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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Rosaria in Mia Famiglia di Eduardo De Filippo si colloca come una delle confessioni più intime dell’opera. E’ la messa a nudo di una generazione che si trova sospesa tra due mondi: quello dei padri, legato a valori tradizionali e alla lentezza dei sentimenti, e quello dei figli, travolto da una modernità più pragmatica, disincantata e spesso cinica. Rosaria cerca nello sguardo del padre non un giudice, ma un testimone che sappia ricordare e riconoscere la sua innocenza. In questo passaggio, il legame familiare si intreccia con il tema della donna che tenta di affermare la propria libertà in una società che le chiede di adattarsi a un modello maschile di relazioni.
Non complicare le cose. Non pensare: questa cosa è così, mentre invece vuole significare questo e quest’altro. Perché vuoi confondere momenti con momenti e fatti con fatti? Per certi fatti insignificanti può diventare indispensabile, e persino innocente la simulazione di un sentimento. Ma io non ti ho mai guardato così. Significa, allora, che il fatto è importante, no? E tu non devi confondere questo momento con altri momenti.
(Poi pensando a qualcosa che la intenerisce profondamente, si avvicina al padre per parlargli più da vicino, con maggiore dolcezza e meno voce) Sì, un’altra volta ti ho guardato così… e tu non puoi averlo dImenticato. Ero piccola piccola… ero seduta sulle tue ginocchia e ti torturavo la cravatta. Ti chiesi: “Papà, i figli come nascono?” Ora ti potrei dire parola per parola come mi rispondesti. Fosti bravo. Dicesti: “Quando due persone si amano, si sposano per vivere insieme. Infatti, quando queste due persone dormono vicine, i loro aliti si confondono, e nascono i figli.” Mi bastò… Ora, papà, io ti guardo come allora, come quando ero seduta sulle tue gambe, e torturavo la cravatta… (Sorride teneramente e dopo una breve pausa dice con semplicità e convinzione) Ti posso guardare come ti ho guardato, e tu non devi sentirne disagio.
Vedi, papà, se tu sapessi per quanto tempo ho cercato di risolvere da sola i problemi che mi riguardavano. E quale, secondo te, poteva essere quello che più mi stava a cuore, e che mi dava maggiore pensiero, se non di trovare marito? E tu che cosa avresti potuto fare, povero papà, per consigliarmi e facilitarmi il compito? Che ne sai tu della nostra generazione? E credi che l’astuzia della tua esperienza poteva essere utile a me come lo fu a te all’epoca tua? Capii che dovevo fare tutto da me. E ti pare facile agire da soli senza urtare contro il modo di vedere e di sentire degli altri?
Ecco perché cercai di essere libera, incontrollata. Sì, per non incontrare i tuoi occhi che mi rimproveravano ogni passo che facevo. Volli studiare disegno e pittura, e così conobbi un sacco di ragazzi, i quali mi sfottevano o perché non capivo le barzellette oscene o perché si passarono la voce che Rosaria Stigliano cercava marito.
Ma sai tu la miseria che si sente nell’animo quando un giovane ti offre di andare in gita con lui, e poi, al dunque, invece di limitare i suoi desideri alla gioia di scambiarsi idee, pensieri e belle parole, vuole ben altro da te… e ti ironizza, e ti pianta se gli hai resistito? (Ripetendo le affermazioni dei ragazzi moderni da lei avvicinati durante il periodo di cui sta parlando)“Ma dove vivi? Povera tocca, aspetta la Befana da sveglia! Ma tu sei imbalsamata?” E pure le amiche mi dicevano le stesse cose: “Ma che aspetti? Gli uomini oggi vanno al sodo… Io mi sono fidanzata così…”
E conobbi Corrado. Non volevo perderlo… Lo amavo veramente, con tutta la forza della mia vita! Volevo sentirmi apprezzata da lui, considerata come tutte le altre ragazze. Volevo mettermi all’altezza delle sue teorie e del suo modo d’intendere la vita di una ragazza d’oggi. Se m’avesse ironizzata lui, sarei morta dal dolore: e gli raccontai la storia di un errore commesso… (Ora il tono della sua voce diventa dolcissimo) Ma credimi, papà, io sono, fisicamente, come quando sedevo sulle tue gambe, quella volta, e ti torturavo la cravatta…
Mia Famiglia debutta nel 1953. Eduardo è in una fase particolare della sua carriera: ha già consolidato la sua centralità nella drammaturgia italiana, ma si trova immerso in quella stagione in cui il tema del nucleo familiare diventa il laboratorio privilegiato per interrogarsi sul rapporto tra individuo e società. Se nelle opere precedenti la guerra, la miseria e le trasformazioni sociali erano al centro, qui si stringe lo sguardo verso le dinamiche intime di una famiglia borghese, con un’attenzione chirurgica alle fratture emotive.
