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~ LA REDAZIONE DI RC
La settima stagione di Black Mirror è un ritorno al cuore stesso della serie: una riflessione (amara, inquieta, a tratti dolorosa) su un futuro che non sembra poi così distante, e che parla molto più del nostro presente di quanto vorremmo ammettere. Dopo il passo falso del sesto ciclo, che flertava troppo con il paranormale e con una vena retro poco in linea con l’anima high-tech della serie, Charlie Brooker riporta la narrazione dentro coordinate più familiari: distopie possibili, ansie contemporanee e una tecnologia che evolve più in fretta della nostra capacità di comprenderla e gestirla.nQuesta settima stagione è meno "avveniristica" nel senso sci-fi classico e più ancorata a un futuro molto prossimo, che potremmo tranquillamente vedere fra cinque anni, massimo dieci. I sei episodi sono tutti autoconclusivi, come da tradizione, ma per la prima volta si percepisce un’anima più sentimentale, quasi umanista. Non si parla solo di tecnologia, ma di come essa si intrecci con le emozioni, con i legami, con la memoria e l’identità personale.
Se c’è un tema dominante, è il prezzo del progresso. Ma non un prezzo metaforico o etico: proprio il prezzo in senso economico. Gli abbonamenti digitali, le clausole nascoste, le versioni freemium della vita stessa. E la domanda più disturbante non è “quanto siamo disposti a pagare?”, ma “cosa accade quando non possiamo più permettercelo?”.
1. Common People
È l’episodio manifesto della stagione. La distopia è lucida e concreta: il backup digitale della coscienza come abbonamento mensile. Ma la potenza del racconto non sta nella tecnologia in sé, bensì nella lentezza del suo deterioramento e nell’inflessibilità del sistema che la gestisce. Amanda diventa un software a pagamento. Mike, l’uomo che la ama, guarda la donna che conosceva diventare una versione sempre più limitata, sempre più “trial”. Chris O’Dowd è devastante nel rendere il senso di impotenza di fronte a un sistema che non si può combattere, solo subire. È Black Mirror nella sua forma più pura: un dramma umano con un contesto tecnologico spietato.Tema chiave: monetizzazione dell’esistenza – e la disumanizzazione mascherata da progresso.
2. Bête Noire
Una rivisitazione in chiave distopica del confronto tra vittima e carnefice, in un setting che flirta con il concetto di realtà alternative. La tensione qui non deriva tanto dalla tecnologia, quanto dalla paranoia, dal non sapere se quello che accade è vero o solo percepito. L’episodio è un interessante studio sul potere e sulla memoria, su chi detiene il controllo della narrazione. E sul desiderio, spesso sottovalutato, di rivincita sociale. Tema chiave: riscrittura del passato e vendetta emotiva, con uno sguardo malato sull’apparenza.
3. Hotel Reverie
Una delle puntate più ambiziose, visivamente e concettualmente. Un film classico viene “abitato” da attori digitali, con risultati che sfiorano la malinconia di Her e la nostalgia cinefila di The Artist. Ma il tema vero è quello dell’autenticità in un mondo in cui ogni emozione può essere programmata. Può un amore nato da un copione essere reale? L’episodio non trova una risposta chiara – e va bene così. Tema chiave: l’illusione dell’autenticità nei mondi sintetici. E il bisogno umano di crederci lo stesso.
4. Come un giocattolo
Il più anomalo della stagione, quasi un horror psicologico travestito da retro game. Lì dove ci si aspetterebbe nostalgia, Brooker tira fuori un senso di colpa generazionale. I nerd degli anni ‘90, creatori di mondi, diventano oggi figure ambigue, cariche di traumi e contraddizioni. Il Tamagotchi come metafora della responsabilità verso le intelligenze artificiali che abbiamo creato. E l’umano, ancora una volta, si rivela il vero mostro. Tema chiave: responsabilità creativa, abuso tecnologico, e la crudeltà connaturata all’essere umano.
5. Eulogy
Un racconto che parte come una riflessione sul lutto ma vira verso un territorio più ambiguo: quello della memoria falsata. Paul Giamatti è struggente nel dare voce a un uomo che si aggrappa ai ricordi per non affondare, mentre lo spettatore viene lentamente spinto a dubitare della verità di quei ricordi. Cosa ricordiamo davvero? E cosa invece scegliamo di ricordare per proteggerci? Tema chiave: soggettività della memoria e illusione terapeutica della tecnologia.
