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~ LA REDAZIONE DI RC
Mangia, prega, ama (titolo originale: Eat Pray Love), film del 2010 diretto da Ryan Murphy e tratto dall’omonimo bestseller autobiografico di Elizabeth Gilbert. Un film che, a prima vista, potrebbe sembrare una favola di auto-scoperta tutta viaggi, cibo e spiritualità. Ma sotto quella patina da diario patinato, se lo si guarda con attenzione, c’è una struttura narrativa molto precisa, con tematiche che ruotano attorno a concetti come il desiderio di controllo, la fuga da sé stessi, la ricerca del perdono (soprattutto verso se stessi) e il significato concreto di connessione.
Liz Gilbert (interpretata da Julia Roberts) è una scrittrice di successo che vive a New York, ha un marito, una bella casa e una carriera ben avviata. Ma qualcosa dentro di lei è fuori fuoco. La sua crisi esistenziale esplode nel momento in cui si rende conto che sta vivendo una vita che non sente più sua.
Decide di divorziare e intraprende un viaggio lungo un anno in tre Paesi diversi:
Italia (Mangia) – Dove si concede il lusso di vivere e gustare il piacere del cibo e della convivialità.
India (Prega) – Dove si ritira in un ashram per cercare un contatto profondo con la spiritualità e provare a fare i conti con la colpa e il senso di vuoto.
Bali (Ama) – Dove incontra Felipe (Javier Bardem) e dove inizia a rimettere insieme i pezzi del suo cuore, ma da una prospettiva diversa.
Liz attraversa una crisi personale che mette in discussione le fondamenta su cui aveva costruito la propria identità: il matrimonio, la carriera, la routine sociale. Il film mostra che la ricerca di sé non passa attraverso una risposta definitiva, ma attraverso l’accettazione del cambiamento e dell’instabilità. In Italia, Liz si libera dalla colpa del “non fare abbastanza”. È la parte del viaggio che parla del corpo, del piacere non finalizzato a uno scopo. È lì che pronuncia una delle battute chiave: “You don’t need a man, Liz. You need a champion.” E quel campione, lo capirà, deve essere prima lei stessa.
Durante il soggiorno in India, Liz affronta la sua necessità di avere sempre il controllo delle situazioni. L’ashram diventa il simbolo del tentativo di gestire il caos interiore con la disciplina, ma anche del fallimento di un certo approccio “razionale” alla guarigione emotiva. La spiritualità, nel film, non viene trattata come una verità assoluta, ma come un processo. Gente come Richard from Texas (uno dei personaggi più riusciti del film) serve a ricordare che i demoni interiori non si sconfiggono con un mantra, ma guardandoli in faccia.
Il film insiste molto sul perdono, ma non lo mostra come un gesto eroico o simbolico. È qualcosa che Liz fatica a concedere, soprattutto a sé stessa. L’India è il capitolo in cui si fa i conti con la colpa del fallimento matrimoniale, con l’orgoglio ferito e la delusione di non essere stata “abbastanza”. Qui il perdono è una cosa sporca, faticosa, non illuminata da aure spirituali.
Quando arriva a Bali, Liz ha fatto il pieno di parole, silenzio, cibo e riflessioni. Ma resta ancora qualcosa: l’idea che l’amore non debba servire a riempire un vuoto, ma che possa esistere nonostante l’autosufficienza. Felipe non è il salvatore, non è la chiusura del cerchio. È un compagno di percorso. E il fatto che Liz lo accetti senza annullarsi segna il vero punto di svolta del suo viaggio.
Richard: Richard Jenkins
Elizabeth Gilbert: Julia Roberts
Richard e Elizabeth si incrociano in un corridoio.
Richard: Chi c’è nel fossato oggi?
Elizabeth: Falla finita.
Richard: Uuuu, lottiamo con gli alligatori con le palle, è?
Elizabeth:Sai che c’è? Se sei tanto furbo, che cavolo ci fai qui?
Richard: Se uno sta qui vuol dire che è furbo senz’altro. Allora, parliamo di quello che ti fa rodere il culo?
Elizabeth:No, non con te! Neanche ci penso, grazie.
Richard: Ma io sono l’unico qui…
Elizabeth:Senti io…
Richard: E tu dovrai parlarne prima o poi.
Elizabeth: Io…
Richard: Tanto vale che usi me.
Elizabeth: Non riesco a concentrarmi lì dentro. Riesco solo a pensare alla mia stanza da meditazione e a come arredarla.
Richard: Mi vuoi sfottere?
Elizabeth: E tu vuoi sfottere me?
Richard: La stanza da meditazione è dentro di te, mandibola, devi arredare quella.
