Harlock, o dell'eroe antieroe

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Articolo a cura di...


~ MASSIMILIANO AITA

Sarebbe inutile raccontarvi la trama di Harlock.


Sarebbe inutile dirvi che il manga esce dalla matita impareggiabile di Leiji Matsumoto.


Per spiegarvi Harlock, il pirata dello spazio, devo partire da lontano.

Devo partire dalla Malesia.


Perché la Malesia?


Perché la Malesia o meglio Mompracem è la patria del mio primo eroe.

Sandokan.


E della prima donna della quale io mi sia innamorato: Lady Marian.


Voi, miei pochi ma affezionati lettori, penserete che stia deragliando; che il mio cervello sia andato in overload e si sia fuso.


Non è così.


Vedete Sandokan ha rappresentato il primo vagito di quell’amore per la libertà che ancor oggi anima e domina il mio sentire.


E l’amore per la libertà ha un peso rilevante nella costruzione dell’universo di Harlock.


A questo punto, tuttavia, mi trovo costretto ad una premessa.


Mia madre dice sempre che io sono influenzabile.


Che mi lascio affascinare da qualunque persona appaia diversa, fuori dall’ordinario.


Il suo tono – quando pronuncia queste parole – tradisce un velato disprezzo.


Tuttavia, essendo sempre mia madre, la santa donna ha quantomeno la cortesia – per così dire istituzionale – di astenersi dall’indicare specifici episodi in cui questa mia influenzabilità avrebbe travalicato i confini del mio IO per diventare di pubblico dominio.


Io me lo ricordo bene quando tutto questo accadde.


Perché vero, nel lontano 1976, Sandokan aveva colpito ed affascinato il mio immaginario.


Il 1976, tuttavia, per noi friulani è l’anno dell’Orcolat – del terremoto.


E capirete bene che una tragedia del genere aveva ben presto cancellato ogni anelito avventuroso, ogni aspirazione ideale.


O almeno così credo.


Poi era arrivato il 1979.


L’anno prima le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e gli uomini della scorta.


Agli inizi di gennaio i “compagni che sbagliano” (una delle peggiori frasi mai pronunciate da un politico) uccidevano il sindacalista Guido Rossa.

A settembre dello stesso anno, Cosa Nostra avrebbe assassinato il giudice Cesare Terranova.


Il nostro paese viveva una contingenza terribile.


La tensione era alle stelle e lo Stato sembrava lontano e privo di qualsiasi empatia.


Frequentavo la quinta elementare: scuola “Pietro Zorutti” di Udine; una delle scuole della media borghesia friulana.


La mia insegnante, Mariella Ongaro, era un esule istriana che si accorse delle mie extrasistole prima del medico di base; prima del cardiologo.


Mio padre era ancora nel pieno delle sue forze ma lontano e distante.


Io leggevo, leggevo, leggevo e segnavo sull’Atlante cartaceo della De Agostini irrealistici viaggi negli Stati Uniti di Kennedy e del reverendo King.


Insomma, ero un bambino disadattato in una famiglia problematica che viveva in un paese sull’orlo di una crisi di nervi.


Lo scenario cambiò improvvisamente il 9 aprile di quell’anno.


Sugli schermi della R.A.I. – Radio Televisione Italiana comparve un uomo con una benda, un mantello nero con un teschio.


Era Harlock.


Il capitano più famoso di tutti i tempi sino a Robin Williams.


Harlock cambiò improvvisamente la mia percezione del senso della vita.


Perché si vive?


Perché si lotta ogni giorno per arrivare a sera?


La risposta di Harlock rappresenta una perfetta sintesi, ancora una volta, di cosa significhi epica:


“Perché laggiù sbocciano i fiori. Perché la Terra è profumata. Perché la sua natura è la cosa più bella di tutto l'universo e perché gli uomini un giorno capiranno finalmente che il vero paradiso è quello”.


Si vive per rendere il mondo migliore.


Certo, io – all’epoca – pensavo che avrei rivoluzionato il mondo intero; oggi – come dire – ho una prospettiva più modesta ma nello stesso tempo maggiormente realizzabile.


Ecco allora che Harlock combatte le Mazoniane mica perché siano intrinsicamente cattive o perché le disprezzi.


No, Harlock combatte perché Mazone vuole distruggere il mondo che lui ama.


Vedete?


L’amore torna sempre. L’amore illumina l’universo.


Anche quello fantastico.


La vera novità di Harlock sta proprio in questo.


Lui è un supereroe che però rifugge questo ruolo.

Quando torna sulla Terra per incontrare Mayu e suona l’ocarina, Harlock manifesta il suo innegabile ed insopprimibile bisogno di vivere una vita normale – circondato dalle persone care.


L’altro aspetto profondamente rivoluzionario – dal punto di vista narrativo – che caratterizza Harlock sta nell’evocazione e nel perseguimento del concetto di “bene comune”.


Il nostro pirata – lungi dall’imporre la sua visione del mondo (salvo quando impartisce gli ordini da capitano – ha chiaro che all’interno dell’Arcadia (la sua mitica astronave) convivono e si affrontano diverse sensibilità.


E proprio per questo, il Capitano quasi mai lascia intravedere il proprio reale pensiero.


Difficile comprendere quale sia la sua idea sul futuro della Terra.


Per Harlock è sufficiente che la Terra abbia un futuro.


Saranno i suoi amici da Tadashi a Yattaman a decidere quale futuro.


La ragione per cui Harlock privilegia il bene comune rispetto ai propri

desiderata?


Semplice.


Harlock respira e si nutre di libertà.


Se ci pensate, in quasi tutti gli anime della mia epoca, la libertà viene rappresentata in un’ottica individuale o meglio di percorso dell’eroe volto a riappropriarsi di qualcosa che gli è stato sottratto (penso a Remì, penso a Rocky Joe) o che l’eroe mai ha potuto assaporare (qui ovviamente l’emblema iconico è Candy).


Harlock no.


Harlock è libero.


Harlock non combatte per sé – come detto.


Combatte per garantire la libertà degli altri.


Ora, immaginate che impatto può aver avuto questo personaggio nella vita

di un ragazzino di nove anni che a cinque già leggeva Remi e a otto scriveva un tema sull’assassinio di Moro.


Per anni ho pensato che io volevo essere Harlock.


Volevo cambiare in meglio la vita del nostro pianeta, della società.


Volevo rendere gli uomini, le donne (o qualunque altro genere cui ritenga di appartenere chi mi legge) felici.


Tutto questo è durato più o meno fino al 23 maggio 1992.


Quel giorno, sono morti i miei due capitani.


L’uno reale e l’uno immaginario.


E’ allora che ho imparato a memoria la poesia di Whitman.

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