Il protagonista è Alberto Stigliano, uomo maturo, padre e marito, che si trova a fare i conti con l’estraneità progressiva tra lui e la sua famiglia. Il nodo drammatico non è un evento esterno (guerra, povertà, malattia), ma la progressiva erosione dei legami affettivi e comunicativi. Il vero conflitto è invisibile: è lo scarto tra ciò che Alberto rappresenta — la figura paterna tradizionale — e la realtà che lo circonda, fatta di figli che hanno altri valori, una moglie distante e una casa che non gli appartiene più.
Temi centrali
La crisi della paternità Alberto si percepisce come un sopravvissuto dentro le mura domestiche. La sua autorità, un tempo data per scontata, si dissolve di fronte a un mondo che corre veloce. Eduardo coglie la fragilità di un padre che non riconosce più i suoi figli e che non viene riconosciuto da loro.
La famiglia come luogo di solitudine In questa commedia la casa non è rifugio, ma luogo di isolamento. Eduardo ribalta l’immaginario della “famiglia rifugio” e mette in scena il paradosso di un uomo che si sente più estraneo tra le mura domestiche che nel mondo esterno.
Il tempo che consuma La lentezza con cui Alberto si rende conto del suo essere “fuori tempo” diventa uno specchio di una società che nel dopoguerra corre verso la modernizzazione. Eduardo non lo dice mai apertamente, ma tra le righe emerge la paura che i valori antichi vengano travolti.
Rosaria rievoca un momento tenerissimo: da bambina chiede al padre come nascono i figli. La risposta semplice e poetica che riceve rimane impressa come un ricordo fondativo. Tornare a quel ricordo significa cercare rifugio in un tempo in cui il rapporto col padre era immediato, senza incomprensioni né distanze. Eduardo qui utilizza la memoria come ponte: Rosaria non vuole soltanto confessarsi, ma riattivare un contatto con l’uomo che sente ormai lontano. Rosaria si rende conto che il padre non può più guidarla nel mondo reale, perché quel mondo è cambiato radicalmente. L’esperienza di Alberto non basta più a orientarla: le dinamiche sociali, il rapporto con i ragazzi, il giudizio delle amiche appartengono a una realtà inedita. La giovane donna è costretta a cercare da sola il proprio posto, e questo la porta a muoversi tra desiderio di libertà e paura del giudizio.
Eduardo fa emergere con lucidità la condizione femminile del dopoguerra. Rosaria subisce la derisione dei ragazzi, la pressione delle amiche, la minaccia di essere considerata “fuori dal tempo” se non si adegua alle nuove regole del corteggiamento e della sessualità. Il suo amore per Corrado diventa allora un banco di prova: per non perderlo, è pronta a piegarsi alle aspettative, pur mantenendo dentro di sé un senso di purezza che rivendica davanti al padre. La conclusione del monologo è di una delicatezza disarmante: Rosaria dichiara al padre che, fisicamente, è rimasta “come allora”, come la bambina che gli sedeva sulle ginocchia. Non è un’affermazione di orgoglio, ma un bisogno disperato di essere creduta, di ricostruire la fiducia. Eduardo concentra qui la contraddizione più forte del testo: una donna che si misura con un mondo moderno, ma che chiede al padre di riconoscerla ancora come figlia, intatta agli occhi della sua memoria.
Il monologo di Rosaria in Mia Famiglia rappresenta una delle pagine più raffinate della drammaturgia di Eduardo. E’ l’espressione di un’intera generazione che fatica a trovare un equilibrio tra il peso della tradizione e la brutalità del presente. Eduardo affida a Rosaria la capacità di dire ciò che spesso i padri e i figli non riescono a comunicare: la necessità di essere visti, compresi e accettati nella propria vulnerabilità.
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