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~ LA REDAZIONE DI RC
Il vero punto di forza di questa serie è che non è un crime come ce lo aspettiamo. Nessuna mitizzazione della criminalità, nessun antieroe affascinante con un lato oscuro “interessante”. Qui la 'ndrangheta non è affascinante: è soffocante. E la violenza più presente non è quella delle pistole, ma quella del silenzio, dell’obbedienza, della paura che scorre nelle vene come un’eredità genetica. E il punto di vista? È quello delle mogli, delle madri, delle figlie. Delle “good mothers”, appunto. Donne cresciute dentro un sistema che le vuole mute e piegate. E che invece trovano una voce. Una voce spezzata, scomoda, incerta. Ma che comincia a parlare.
Tratta dal libro di Alex Perry, The Good Mothers racconta un’operazione realmente avvenuta: quella che ha visto la magistrata Anna Colace puntare sulle donne dei clan per far crollare la 'ndrangheta dall’interno. Una strategia mai tentata prima in modo sistemico, che ha richiesto coraggio legale, ma anche una profonda comprensione emotiva del contesto. Perché si tratta di strappare esseri umani da un’intera esistenza, dalla propria rete di affetti, spesso anche da figli che non capiscono. E qui entra in scena Lea Garofalo (Ramazzotti), uno dei casi più noti e agghiaccianti. Una donna che ha vissuto con la morte accanto per anni, che ha provato a salvarsi, a rifarsi una vita con la figlia Denise, e che alla fine ha pagato con la scomparsa (e il brutale omicidio) il prezzo della sua ribellione.
Poi ci sono Giuseppina Pesce e Maria Concetta Cacciola, due figure che incarnano due volti di un risveglio: quello che si fa lentamente strada nella consapevolezza di una vita che non è vita, e quello che esplode come un grido disperato. La parabola di Maria Concetta è forse la più straziante: l’illusione di poter cambiare, la richiesta di perdono alla propria famiglia, e la fine tragica. Non “perché si è ribellata”, ma perché in fondo non le è stato concesso di esistere fuori dal sistema. Un punto che spesso passa sotto traccia, ma che merita attenzione, è il ruolo di Denise (Gaia Girace). Denise è la figlia di Lea, ma anche il prodotto di quel mondo che sua madre ha cercato di lasciarsi alle spalle. La sua evoluzione – dall’adolescente che non comprende fino in fondo la madre, alla giovane donna che porta avanti il testimone della giustizia – è uno degli archi narrativi più potenti della serie. E qui non si parla solo di giustizia penale, ma di giustizia emotiva, quasi spirituale. Denise diventa la voce che Lea non ha potuto portare fino in fondo.
Barbara Chichiarelli dà vita a un personaggio incredibilmente sottile. Colace non è la classica magistrata granitica da fiction: è riservata, quasi schiva, ma si percepisce come ogni storia che ascolta le entri dentro. Il suo rapporto con Giuseppina è forse la relazione centrale dell’intera serie: due donne che si incontrano da due estremità opposte del sistema, ma che imparano a vedersi come esseri umani, fragili, segnate e, proprio per questo, capaci di verità. Perché The Good Mothers è importante? Perché mostra che la ribellione non sempre è eroica. A volte è dolorosa, goffa, solitaria. Ma è reale. E soprattutto, è possibile. In un panorama narrativo in cui troppo spesso le figure femminili legate al crimine vengono rappresentate o come complici o come vittime passive, The Good Mothers sceglie una terza via: quella del coraggio imperfetto, ma decisivo.
Una serie da vedere, discutere, condividere. Non perché “denuncia”, ma perché racconta. E in un momento storico in cui la rappresentazione delle donne nel crime sembra ancora imprigionata tra archetipi e glamour, questa serie ci ricorda che la verità è molto più potente della fiction.
Carmine: Andrea Dodero
Denise: Gaia Girace
Carmine: Tanto lo sai perché sono qua no? Senti, io mi sa che vado a ballare. Che fai, vieni con me?
Denise: Perché non te ne vai a fanculo, invece?
