\"Il grande dittatore\" (1940) – Charlie Chaplin e la risata che sfidò il terrore

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~ LA REDAZIONE DI RC

Il cinema è una macchina del tempo. Ogni film è una finestra su un’epoca, un riflesso delle idee, delle tecnologie e delle sensibilità artistiche che lo hanno generato. Guardando i film che hanno segnato la storia del cinema, possiamo osservare non solo l’evoluzione del linguaggio cinematografico, ma anche i cambiamenti culturali, sociali e tecnologici che hanno trasformato il modo in cui raccontiamo e viviamo le storie.

Ci sono film che hanno introdotto innovazioni tecniche rivoluzionarie, altri che hanno ridefinito il concetto stesso di narrazione. Alcuni hanno lasciato un’impronta indelebile nella cultura popolare, altri hanno cambiato per sempre il modo in cui pensiamo al cinema. Ogni grande film è il risultato di un momento storico preciso, di scelte artistiche coraggiose e di attori, registi e sceneggiatori che hanno saputo trasformare il loro tempo in immagini indimenticabili.

Questa rubrica esplora quei film che, per un motivo o per un altro, hanno lasciato un segno nella storia del cinema. Opere che hanno cambiato il modo in cui il pubblico guarda il grande schermo, influenzato generazioni di cineasti e ridefinito i confini di ciò che il cinema può essere.

Il film di oggi è...

Il grande dittatore (1940)

Nel 1940, con l’Europa già in fiamme e il mondo sull’orlo della Seconda guerra mondiale, Charlie Chaplin decide di realizzare Il grande dittatore (The Great Dictator). È il suo primo film interamente sonoro, ed è anche una delle scelte più audaci e pericolose della sua carriera: prendere in giro Adolf Hitler mentre il dittatore è ancora in carica, mentre il Terzo Reich non ha ancora mostrato tutta la portata del suo orrore.

In un momento in cui Hollywood era ancora incerta su come affrontare il nazismo, Chaplin sceglie di attaccarlo frontalmente, e lo fa con il linguaggio che conosce meglio: la satira. Ma Il grande dittatore non è solo un atto di coraggio politico, è anche un film profondamente umano, che riesce a essere comico, toccante e feroce nella stessa inquadratura. È una dichiarazione d’intenti, una lettera d’amore all’umanità, e forse la più potente arringa civile mai fatta al cinema.

La trama: due uomini, un volto, due mondi opposti

Il film si svolge in una nazione immaginaria, la Tomania, dominata dal dittatore Adenoid Hynkel (interpretato da Chaplin stesso), caricatura evidente di Hitler. Hynkel è ossessionato dal potere, dalla purezza della razza e dalla conquista del mondo. Vive circondato da burocrati codardi (come il Ministro Garbitsch – caricatura di Goebbels – e Herring – parodia di Göring), e sogna di dominare il pianeta. Parallelamente, c'è un altro uomo, che ha lo stesso volto di Hynkel (sempre Chaplin), ma una natura opposta: un barbiere ebreo, reduce di guerra e vittima della repressione del regime. Il barbiere vive nel ghetto, in mezzo alla sua comunità, dove cerca di ricostruirsi una vita, aiutato da Hannah, una donna semplice e coraggiosa. Ma le leggi razziali, le violenze delle camicie grigie e l’arroganza del regime non tardano ad abbattersi su di loro. Quando per una serie di circostanze il barbiere viene scambiato per Hynkel, gli viene chiesto di tenere un discorso davanti all’intera nazione. Ed è lì, nell’ultima scena, che Chaplin abbandona ogni finzione e parla direttamente al pubblico, firmando uno dei monologhi più intensi e vibranti della storia del cinema.

Chaplin contro Hitler: due baffi, due mondi

Una delle intuizioni più brillanti e disturbanti del film è l’uso del volto di Chaplin per rappresentare due figure speculari: il dittatore e il barbiere. Entrambi hanno i baffetti, lo stesso corpo piccolo, lo stesso linguaggio fisico. Ma uno usa il potere per distruggere, l’altro cerca solo di vivere in pace. Chaplin prende un tratto fisico condiviso – quel famoso baffetto – e lo trasforma in un paradosso visivo. Ma dietro la somiglianza, il messaggio è chiaro: il male non è nel corpo, ma nella mente, nell’intenzione. È un modo per svelare la fragilità dell’iconografia dittatoriale, per smontarne la retorica e restituirla al ridicolo.

Hitler, all’epoca, era nel pieno del suo potere. Il mondo lo temeva, molti lo assecondavano. Chaplin invece lo riduce a un burattino isterico che urla in una lingua inventata (un finto tedesco pieno di sputi e consonanti gutturali), che balla con un mappamondo come fosse un pallone, che cerca di sembrare onnipotente ma è dominato dalle sue insicurezze. Il film non mostra mai esplicitamente i campi di concentramento, ma la rappresentazione del ghetto, dei soprusi, della ghettizzazione e delle ronde paramilitari anticipa con lucidità ciò che sarebbe accaduto davvero pochi anni dopo.

