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~ LUCA FERDINANDI
Ci sono film che guardi. E poi ci sono film che ascolti. Che ti esplodono nelle orecchie prima ancora che nella mente. Jesus Christ Superstar è questo. È un musical che ti entra in testa con le note, ti resta addosso con le immagini, e ti cambia qualcosa dentro con le sue domande. È un atto d’amore e di rottura verso un racconto che per secoli è stato solo sacro, e che qui viene restituito alla sua materia più fragile: l’essere umano.
Io questo film l’ho visto da ragazzino, e come spesso succede con i film dell’infanzia, l’ho capito molto dopo. La prima volta erano solo canzoni, colori strani, corpi che danzavano nel deserto. Ma c’era qualcosa di magnetico. Di indecifrabile. Una tensione che non somigliava a nulla. Oggi, ogni volta che lo riguardo, sento che c’è ancora qualcosa da capire. Qualcosa da decifrare.
Diretto da Norman Jewison, con le musiche di Andrew Lloyd Webber e i testi di Tim Rice, il film arriva nel 1973 e si prende una libertà che nessuno prima aveva osato davvero: rendere la figura di Gesù una questione terrena, umana, contemporanea. Siamo in piena controcultura. Anni post-‘68. Guerra del Vietnam. Disillusione. Fame di miti nuovi. In questo clima, la storia di Cristo non è solo quella che si legge nei Vangeli, ma una metafora vivente di tutti i leader spirituali, politici e sociali che sono stati osannati, fraintesi e poi sacrificati.
Il film sceglie di ambientarsi visivamente in un non-luogo: la Palestina viene mostrata attraverso location aride e potenti, ma i costumi sono un mix di epoche e simboli. C’è il teatro, c’è la strada, ci sono carri armati, giubbotti militari, occhiali da sole. E poi c’è la musica. Il rock. Quello sporco, urlato, distorto. La colonna sonora è la spina dorsale del film. Non accompagna le scene, le guida. Ogni canzone è un atto drammatico. Un punto di frattura. Un monologo emotivo.
Una delle cose più potenti di Jesus Christ Superstar è il modo in cui scardina ogni distinzione rigida tra ciò che è sacro e ciò che è profano. Non lo fa per provocare, ma per liberare. Il sacro, qui, non è una questione di incenso e altari. È il dolore, il dubbio, l’amore, il tradimento. Il profano non è bestemmia, ma critica, conflitto, confronto.
Il film non chiede a nessuno di scegliere da che parte stare. Mostra il peso delle scelte. Gesù non viene rappresentato come una figura gloriosa e luminosa, ma come un uomo stanco, fragile, pieno di paure. Un uomo che deve fare i conti con la fede degli altri, prima ancora che con la propria.
E Giuda… beh, Giuda è il cuore pulsante di questa rivoluzione narrativa. Interpretato da uno straordinario Carl Anderson, Giuda è il personaggio più complesso del film. Il più tormentato. Il più cosciente. Già nella prima canzone, “Heaven on Their Minds”, capiamo che non siamo davanti al traditore biblico come ce l’hanno sempre raccontato. Giuda ama Gesù. È spaventato da lui. È arrabbiato con lui. Non lo tradisce per denaro, ma per paura. Perché vede nel suo amico qualcosa che non riesce più a decifrare.
Listen, Jesus, do you care for your race?
Don’t you see we must keep in our place?”
Giuda è il personaggio che si fa carico di una visione politica, quasi marxista, della situazione. Mette in dubbio la spiritualità di Gesù non per distruggerla, ma per salvarla. E la sua caduta – la sua autodistruzione – è una delle sequenze più devastanti del film. La canzone “Judas' Death”, con quel crescendo doloroso e allucinato, è uno dei momenti più sinceri e laceranti che io abbia mai visto in un musical.
Quando torna alla fine, vestito di bianco, in quel “Superstar” danzato e cantato con energia quasi ultraterrena, sembra un’anima che cerca ancora risposte. Una presenza che non accusa, ma interroga.
