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~ LA REDAZIONE DI RC
“Hancock” è un film del 2008 diretto da Peter Berg, con Will Smith nel ruolo del protagonista. È un film che parte come una sorta di satira sul genere supereroistico, ma poi vira verso un racconto più introspettivo, in cui i toni cambiano gradualmente. E questa evoluzione è uno degli aspetti più discussi e affascinanti del film. La trama si apre con John Hancock, un uomo con poteri da supereroe – può volare, ha una forza sovrumana, è invulnerabile – ma che vive ai margini della società di Los Angeles. È alcolizzato, apatico, scorbutico, e quando si mette in testa di “fare il bene”, finisce per causare danni collaterali enormi: trancia treni, distrugge strade, insulta la gente. Questo approccio, nei primi 30 minuti, è chiaramente in contrasto con l’iconografia classica del supereroe. Hancock è solo, detestato dalla popolazione e soprattutto non ha una vera identità eroica. La domanda implicita è: che senso ha avere dei poteri, se poi sei un disastro come persona?
L’incontro con Ray Embrey (Jason Bateman), un idealista che lavora nel campo delle pubbliche relazioni, cambia le cose. Dopo che Hancock salva Ray da un incidente ferroviario, l’uomo decide di aiutarlo a migliorare la sua immagine. Inizia così una sorta di “riabilitazione supereroica”: Hancock si consegna alla polizia, va in prigione e, gradualmente, riesce a ottenere la simpatia del pubblico. Mary (Charlize Theron), la moglie di Ray, ha da subito una reazione strana verso Hancock. Il motivo si scopre a metà film: anche lei ha poteri, simili ai suoi. Anzi, molto di più: Mary e Hancock sono legati da un passato misterioso, una mitologia che il film accenna ma non esplora fino in fondo.
Scopriamo che i due sono in realtà esseri immortali, creati “a coppie”, e che più stanno vicini, più diventano umani, vulnerabili. Sono stati amanti in passato, ma ogni volta che si riavvicinano, finiscono per indebolirsi. È un legame tragico, fatto di amore che porta distruzione. Questo è il momento in cui il film cambia completamente pelle: da commedia cinica a tragedia quasi mitologica. Hancock decide di allontanarsi da Mary per salvarla e per permetterle di vivere una vita normale con Ray. Il finale, ambientato in un ospedale durante una rapina, mette Hancock davanti alla scelta definitiva: essere un eroe, ma solo. Sopravvive, ma il prezzo è la distanza da chi ama. L’ultima scena lo mostra a New York, solitario ma con un nuovo scopo. Ha accettato il suo ruolo, anche se a costo della felicità personale.
Mary: Charlize Theron
Hancock: Will Smith
Mary arriva a casa di Hancock.
Si guardano. Lui è dubbioso, lei innervosita. Entra in casa.
Mary: Chiedi.
Hancock: Noi due…
Mary: Noi due cosa?
Hancock: Siamo uguali?
Mary: No, io sono più forte.
Hancock: Davvero?
Mary: Oh, si.
Hancock: Chi siamo?
Mary: Dei, Angeli. Culture diverse ci chiamano con diversi nomi. Ora all’improvviso “supereroi”
Hancock: Ce ne sono altri?
Mary: Ce n’erano. Sono tutti morti. Siamo solo noi due.
Hancock: Che sta succedendo? Chi siamo l’uno per l’altra.
Mary: Siamo fratello e sorella.
Hancock: Stai mentendo.
Mary: No, sono tua sorella.
Hancock: Stai mentendo.
Mary: Sono tua sorella.
Hancock: Stai mentendo.
Mary: No!
Hancock: Le sorelle non baciano i fratelli come tu hai baciato me ieri notte. Stai pensando che ne pensa Ray.
Mary: Vede Hancock che vola via.
Mary: Porta giù quelle chiappe!
Questo dialogo è il momento in cui il mistero si incrina e l’identità del protagonista – e quella di Mary – comincia a prendere forma. Non siamo più nell’ambito dell’ironia o del disorientamento: qui si inizia a toccare il cuore rimosso della storia, il legame antico e ambiguo tra due esseri che condividono una natura eccezionale ma un destino sempre più tragico.
La scena si apre con una tensione muta. Non ci sono musiche epiche, né spiegoni: solo sguardi, esitazioni, sarcasmo difensivo. Mary entra nella casa di Hancock dopo che lui ha scoperto – combattendola – che anche lei ha dei poteri.
È un momento carico: la prima volta che si rivedono consapevolmente, anche se solo uno dei due sa davvero tutto. Mary è irritata, forse perché sa che non c’è modo di uscirne bene: qualsiasi verità dirà sarà comunque troppo. Hancock è confuso, ma dietro la facciata da duro si percepisce il senso di vertigine. Sta parlando con qualcuno che potrebbe essere l’unica persona al mondo come lui, e questo lo destabilizza più della scoperta stessa.
Chiedi. Mary parte subito in controllo. Vuole gestire il dialogo, ma non per arroganza: per paura. Ha già vissuto questo momento decine di volte, e sa che ogni passo falso può aprire ferite irreversibili. Noi due cosa? La risposta non è ironica, è una difesa. È il classico modo in cui si risponde a una domanda che si conosce già, ma che si ha il terrore di sentire pronunciare. Mary non vuole che si arrivi subito al punto.
Chi siamo? Qui Hancock sta cercando di dare un nome all’eccezionalità. Non “cosa siamo” (una domanda biologica), ma chi, quindi identità, ruolo, funzione. Mary risponde con un elenco che attraversa la mitologia umana: “Dei, Angeli, supereroi”. La sua risposta non è solo informativa: è profondamente malinconica. Ogni epoca ha cercato di dare un nome a quello che sono, ma nessuna ha capito davvero. Ce ne sono altri? La risposta è definitiva: “Ce n’erano. Sono tutti morti.” E qui la questione cambia tono. Non si tratta più di poteri, ma di sopravvivenza. Hancock e Mary sono gli ultimi. E in quanto ultimi, condannati a esistere in coppia, ma una coppia che – come scopriremo – non può durare.
Chi siamo l’uno per l’altra? E qui arriviamo al centro esatto della scena. Hancock formula la domanda che Mary ha cercato di evitare: qual è il loro rapporto. Lei risponde: “Siamo fratello e sorella.” Questa è una bugia. Ma è anche un tentativo disperato di contenere qualcosa di troppo potente per essere detto.
Perché lo fa? Per tre motivi:
Proteggere Ray (il marito umano che non sa nulla).
Proteggere sé stessa da un legame che ha già visto distruggere tutto più volte.
Proteggere Hancock, che ha perso la memoria e si trova in uno stato di caos.
Ma la risposta non regge nemmeno per dieci secondi. Hancock ribatte con qualcosa di semplice e diretto: “Le sorelle non baciano i fratelli come tu hai baciato me ieri notte.”
È una frase che distrugge la bugia con una semplicità disarmante. Hancock non ricorda la storia, ma ricorda il corpo. Ricorda il bacio. Ricorda la verità. E la verità, in quel momento, è che quello che c’è tra loro va oltre ogni etichetta razionale. Il dialogo si chiude con Mary che, frustrata e spiazzata, lo vede volare via. E urla:
“Porta giù quelle chiappe!”
Mary cerca di proteggere tutti – Hancock, Ray, sé stessa – con una bugia. Ma è una bugia che crolla immediatamente, perché i corpi, i gesti, la memoria affettiva parlano più forte delle parole.
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