Il barbiere e Hannah: l’altra faccia del mondo

Nel doppio racconto costruito da Chaplin, la parte opposta rispetto al potere è occupata dal barbiere ebreo e da Hannah, la donna con cui condivide il sogno di una vita semplice e dignitosa. Il barbiere è un uomo senza ambizioni eroiche. È buffo, impacciato, ingenuo. Ma nel corso del film, attraverso il dolore, l’oppressione e la resistenza, trova dentro di sé una forza insospettata. La sua timidezza diventa coraggio. Il suo silenzio diventa parola. Hannah, interpretata da Paulette Goddard, è uno dei personaggi più belli e sinceri del film. Fiera, pragmatica, tenace, rappresenta la coscienza civile che resiste, anche sotto le manganellate, anche nella miseria. È lei che tiene acceso il sogno, che ricorda al barbiere – e a noi – che “non tutto è perduto”.

Comicità e tragedia: l’equilibrio impossibile

Il grande dittatore riesce là dove molti film falliscono: fa ridere e riflettere nello stesso momento. Non c’è mai una battuta fine a sé stessa, non c’è una gag che non contenga anche un commento. Chaplin costruisce un equilibrio perfetto tra comico e tragico, tra gioco e denuncia.

Tra le scene più memorabili:

Il discorso in finto tedesco di Hynkel, amplificato da microfoni giganteschi che sembrano pronti a inghiottirlo.

La danza con il mappamondo, una delle sequenze più celebri della storia del cinema: Hynkel, solo, danza con il globo come fosse una ballerina fragile. E quando il pallone scoppia, la metafora è perfetta: il delirio di onnipotenza che si distrugge da solo.

La rasatura al ritmo di Brahms, scena comica e poetica insieme, in cui il barbiere accarezza con il rasoio la testa di un cliente come fosse un violino.

Chaplin usa il corpo, il ritmo, il silenzio e il suono come pochi altri. Anche con l’arrivo del sonoro, non dimentica la lezione del cinema muto: tutto comunica, anche senza parole.

Il monologo finale: la voce di Chaplin al mondo

Il climax emotivo del film arriva nell’ultimo atto. Il barbiere, scambiato per Hynkel, viene costretto a parlare a una folla sterminata. E lì, Chaplin si spoglia di ogni maschera comica e parla da uomo. Il suo sguardo, rivolto direttamente in camera, ci raggiunge ancora oggi senza filtri. Il monologo è un testo vibrante, emozionante, in cui l’attore-regista prende posizione contro il fascismo, contro la violenza, contro il razzismo.

Ma non solo: è anche un discorso universale sull’umanità, sulla libertà, sull’empatia.

“L’avidità ha avvelenato i nostri cuori... Ha barricato il mondo con l’odio... Ma l’umanità è in noi, non nei nostri confini... Combattiamo per un mondo nuovo, degno di dare un futuro ai nostri figli!”

Il monologo non è mai retorico. È sentito. È necessario. È l’unico momento in cui Chaplin ci chiede di smettere di ridere e di ascoltare davvero. È il suo grido contro l’orrore. Un discorso che ancora oggi viene ripreso, citato, reinterpretato. Perché il suo messaggio non è invecchiato di un giorno. Alla sua uscita, Il grande dittatore fu un successo commerciale, ma anche un atto divisivo. Uscì prima che gli Stati Uniti entrassero in guerra, e quindi in un clima politico ancora ambiguo. Molti accusarono Chaplin di essere troppo diretto, troppo provocatorio. Alcuni lo elogiarono come visionario. Quando la vera portata dell’Olocausto fu conosciuta, Chaplin stesso dichiarò:

"Se avessi saputo, non avrei mai potuto fare quel film."

Eppure, proprio per questo, il film assume oggi una valenza ancora più forte: ha osato quando gli altri tacevano, ha ridicolizzato un dittatore mentre molti ancora lo corteggiavano.

Conclusione: ridere per resistere

Il grande dittatore è uno di quei film in cui il cinema non osserva, ma agisce. In un’epoca in cui l’arte era spesso strumento di regime, Chaplin usò il cinema per fare l’opposto: denunciare, smascherare, umanizzare. Ha usato la comicità come una lama. E con quella lama ha squarciato l’ideologia del potere. Ha dato un volto al coraggio, ha trasformato un buffone in un eroe morale.

Oggi, Il grande dittatore è più che un classico. È una testimonianza etica, un manifesto contro ogni forma di oppressione. Un film che ci ricorda che il cinema può parlare, può resistere, può cambiare le cose. Anche solo con un barbiere, una slitta da rasatura, e un sogno di libertà.

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