6. USS Callister: Into Infinity
Il primo vero sequel della serie – e una scelta audace. Brooker decide di espandere l’universo narrativo di USS Callister, ma lo fa con intelligenza: anziché ripetere lo schema del primo episodio, mette in scena un conflitto etico tra due visioni opposte dell’individuo: si può cambiare, o restiamo sempre uguali? Il tono resta quello di una space-opera satirica, ma il cuore dell’episodio è profondamente filosofico. Tema chiave: identità, rieducazione e redenzione, nel contesto di una simulazione senza regole.
Questa settima stagione non inventa nulla di nuovo, ma torna a porre domande scomode con una lucidità narrativa che mancava da un po’. Il futuro immaginato non è fatto di robot o navicelle spaziali, ma di contratti, abbonamenti, backup digitali, simulazioni cinematografiche e videogiochi che assomigliano fin troppo alla nostra vita reale.
Verity: Rosy McEwen
Maria: Siena Kelly
Verity: Vieni fuori. Devo chiamare la polizia?
Maria: Esce fuori da sotto il letto.
Verity: Immaginavo che fossi tu.
Maria: Ho preso il tuo coso del cazzo. Il tuo cazzo di ciondolo.
Verity: Non funziona con te. Riconosce l’impronta.
Maria: Questo cambia le cose, non è vero? Tu dici una cosa, smanetti con questo, e poi in qualche modo, la realtà cambia.
Verity: Come fa quel cosino a cambiare la realtà? E’ solo un telecomando. Connesso al compilatore quantistico qui sotto. E’ quello che cambia la realtà. Sul serio, è solo un telecomando, ne ho tanti altri, e tecnicamente non cambia nulla, risintonizza solo le tue frequenze corporee a una delle realtà parallele dove qualsiasi cosa io dica è sempre stata vera. Esistono diverse linee temporali. Scelgo quella in cui tu sei l’unica a sapere che cosa succede, così puoi sentirti davvero… speciale. Ho costruito io il sistema. La secchiona di informatica. Cambio anche piccole cose, tipo che oggi hai una maglietta rossa invece che gialla. Oppure che hai sempre parlato cinese,
Maria Parla cinese.
Verity: O possiamo continuare a parlare in ufficio. O riportare tutto com’era.
Maria: Sei una stronza bastarda!
Verity: E’ molto figo, però, vero?
Maria: Non sto capendo nulla!
Verity: Non mi importa se non lo capisci. Lo faccio per ferirti. E’ quello che conta.
Maria: Perché?
Verity: Lo sai perché.
Maria: Non lo so.
Verity: Chi mise in giro quella voce. Su di me e il signor Kendrick.
Maria: Cosa?
Verity: Da chi partì la bugia…
Io… non lo so.
Verity: Continui a mentire anche adesso. Natalie Kane mi ha detto che eri stata tu. Subito prima di saltare, ha fatto il tuo nome. Mi ha mentito?
Maria: No.
Verity: Dimmi perché.
Maria: Non lo so. Io… forse… ero invidiosa. O… forse volevo che Natalie la smettesse di tormentare me. Lo avevo detto solo come battuta. Lei lo ha preso sul serio. E poi.. e poi tutti gli altri le andarono dietro.
Verity: Si, al punto che diventò realtà! Al punto che quella stramba mungitrice non poteva più difendersi, poteva solo subire. Mentre tutti le davano della pazza! Che storia triste, non è vero.
Maria: Tu puoi usare quel coso per fare tutto quello che vuoi. Puoi fare in modo che quella roba non conti più nulla. Puoi diventare…
Verity: Imperatrice dell’Universo?
Maria: Si!
Verity: Cioè, potrei essere imperatrice dell’Universo? Venerata da accoliti. Si, si è la prima cosa che ho fatto. Non lo nego. E’ stato fantastico. Per un pò. Ho fatto tutto… Sono stata tutto. Ma qualsiasi cosa faccia, tutta quella roba è ancora… è ancora tutta lì. E… fa ancora male. Quindi eccomi qui, a riparare il danno. In cerca di pace. Natalie è crollata dopo cinque settimane. Con te sono bastati cinque giorni. Come pensi che lo farai? Lei è saltata, ma tu non sei il tipo. Forse più da polsi. Oppure… (Mima il gesto della corda).
Il dialogo tra Verity e Maria in Bestia Nera è il nucleo emotivo e concettuale dell’intero episodio. È il momento in cui la vendetta si svela per quello che è: non un atto di giustizia, ma un tentativo disperato di guarigione. In questa scena, la tecnologia passa in secondo piano. Il vero motore del conflitto è il trauma. Un trauma che affonda le radici in una bugia adolescenziale, in una cattiveria detta quasi per scherzo, che si è trasformata in una condanna sociale, psicologica, esistenziale.