Carmine: Ma perché mi parli così? Ti pare giusto? Denise, tuo padre vuole che vai alla festa. Mi ha mandato a prenderti. Ma perché ti nascondi, no? Tutta la gente deve vedere come sei bella vestita così. Denise, non mi fare casini...non ci posso andare là senza di te.
Denise: Deve strozzarsi con la mia torta di compleanno.
Carmine: Però che cazzo Denise, eh. Tu non hai capito proprio niente. Ci stanno tutti. Tutti quanti! Tutte le famiglie più importanti ci stanno! Se io vado là senza di te...
Denise: Che fa, ammazza pure te?
Carmine: Sciacquati la bocca, và...Denise, sciacquati la bocca!
Denise: Che hanno fatto a mia madre?!
Carmine: Andiamo alla festa.
Denise: Che è successo alla sua valigia? Ai suoi vestiti? E' andata a comprare le sigarette, la valigia era in macchina. Chiedi a lui i suoi vestiti e portameli qui.
Carmine: Che cazzo gli devo chiedere io a Carlo?! Eh?!
Denise: L'ha uccisa lui. Dillo. Cos'altro ha fatto, prima di lasciarla morire?
Carmine: Non sai di che cazzo stai parlando...
Denise: Io dico quello che mi pare e piace.
Carmine: No, tu non dici quello che ti pare e piace! Non puoi dire la prima cosa che ti passa per la testa, non funziona così! Vieni con me...Vieni con me perché te lo sto chiedendo io.
Questo dialogo tra Denise Cosco e Carmine Venturino è uno dei momenti più crudi e dolorosi di The Good Mothers. Inizia a far esplodere il sospetto su quello che è successo a Lea, ma perché mette a nudo la dinamica più ambigua e disturbante dell’intera serie: l’amore (o la dipendenza) tra vittima e carnefice, tra bugia e bisogno. Qui c’è il conflitto tra il bisogno di sapere e la paura di scoprirlo. E in mezzo, Carmine, che si muove come una figura ambigua e pericolosa, ma anche tremendamente umana. Andiamoci dentro.
C: “Tanto lo sai perché sono qua no?”
Carmine entra in scena con una falsa leggerezza, come se tutto fosse chiaro, come se tra loro ci fosse ancora un’intesa. Ma questa frase ha un doppio fondo inquietante: è vero, Denise lo sa perché lui è lì — è lì per portarla via, per fare da emissario del padre. Non per lei.
C: “Senti, io mi sa che vado a ballare. Che fai, vieni con me?”
Tentativo superficiale di normalizzare l’assurdo. Carmine si comporta come se fossero due ragazzi che devono andare a una festa, ma il contesto è carico di tensione. È un gioco psicologico: cerca di riportare Denise sotto controllo attraverso la normalità apparente. Ma Denise ha ormai superato il limite.
D: “Perché non te ne vai a fanculo, invece?”
Frase tagliente, liberatoria, che rompe il gioco. Denise non ci sta più a fingere. Questo insulto segna la frattura definitiva: lo ama? Forse. Ma non si fida più. La rabbia la protegge dalla paura.
C: “Ma perché mi parli così? Ti pare giusto?”
Carmine passa subito alla parte della vittima. È un classico meccanismo manipolatorio: sposta il focus da ciò che ha fatto o sta coprendo, a come lei gli sta parlando. Tipica strategia per confondere, far sentire in colpa. Ma Denise ormai vede chiaro.
C: “Tuo padre vuole che vai alla festa… mi ha mandato a prenderti.”
Ecco la verità nuda: Carmine è il tramite del potere patriarcale. Non è lì per Denise, ma per il padre di Denise. E lo dice senza accorgersi di quanto sia terribile. Denise è un oggetto da esibire, un “trofeo” da portare alla festa. È “bella vestita”, ma solo per essere vista. Non per essere.
D: “Deve strozzarsi con la mia torta di compleanno.”
Il rancore di Denise esplode in questa frase. È una ragazza ferita, disillusa, tradita, che usa il sarcasmo per canalizzare la rabbia. La torta — simbolo della festa, della famiglia, dell’affetto — diventa un augurio di morte. Niente più affetto. Solo veleno.
