rabbia. La torta — simbolo della festa, della famiglia, dell’affetto — diventa un augurio di morte. Niente più affetto. Solo veleno.

C: “Però che cazzo Denise, eh! Tu non hai capito proprio niente!”

Qui Carmine perde la calma. Smette di fingere, esplode la frustrazione del gregario, dell’uomo che è dentro una macchina più grande di lui e che sta cercando disperatamente di non perdere il controllo. Ma anche di chi si sente tradito emotivamente, perché forse — in un modo contorto — ci teneva davvero.

D: “Che fa, ammazza pure te?”


È una provocazione enorme. Denise mette in dubbio la fedeltà cieca di Carmine, lo chiama a scegliere. E Carmine reagisce in modo violento:

C: “Sciacquati la bocca, và… Sciacquati la bocca!”

Questo è il momento in cui Carmine si rivela davvero. Non è più il ragazzo, l’innamorato. È un soldato della famiglia. E come tale, reagisce con rabbia rituale: Denise ha pronunciato il nome del padre invano, ha infranto il tabù. E lui, senza neanche saperlo, diventa il suo carnefice.

D: “Che hanno fatto a mia madre?!”

Ecco la vera domanda. Tutto il dialogo porta qui. Denise sa. Forse non ha le prove, ma ha la sensazione corporea, istintiva, che sua madre non è scappata. E che chi le sta davanti sa esattamente cosa è successo.


C: “Andiamo alla festa.”

È una fuga. Una non-risposta. Un tentativo patetico di tornare indietro, di chiudere tutto sotto un tappeto. Ma ormai è troppo tardi.

D: “Che è successo alla sua valigia? Ai suoi vestiti?”

Denise ha messo insieme i pezzi. Il corpo non si trova. Ma ci sono dettagli — la valigia nella macchina, i vestiti spariti — che gridano assenza. La domanda non è più “dove è andata?” ma “chi ha fatto sparire le tracce?”


C: “Che cazzo gli devo chiedere io a Carlo?!”

Carmine perde ogni filtro. Il suo panico sale. E in questo panico c’è la verità. Non può chiedere nulla a Carlo perché sa già la risposta. E sa che non si chiede mai nulla a Carlo Cosco.

D: “L’ha uccisa lui. Dillo.”

Denise si spinge oltre. È una richiesta di verità, ma anche un’implosione emotiva. Non è più rabbia. È bisogno di sapere. Di dare un nome al vuoto.

C: “Non sai di che cazzo stai parlando…”

Carmine qui mente. Ma è una bugia debole, esausta, detta senza convinzione. Il tono non è più arrabbiato: è sconfitto. E questa esitazione è una mezza conferma.

D: “Io dico quello che mi pare e piace.”

È il momento in cui Denise si libera. Prende voce, si autodetermina. Non ha più paura. È una frase che in bocca a una ragazza cresciuta in quella famiglia, in quel sistema, vale come una rivoluzione.


C: “No, tu non dici quello che ti pare e piace! Non puoi dire la prima cosa che ti passa per la testa, non funziona così!”

Ecco il ritorno del patriarcato. Carmine non regge la libertà di Denise. Le urla addosso le regole del sistema. Ma non per farla stare zitta: per proteggerla (secondo lui) dalle conseguenze. Perché dire certe cose, in quel mondo, equivale a condannarsi.

C: “Vieni con me… perché te lo sto chiedendo io.”

Ultimo tentativo, l’unico sincero. Carmine qui parla da Carmine, non da emissario, non da figlio di clan. Chiede, non ordina. Forse l’ama, forse ha paura, forse vuole solo non stare da solo con la sua colpa. Ma Denise, in quel momento, ha già scelto.

Questa scena è l’esatto confine tra l’amore e la consapevolezza. Denise vede, capisce, si ribella. Carmine si aggrappa, barcolla, si espone. Il potere che aveva su di lei — fatto di affetto, presenza, normalità — si sgretola davanti alla verità.

È un momento teso, vivo, dove il linguaggio è spezzato, nervoso, incostante. Una scrittura asciutta, senza retorica. Vera.

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