Monologo di Nathan in Jay Kelly: funerale di Peter

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~ LA REDAZIONE DI RC

Analisi del monologo di Nathan al funerale del padre Peter in "Jay Kelly (2025)"

Pronunciato durante il funerale del padre Peter, questo discorso rifiuta ogni retorica celebrativa per raccontare l’assenza, il fallimento e l’amore arrivato troppo tardi. Nathan non accusa, non assolve, non cerca consenso: espone una verità scomoda davanti a un pubblico che ha amato l’artista più dell’uomo.

  • Scheda del monologo

  • Contesto del film

  • Testo del monologo (estratto+note)

  • Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa

  • Finale del film (con spoiler)

  • Credits e dove trovarlo

Scheda del monologo

Film: Jay Kelly (2025)
Personaggio: Nathan
Attore: Doug Cockle

Minutaggio: 14:23-15:12

Durata: 1 minuto 40 secondi

Difficoltà: 6.5/10 È un monologo più complesso di quanto sembri, perché richiede: controllo della vulnerabilità, tono realistico, non teatrale, uso del sarcasmo e dell’imbarazzo

Emozioni chiave Risentimento sedimentato, tenerezza trattenuta, vergogna sociale, vulnerabilità compressa

Contesto ideale per un attore che lo interpreta Scene di funerali, elegie, momenti di chiusura dei conti. Funziona benissimo per dimostrare controllo emotivo, capacità di raccontare una storia, equilibrio tra distanza e ferita.

Dove vederlo: Netflix

Contesto del film "Jay Kelly"

Il film si apre con una frase di Sylvia Plath sulla difficoltà di essere se stessi. Sul set di un film, l’attore Jay Kelly chiude le riprese con un monologo intenso: davanti alla troupe è una star, ma appena resta solo nel camerino emerge un uomo stanco e pieno di pensieri. Nella vita privata Jay è fragile: prova a stare vicino alla figlia Daisy, ma il lavoro e le abitudini da celebrità lo portano sempre altrove. La morte di un amico, Peter, lo riporta a vecchi rimpianti e lo mette di fronte a ciò che ha evitato. Al funerale incontra Timothy, ex compagno di accademia: tra nostalgia e tensione, la serata degenera. Tim lo accusa di avergli “rubato la vita” (provino, relazioni, opportunità) e scoppia una lite che finisce ripresa dai telefoni.

Il giorno dopo Jay annuncia di voler mollare il prossimo film e parte improvvisamente per la Francia per raggiungere Daisy, trascinando dietro di sé agenti e staff. Nel viaggio riaffiorano i ricordi dell’accademia e della “sliding door” decisiva: anni prima Jay, quasi senza accorgersene, si prese l’occasione che avrebbe potuto cambiare la vita di Tim. Sul treno Jay ritrova Daisy e la mette sotto pressione: lei confessa di voler diventare attrice, lui tenta di controllarla e lei esplode, allontanandosi. Intanto il suo team si sfalda e i rapporti interni si spezzano, mentre Jay viene anche celebrato pubblicamente per un gesto “eroico” (un inseguimento a un ladro), in netto contrasto con il caos della sua vita personale. Arrivato in Toscana, Jay affronta anche il padre, freddo e respingente, e vede crollare un altro pezzo del suo mondo quando l’amico-agente Ron viene licenziato da un altro cliente.

Testo del monologo + note

Mio padre non c’era mai. Negli anni ‘70 e ‘80 era sempre sui set dei film. E quando ha iniziato a faticare, dopo che ha avuto un paio di quelli che molti di voi a Hollywood chiamano… “batoste”, o “fiaschi”... Perdonatemi, non sono dell’ambiente, non conosco il linguaggio. Flop. E che ora sono considerati veri classici dalla generazione Z. Quando il cinema gli ha voltato le spalle, dopo la sua terza bancarotta. Dopo che è stato costretto a vendere la sua amata villa, a Casa del Oro a Bel Air, e a spostarsi in un monolocale a Encino, ha sempre cercato di trovare soldi. Sognando il film successivo. E in punto di morte si è voltato verso di me e ha detto… “so come finisce il film. Parla di amore”.

"Mio padre non c’era mai.": attacco semplice, diretto; tono piano, non melodrammatico; breve pausa dopo “mai”, lascia che la frase pesi in sala; sguardo non fisso su nessuno, come un dato di fatto più che un’accusa.

"Negli anni ‘70 e ‘80 era sempre sui set dei film.": ritmo leggermente descrittivo, quasi da cronaca; la voce si fa un filo più neutra, come se stesse spiegando a chi non lo conosceva; piccolo gesto con la mano a indicare un “lontano nel tempo”.

"E quando ha iniziato a faticare, dopo che ha avuto un paio di quelli che molti di voi a Hollywood chiamano… “batoste”, o “fiaschi”...": rallenta su “ha iniziato a faticare”; micro-pausa prima di “un paio di quelli”, con un po’ di imbarazzo; l’ellissi (“…”) va giocata con una ricerca della parola, guardando magari qualcuno in platea; “batoste” e “fiaschi” leggermente marcati, quasi tra virgolette.

"Perdonatemi, non sono dell’ambiente, non conosco il linguaggio.": tono autoironico, un sorriso appena accennato; sguardo verso chi rappresenta “Hollywood” in sala; la frase serve a smorzare la tensione, come se si scusasse per essere fuori posto.