Ted Neeley interpreta Gesù con una dolcezza tesa, con una voce che non cerca mai il lirismo ma si spezza, si arrampica, grida. La sua interpretazione è costruita tutta su una linea sottile: quella tra la fede e la fragilità. Non è mai “maestoso”. Non è un'icona. È un ragazzo pieno di paura. Che si trova schiacciato da un mito che cresce troppo in fretta intorno a lui. Il momento più alto, il punto di rottura emotiva, arriva con “Gethsemane (I Only Want to Say)”. È un monologo interiore urlato al cielo. Una richiesta. Un’accusa. Una resa. Gesù non parla al Padre, parla a se stesso. Si domanda perché. Si chiede se può tirarsi indietro. Si spezza.
“Why should I die?
Can you show me now that I would not be killed in vain?”
Il dolore, la voce che si incrina, la tensione nel corpo. È una scena che non ha bisogno di effetti speciali. C’è solo un uomo e il suo destino. E la paura di non riuscire a sopportarlo.
Yvonne Elliman interpreta Maria Maddalena con una grazia silenziosa. Non è lì per fare la figura “femminile” della storia. È un personaggio che assiste, che cura, che ama. Ma non capisce. E questa incomprensione è forse la cosa più sincera e dolce della sua figura.
La sua canzone più celebre, “I Don’t Know How to Love Him”, è una confessione. Non è una dichiarazione d’amore. È una domanda.
“He's just a man, and I've had so many men before…
In very many ways, he's just one more…”
E invece no. Gesù non è “uno dei tanti”. Ma proprio perché è diverso, la confonde. È come se Maria Maddalena rappresentasse tutti noi, nel momento in cui ci troviamo davanti a qualcosa – o qualcuno – che non possiamo spiegare razionalmente, ma che ci tocca nel profondo.
Il film non risparmia nessuno. Ponzio Pilato è un burocrate stanco, che non vuole rogne, che non capisce cosa abbia fatto Gesù per meritare la morte, ma che alla fine si arrende al volere della folla. La sua canzone, “Pilate’s Dream”, è quasi un lamento in anticipo. Un presentimento che sa già di sconfitta. Erode, invece, è il teatro dentro il teatro. Il suo numero, “King Herod’s Song”, è un cabaret grottesco. Una derisione. Una sfida piena di sarcasmo. E in quel momento il film si prende il rischio massimo: trasformare la spiritualità in spettacolo, e lo spettacolo in giudizio.
E chi guarda è costretto a fare i conti con il proprio ruolo di spettatore. Perché anche noi, in fondo, siamo la folla. La scena finale. La crocifissione. Nessuna colonna sonora trionfale. Nessun coro celestiale. Solo Gesù, solo, che muore. Un’inquadratura che si allarga. Il cielo. Il silenzio. E poi il pullman che riparte. Gli attori che tornano a casa. Ma Gesù no. Lui non c’è più. È rimasto lì, tra le rocce, nel mito, nella domanda. È un finale che non chiude. Che ti lascia qualcosa sospeso. Perché Jesus Christ Superstar non è interessato a darti risposte. Vuole solo che tu ti faccia le domande giuste.
Jesus Christ Superstar è un musical generazionale nel senso più profondo del termine. Non è solo un’opera dei suoi anni. È un’opera che parla a ogni generazione che si interroga sul potere, sulla fede, sull’identità.
I ragazzi del '70 ci hanno visto la rabbia contro l’autorità.
Oggi possiamo vederci la fragilità dell’ideale.
E domani, forse, ci vedremo qualcos’altro ancora.
È un film che non ha bisogno di aggiornarsi, perché è già fuori dal tempo.
Senti cosa ti dice oggi, adesso, nel preciso momento della tua vita in cui ti trovi. Perché il film è lo stesso, ma tu sei cambiato.
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