Verity, ex emarginata diventata padrona della realtà tramite una tecnologia quantistica, affronta Maria, l'ex compagna che ha contribuito a rovinarle la vita. Ma non è solo una resa dei conti. È una confessione travestita da minaccia. È il momento in cui Black Mirror ci mostra quanto il dolore possa sopravvivere al tempo, anche quando si ha il potere di riscriverlo.
Verity non è sorpresa. È fredda, lucida. Sa che Maria sta cercando di capire, di reagire. Ma non la teme. Perché non si sente minacciata da chi ha già sconfitto, almeno sul piano intellettuale e narrativo. Questo tono distaccato è il primo segnale di asimmetria totale: Verity ha il potere, Maria no. È come se l’intera scena fosse già accaduta mille volte nella testa di Verity. Sta solo aspettando che anche Maria se ne renda conto.
“Tu dici una cosa, smanetti con questo, e poi in qualche modo, la realtà cambia.”
Maria è confusa, ma comincia a intuire. Sta cercando di dare senso a un’esperienza che sfugge alla logica. È lo spettatore dentro la storia. Lei rappresenta noi, nel momento in cui la fantascienza diventa disturbo percettivo. Il suo sconcerto è centrale: ci ricorda che, se la realtà può essere modificata a piacere, non c'è più alcuna possibilità di fidarsi di ciò che si vive.
“Risintonizza solo le tue frequenze corporee a una delle realtà parallele dove qualsiasi cosa io dica è sempre stata vera.”
Verity qui non sta spiegando la tecnologia. Sta spiegando il meccanismo della vendetta perfetta: scegliere un mondo in cui la tua versione dei fatti è legge. Dove non devi più convincere nessuno, perché hai già vinto. È il potere supremo: non quello di creare, ma di selezionare la realtà che più ti fa comodo. E Verity lo usa con freddezza chirurgica. Non per dominare, ma per ferire nel modo più sottile e mirato possibile.
“Non mi importa se non lo capisci. Lo faccio per ferirti. È quello che conta.” Questa è la frase che cambia tutto. Verity non cerca più vendetta, vuole far sentire il dolore che ha provato. È un’ammissione trasparente e brutale: l'empatia è fuori dal gioco. Non le interessa essere capita. Vuole che Maria senta. In quel momento, la tecnologia non è che un'estensione del dolore. Una forma di linguaggio che bypassa la logica e colpisce direttamente la psiche.
“Da chi partì la bugia?” La scena vira dal presente al passato. L’episodio si piega su se stesso. Tutto ciò che vediamo, ogni manipolazione, ogni realtà alternativa, nasce da una singola frase sussurrata con cattiveria. Una bugia detta per farsi accettare, che si è trasformata in una condanna per un’altra persona. Verity cerca una spiegazione, ma sa già che non potrà mai esserci una risposta soddisfacente. Perché il danno è stato fatto, e ha superato di molto l’intenzione iniziale.
“Sei una stronza bastarda!” / “È molto figo, però, vero?” Il contrasto tra la rabbia di Maria e l’ironia distaccata di Verity è devastante. Da un lato c’è chi ha perso il controllo, dall’altro chi lo esercita senza neanche più goderne davvero. Il potere non diverte più Verity. È solo uno strumento in una spirale di dolore senza fine.
“Qualsiasi cosa faccia… è ancora tutta lì. E fa ancora male.” Qui crolla la maschera. Verity ha provato tutto. Ha giocato a essere dio. Ha cambiato realtà, fatto esperimenti, vendicato sé stessa in ogni variante possibile. Ma nulla ha cancellato il dolore originario. Il messaggio è chiaro: non esiste tecnologia che possa riparare una ferita dell’anima. Nemmeno se puoi manipolare il tempo, il linguaggio, il corpo dell’altro.
“Come pensi che lo farai? Lei è saltata, ma tu non sei il tipo. Forse più da polsi.”
Il finale è glaciale. Verity non sta più vendicandosi. Sta predicendo la fine. Maria è messa davanti a uno specchio distorto, come Natalie prima di lei. Il vero orrore qui non è il suicidio, ma la certezza calcolata con cui Verity lo prevede. Come se fosse un passaggio inevitabile in un esperimento di laboratorio. Questa battuta è l’ultimo colpo, quello che Verity infligge non per punire, ma per verificare se anche Maria crollerà, come Natalie. Un test. Un’equazione emotiva.
Questo dialogo è la resa dei conti tra vittima e carnefice, ma senza un confine chiaro tra le due parti. Perché Maria ha sbagliato, ma Verity ha superato ogni limite per punirla. E la tecnologia non è il vero mostro: è solo il megafono del trauma, il moltiplicatore della sofferenza.
E il paradosso finale è che, pur avendo in mano il telecomando dell’universo, resta prigioniera della versione peggiore di sé stessa.
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