"Flop.": singola parola, secca; pausa prima e dopo; può essere detta guardando in basso o verso un punto preciso, come se fosse un termine che ha sentito mille volte ma che ancora gli pesa.

"E che ora sono considerati veri classici dalla generazione Z.": qui il tono si fa quasi paradossale; un accenno di incredulità e tenerezza insieme; leggero sorriso amaro, come a dire “troppo tardi per lui”.

"Quando il cinema gli ha voltato le spalle, dopo la sua terza bancarotta.": abbassa leggermente la voce; “il cinema gli ha voltato le spalle” detta con calma, senza enfasi, come un tradimento strutturale; pausa breve dopo “terza bancarotta”, lasciando un attimo di silenzio.

"Dopo che è stato costretto a vendere la sua amata villa, a Casa del Oro a Bel Air, e a spostarsi in un monolocale a Encino,": elenco quasi visivo; “amata villa” leggermente sottolineato, come se fosse una parola del padre; su “monolocale a Encino” il tono scende, più asciutto, mettendo in contrasto concreto l’ascesa e il declino.

"ha sempre cercato di trovare soldi.": detta in modo semplice, quasi stanco; sguardo che vaga, come ricordando telefonate, tentativi, richieste; niente giudizio esplicito, solo constatazione.

"Sognando il film successivo.": qui il ritmo rallenta; “sognando” va colorato di dolcezza e tristezza insieme; puoi alzare lo sguardo verso un punto lontano, come se vedessi quel film che non è mai arrivato.

"E in punto di morte si è voltato verso di me e ha detto…": abbassa il volume, porta il pubblico vicino; pausa lunga dopo “in punto di morte”; lo sguardo va in giù e poi si sposta come se rivedesse il letto, il momento; prepara delicatamente la frase successiva.

"“so come finisce il film. Parla di amore”.": tono morbido, quasi un sospiro; puoi imitare leggermente il modo di parlare del padre, senza caricatura; micro-pausa su “finisce il film”, poi lascia che “Parla di amore” esca pulito, senza ironia; dopo, silenzio pieno, nessun sorriso, solo il peso di quello che non è stato.

Analisi del monologo di Nathan al funerale di Peter in Jay Kelly (2025)"

Il monologo di Nathan al funerale del padre funziona perché rifiuta qualsiasi retorica commemorativa e sceglie una strada molto più scomoda: la verità emotiva. Non c’è idealizzazione, non c’è rabbia esplosiva, non c’è nemmeno il tentativo di “chiudere i conti” davanti a tutti. Nathan parla come un figlio che ha già elaborato il dolore, ma non lo ha mai davvero risolto. L’apertura (“Mio padre non c’era mai”) è secca, quasi brutale nella sua semplicità, e stabilisce subito il tono: non stiamo per ascoltare un elogio, ma una constatazione. Il riferimento agli anni sui set e ai “flop” serve meno a raccontare la carriera del padre e più a spiegare l’assenza cronica nella vita familiare. Quando Nathan si scusa per il linguaggio di Hollywood, emerge il suo essere fuori posto: è un figlio che parla a un sistema che ha divorato suo padre, non qualcuno che ne fa parte. Questo crea una distanza emotiva fortissima tra lui e la platea.

Il passaggio sul declino economico, le bancarotte, la vendita della villa, il monolocale, non è accusatorio. Nathan non giudica: elenca. Ed è proprio questa neutralità a rendere il dolore più incisivo. Il padre non smette mai di sognare il “film successivo”, e qui il monologo tocca il suo cuore tematico: il cinema come promessa infinita che rimanda sempre la vita vera. La battuta finale, riportata quasi sottovoce, ribalta tutto. In punto di morte, l’uomo che ha fallito come padre e come artista trova una verità semplice: il film parla d’amore. Non è una redenzione, è una rivelazione tardiva. Per l’attore che interpreta Nathan, la difficoltà sta nel non caricare questa frase di enfasi: deve sembrare un dono fragile, non una lezione. Il monologo si chiude lasciando un vuoto, non una consolazione.

Finale film "Jay Kelly"

Jay tocca il fondo: prova a recuperare Jessica/Jessie (la figlia maggiore), le chiede di partecipare al tributo in suo onore e ammette di aver scelto la fama al posto della famiglia, ma lei lo respinge: ormai ha una vita senza di lui. Jay si perde nei boschi e crolla, svuotato.

Il giorno dopo Ron sta per andarsene definitivamente, ma Jay lo ferma e si scusa. Ron chiarisce che non può più lavorare con lui, però resta per aiutarlo da amico: è l’unica presenza reale che Jay riesce ancora a trattenere.

Alla serata del tributo Jay è teso e “vede” mentalmente i volti del suo passato. In mezzo alla celebrazione, prende la mano di Ron: è un gesto semplice che dice che, per una volta, smette di recitare da solo. Alla fine, davanti alla standing ovation, Jay guarda in camera e dice: “Vorrei farne un’altra.”

Il senso della battuta è doppio: non parla solo di un altro film o di un’altra “take”, ma del desiderio di rifare il proprio film di vita, correggendo gli errori (figlie, amicizie, scelte). Non è una redenzione completa: è l’inizio di una consapevolezza, lasciata volutamente aperta.

Credits e dove vederlo

Regista: Noah Baumbach

Sceneggiatura: Noah Baumbach, Emily Mortimer

Cast: George Clooney (Jay Kelly); Adam Sandler (Ron Sukenick) Laura Dern (Liz); Billy Crudup ( Timothy Galligan)

Dove vederlo: Netflix

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