Elizabeth: Parei sempre per slogan autoadesivi?
Richard: Certo, ed eccone un altro. Devi imparare a scegliere i pensieri, allo stesso modo in cui scegli i vestiti ogni giorno Ecco, questo è un potere che puoi coltivare. Se ci tieni tanto a venire qui a controllare la tua vita, lavora sulla mente. E’ l’unica cosa che puoi controllare. Se non riesci a dominare la tua mente, sei nei guai per sempre.
Elizabeth: Io ci sto provando!
Richard: Ecco, appunto, è questo il problema. Smetti di provarci, arrenditi. Va fuori in giardino, e siediti lì. E ferma la tua mente. Poi guarda che succede. Perché non lasci che succeda e basta.
Elizabeth: Te l’ha mai detto nessuno che sei identico a James Taylor?
Richard: Ehm… tutti i giorni.
Richard va via.
Elizabeth: Sei tale e quale.
Elizabeth sospira.
Questo dialogo tra Liz e Richard è uno dei momenti chiave della sezione indiana di Mangia, prega, ama, ed è anche uno degli scambi più interessanti a livello di costruzione drammaturgica. Siamo lontani dalla Roma conviviale e dal caos affettivo della prima parte del film. Qui il tono cambia: siamo in un ashram, un luogo di silenzio, ma anche di frizione emotiva. E Richard, interpretato da Richard Jenkins, entra in scena non come un guru, ma come una specie di grillo parlante texano, ruvido, diretto, completamente privo di filtri spirituali. È lui il primo a smascherare Liz. Ma lo fa senza moralismo. Lo fa da essere umano a essere umano. Siamo nella fase in cui Liz sta cercando di "ritrovare se stessa" attraverso la meditazione, ma in realtà è ancora in piena confusione. E questo incontro con Richard serve proprio a sbloccare qualcosa. È un momento di collisione: tra la rabbia repressa di Liz e la saggezza non richiesta di Richard. Un botta e risposta costruito come un duello, ma pieno di piccoli momenti di verità, che iniziano a rompere la corazza della protagonista. “Chi c’è nel fossato oggi?” / “Falla finita.”
L’incipit è già uno scontro. Richard usa una metafora da film western o da vecchia sitcom militare – “fossato”, “alligatori” – per prenderla in giro. La sua è un’ironia da uomo che ha visto il dolore da vicino, e che ha imparato a non prenderlo troppo sul serio, almeno in apparenza. Liz, al contrario, è ancora impantanata nel suo dramma interiore. La battuta “falla finita” è segno di difesa, ma anche di un filo di complicità che sta nascendo.
“La stanza da meditazione è dentro di te, mandibola, devi arredare quella.” Richard colpisce dritto al centro. Liz sta cercando conforto nell’esterno: nello spazio fisico, nella ritualità, nella “scenografia” della meditazione. Lui la prende in giro, ma non è cattivo. È preciso. Sta dicendo una cosa fondamentale: la pratica interiore non è un gesto estetico, è una scelta quotidiana. Quella battuta – “mandibola” – è uno dei dettagli che danno sapore alla scena. Richard non è lì per essere delicato. È ruvido, sgrammaticato, ma vero. E questo, paradossalmente, lo rende più credibile dei maestri spirituali stereotipati. “Devi imparare a scegliere i pensieri…” Qui arriva il cuore del discorso. Richard predica una disciplina mentale. Un concetto semplice e potente: scegli i tuoi pensieri come scegli i vestiti. Liz è sommersa dai pensieri, e la sua ansia nasce proprio da questo: dalla sensazione di non avere controllo su ciò che le passa per la testa. Richard le dice: non puoi controllare tutto, ma puoi lavorare sulla mente. È l’unica cosa che puoi controllare. È una frase che risuona in tante filosofie orientali ma detta così, con semplicità brutale, ha un impatto immediato.
“Smetti di provarci, arrenditi.” Altro momento centrale. Il concetto di arrendersi non è qui sinonimo di rinunciare, ma di lasciare andare. Liz si sta sforzando, vuole “fare bene” anche la meditazione. Richard le sta dicendo che il vero cambiamento non nasce dallo sforzo ossessivo, ma dalla resa al processo. È quasi zen. Smettila di provare a controllare l’esperienza spirituale. Siediti. Stai ferma. Lascia succedere.
E poi c'è quella battuta geniale: “Te l’ha mai detto nessuno che sei identico a James Taylor?” Un momento perfetto di leggerezza, che spezza la tensione. Liz riprende fiato. L’umorismo le serve per non crollare, per restare in contatto con qualcosa di umano. Ma anche questo è parte della lezione: si può stare nella difficoltà senza diventare rigidi.
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