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Ci sono immagini che non si dimenticano. Non perché sono belle in senso estetico (anche, certo) ma perché in un frammento di secondo dicono tutto: l’emozione, il conflitto, il vuoto, l’amore, la paura, l’addio, l’attesa. E anche se il film finisce, quell’inquadratura resta con te. Ti viene in mente nei momenti meno attesi. Ti torna in testa quando cerchi il modo giusto di raccontare una storia. A volte, è proprio quella singola inquadratura che ti fa dire: “Ok, voglio fare cinema”.
Nella formazione di Focus Movie Academy, questo discorso diventa esercizio pratico. Gli studenti sono spinti a osservare, analizzare, scomporre e riprodurre. Capire come è costruita un’inquadratura è uno dei primi passi per imparare a raccontare con la macchina da presa, ma anche per imparare a “stare” dentro l’inquadratura, nel caso degli attori. Perché ogni scelta – dalla distanza focale alla posizione dell’attore rispetto alla luce – è una dichiarazione di intenti. Vediamo allora alcune delle inquadrature che più hanno segnato la storia del cinema – e di riflesso, anche chi quel cinema lo sta studiando.
Il volto che guarda (e ci guarda)
“Psycho” – Alfred Hitchcock (1960)
La celebre scena della doccia è spesso citata per il montaggio frenetico e la colonna sonora di Bernard Herrmann. Ma l’inquadratura che resta è quella finale, con Norman Bates in primissimo piano, lo sguardo fisso, e il teschio della madre che si sovrappone al suo volto. Lo spettatore non solo guarda Bates. Viene guardato da lui. È una rottura sottile della quarta parete che mette a disagio. Un insegnamento visivo potente per gli studenti: non è solo importante “cosa” si mostra, ma “come” lo spettatore entra nella relazione con l’immagine.
L’assenza dentro lo spazio
“L’eclisse” – Michelangelo Antonioni (1962)
Nell’ultima sequenza del film, i protagonisti non ci sono più in scena, e la macchina da presa si sofferma su luoghi vuoti, angoli di Roma anonimi, dettagli di quotidianità. Un racconto per sottrazione. Antonioni insegna ai filmmaker che anche l’assenza può raccontare, e agli attori che non sempre saranno al centro dell’inquadratura… ma che anche un’assenza ha un peso drammaturgico. Una lezione sottile che diventa spunto di studio in Accademia, soprattutto nei corsi di regia e analisi del linguaggio visivo.
La composizione come messaggio
“The Grand Budapest Hotel” – Wes Anderson (2014)
Tutto il film è un trionfo di simmetrie, ma c’è un momento in cui la composizione diventa poesia: Zero e Gustave davanti alla finestra della funicolare, inquadrati perfettamente al centro, incorniciati dalla geometria della scena. Qui la simmetria comunica controllo, eleganza, malinconia. Gli studenti di Focus Movie Academy studiano anche questo: come ogni elemento del quadro – scenografia, costumi, colore – contribuisca al significato finale.
Il dettaglio che urla
“Kill Bill: Vol. 1” – Quentin Tarantino (2003)
C’è un’inquadratura ravvicinata che è rimasta nella memoria di chiunque abbia visto il film: l’occhio di Beatrix Kiddo mentre si sveglia dal coma. La camera è così vicina che si percepisce ogni vibrazione della pupilla. Tarantino qui esaspera il dettaglio, lo fa diventare centro narrativo. Nella formazione pratica di FMA, gli studenti imparano che il dettaglio – quando scelto con consapevolezza – può raccontare più di una panoramica.
L’attesa congelata
“Chiamami col tuo nome” – Luca Guadagnino (2017)
La lunga inquadratura finale su Elio seduto davanti al camino, in silenzio, con le lacrime che scorrono. La macchina da presa non si muove, resta lì, a osservare il dolore senza interromperlo. In molti esercizi di recitazione in Accademia, si lavora proprio su queste scene: un’emozione che si sviluppa dentro un’inquadratura ferma, senza tagli, senza parole. Perché reggere lo sguardo della camera è parte fondamentale del mestiere.
L’uso della soggettiva
“Requiem for a Dream” – Darren Aronofsky (2000)
In più momenti del film, Aronofsky utilizza la camera attaccata al corpo del personaggio, creando una soggettiva distorta e claustrofobica. Uno dei casi più noti è quello della madre di Harry, in preda alla paranoia. L’inquadratura non solo mostra, ma fa sentire fisicamente lo stato mentale del personaggio.
L’ombra al posto del volto
“Il terzo uomo” – Carol Reed (1949)
Quando finalmente vediamo Harry Lime, interpretato da Orson Welles, è la sua ombra ad apparire per prima, proiettata sul muro di Vienna. Un uso magistrale della luce per creare suspense e introdurre un personaggio.
Il potere dell’esterno
“Roma” – Alfonso Cuarón (2018)
C’è una lunga inquadratura in cui Cleo, la protagonista, attraversa la spiaggia per salvare i bambini in mare. È un piano sequenza ampio, senza primi piani, in cui la tensione cresce con la distanza. Una scena da studiare, da analizzare, e anche da tentare di ricreare, come accade nei laboratori di regia in FMA. Perché ogni movimento di macchina è una scelta sul tempo e sul respiro della scena.
Quando la camera trema
“Il figlio di Saul” – László Nemes (2015)
Girato quasi interamente in piani sequenza soggettivi e camera a mano, questo film segue Saul da dietro, in mezzo all’orrore dei campi di sterminio. Lo spettatore vede solo ciò che Saul vede. E spesso, non vede nulla, solo intuisce. È una lezione radicale di linguaggio. A Focus Movie Academy si insegna anche questo: a volte la verità si nasconde nel fuori campo.
Dentro l’inquadratura, ma soli
“Her” – Spike Jonze (2013)
Theodore è spesso inquadrato da solo, in mezzo a uno spazio immenso, o riflesso in vetri e schermi, con il volto diviso o scomposto. L’inquadratura racconta la sua disconnessione dal mondo. Una scena esemplare? Lui su un treno, lo sguardo fuori, mentre ascolta la voce di Samantha. Un invito a riflettere: dove metti l’attore nello spazio? Che rapporto ha col mondo? Anche questo fa parte della ricerca visiva che si affronta negli studi di FMA.
Tutte queste inquadrature – diverse per stile, epoca, tecnica – ci raccontano una cosa sola: non esiste una sola grammatica visiva, ma ogni inquadratura è una scelta. E ogni scelta è un atto narrativo. A Focus Movie Academy, gli studenti imparano a pensare come registi, anche quando recitano. E a recitare pensando allo sguardo della camera. Perché alla fine, quello che resta non è solo la storia… ma l’immagine che l’ha raccontata.
E tu, qual è l’inquadratura che non ti sei mai scordato?
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