C: “Però che cazzo Denise, eh! Tu non hai capito proprio niente!”
Qui Carmine perde la calma. Smette di fingere, esplode la frustrazione del gregario, dell’uomo che è dentro una macchina più grande di lui e che sta cercando disperatamente di non perdere il controllo. Ma anche di chi si sente tradito emotivamente, perché forse — in un modo contorto — ci teneva davvero.
D: “Che fa, ammazza pure te?”
È una provocazione enorme. Denise mette in dubbio la fedeltà cieca di Carmine, lo chiama a scegliere. E Carmine reagisce in modo violento:
C: “Sciacquati la bocca, và… Sciacquati la bocca!”
Questo è il momento in cui Carmine si rivela davvero. Non è più il ragazzo, l’innamorato. È un soldato della famiglia. E come tale, reagisce con rabbia rituale: Denise ha pronunciato il nome del padre invano, ha infranto il tabù. E lui, senza neanche saperlo, diventa il suo carnefice.
D: “Che hanno fatto a mia madre?!”
Ecco la vera domanda. Tutto il dialogo porta qui. Denise sa. Forse non ha le prove, ma ha la sensazione corporea, istintiva, che sua madre non è scappata. E che chi le sta davanti sa esattamente cosa è successo.
C: “Andiamo alla festa.”
È una fuga. Una non-risposta. Un tentativo patetico di tornare indietro, di chiudere tutto sotto un tappeto. Ma ormai è troppo tardi.
D: “Che è successo alla sua valigia? Ai suoi vestiti?”
Denise ha messo insieme i pezzi. Il corpo non si trova. Ma ci sono dettagli — la valigia nella macchina, i vestiti spariti — che gridano assenza. La domanda non è più “dove è andata?” ma “chi ha fatto sparire le tracce?”
C: “Che cazzo gli devo chiedere io a Carlo?!”
Carmine perde ogni filtro. Il suo panico sale. E in questo panico c’è la verità. Non può chiedere nulla a Carlo perché sa già la risposta. E sa che non si chiede mai nulla a Carlo Cosco.
D: “L’ha uccisa lui. Dillo.”
Denise si spinge oltre. È una richiesta di verità, ma anche un’implosione emotiva. Non è più rabbia. È bisogno di sapere. Di dare un nome al vuoto.
C: “Non sai di che cazzo stai parlando…”
Carmine qui mente. Ma è una bugia debole, esausta, detta senza convinzione. Il tono non è più arrabbiato: è sconfitto. E questa esitazione è una mezza conferma.
D: “Io dico quello che mi pare e piace.”
È il momento in cui Denise si libera. Prende voce, si autodetermina. Non ha più paura. È una frase che in bocca a una ragazza cresciuta in quella famiglia, in quel sistema, vale come una rivoluzione.
C: “No, tu non dici quello che ti pare e piace! Non puoi dire la prima cosa che ti passa per la testa, non funziona così!”
Ecco il ritorno del patriarcato. Carmine non regge la libertà di Denise. Le urla addosso le regole del sistema. Ma non per farla stare zitta: per proteggerla (secondo lui) dalle conseguenze. Perché dire certe cose, in quel mondo, equivale a condannarsi.
C: “Vieni con me… perché te lo sto chiedendo io.”
Ultimo tentativo, l’unico sincero. Carmine qui parla da Carmine, non da emissario, non da figlio di clan. Chiede, non ordina. Forse l’ama, forse ha paura, forse vuole solo non stare da solo con la sua colpa. Ma Denise, in quel momento, ha già scelto.
Questa scena è l’esatto confine tra l’amore e la consapevolezza. Denise vede, capisce, si ribella. Carmine si aggrappa, barcolla, si espone. Il potere che aveva su di lei — fatto di affetto, presenza, normalità — si sgretola davanti alla verità.
È un momento teso, vivo, dove il linguaggio è spezzato, nervoso, incostante. Una scrittura asciutta, senza retorica. Vera.
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