Monologo - Adrien Brody in \"The Brutalist\"

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~ LA REDAZIONE DI RC

Introduzione al monologo

Il monologo di László Tóth è un momento emblematico di The Brutalist che mette in luce il cuore tematico del film: il rapporto tra memoria, arte e resilienza. Qui László riflette sul significato più profondo dell'architettura, come costruzione fisica, ma come simbolo di sopravvivenza, resistenza e speranza in un mondo dominato dal caos e dalla distruzione. Il suo discorso è intriso di un’idea quasi filosofica degli edifici come entità che trascendono il tempo e la politica, portando con sé una missione sociale e morale.

I miei edifici

MINUTAGGIO: 1:19:39-1:23:50

RUOLO: László Tóth
ATTORE:
Adrien Brody
DOVE:
Al cinema!



ITALIANO


Nessuna cosa è spiegabile di per se stessa. C'è una migliore descrizione di un cubo rispetto a quella della sua costruzione? C'è stata una guerra. Eppure, per quanto mi è dato sapere, molti degli edifici che ho progettato sono sopravvissuti. Loro rimangono, saldi, nella città. Quando la terribile memoria di quello che è successo in Europa smetterà di umiliarci, nutro la speranza che i miei progetti di allora saranno politicamente utili, stimolando i rivolgimenti che così di frequente scandisco i cicli dei popoli. Ci sono già i segnali di una diffusa retorica fatta di collera, paura. Un fiume in piena, di simili trivialità potrebbe rompere gli argini. Ma i miei edifici, li ho concepiti per resistere anche alle erosioni delle rive del Danubio.

The Brutalist

The Brutalist (2025) è un film che affonda le sue radici nel dramma storico e personale, raccontando una storia di sopravvivenza, sogni infranti e compromessi morali, attraverso lo sguardo di László Tóth, un architetto ebreo ungherese sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti. Diretto con mano elegante e senza fronzoli da Brady Corbet, il film si presenta come una riflessione sul peso delle ambizioni personali, sul costo della memoria e sull’identità in un mondo che accoglie e respinge con la stessa facilità. László arriva negli Stati Uniti nel 1947, portandosi dietro il bagaglio di un passato segnato dalla detenzione nei campi di concentramento. L’incipit del film immerge il pubblico in un’atmosfera soffocante e claustrofobica, con flashback che mostrano gli orrori vissuti dal protagonista. La guerra, che dovrebbe essere ormai finita, lascia però strascichi devastanti, non solo nei ricordi ma anche nella società che si proclama terra di libertà. L’America, infatti, si dimostra ben lontana dal paradiso promesso: all’arrivo a Ellis Island, il processo di immigrazione è freddo e umiliante, e László capisce subito che il "sogno americano" per uno straniero come lui è una realtà distorta.


La situazione si aggrava quando László scopre che sua moglie Erzsébet e sua nipote Sophia non sono riuscite a entrare negli Stati Uniti e sono rimaste bloccate in Austria, vittime delle restrizioni e delle lentezze burocratiche imposte alle quote migratorie dell’epoca. László, già fragile e segnato dal passato, si ritrova solo e spaesato nella frenesia alienante della Grande Mela. L’incontro con il cugino Attila, l’unico parente che avrebbe potuto offrirgli un supporto, si rivela una delusione amara: Attila è un opportunista che tratta László con freddezza, rendendo evidente la precarietà dei legami familiari.


Nella sua deriva, László trova un improbabile alleato in Gordon, un afroamericano che lotta a sua volta contro le disuguaglianze razziali e che condivide con László un rifugio effimero nella dipendenza dall’oppio. Questa strana amicizia diventa una sorta di ancora per entrambi, ma non rappresenta una via di salvezza. Al contrario, è un’ulteriore conferma della difficoltà di sfuggire alla marginalizzazione e al peso dei propri traumi. La svolta narrativa arriva quando László viene contattato per un incarico da Harrison Lee Van Buten, un magnate enigmatico e imprevedibile, che incarica l’architetto di ristrutturare una stanza nella sua lussuosa villa. Questa opportunità sembra finalmente il primo passo verso una redenzione personale e professionale, un modo per dimostrare il suo talento e costruirsi un futuro. Tuttavia, Van Buten si rivela un personaggio complesso e manipolatore, che con le sue richieste eccessive e il suo comportamento instabile spinge László in una spirale di compromessi sempre più profondi. La villa diventa quasi un simbolo: un luogo di grandezza e decadenza, dove László deve confrontarsi con la propria morale e le proprie ambizioni. Il progetto, che inizialmente appare come un'opportunità, si trasforma in una trappola, mettendo il protagonista di fronte alla domanda centrale del film: quanto è disposto a sacrificare per realizzare i propri sogni? E a quale costo personale ed etico?

Analisi Monologo

"Nessuna cosa è spiegabile di per se stessa." L’apertura del monologo introduce una prospettiva filosofica: László sottolinea come ogni elemento, ogni oggetto, ogni creazione umana non esista mai in isolamento ma sia sempre parte di un contesto più grande. È un modo per rivelare la sua visione del mondo e dell’architettura. Un cubo – simbolo archetipico di perfezione geometrica e stabilità – non è definito solo dalla sua forma, ma dal processo di costruzione che l’ha reso tale. In questo concetto si riflette anche la sua personale esperienza: László stesso è un "edificio" costruito sulle fondamenta instabili di un passato di guerra, sofferenza e perdita.

"C'è stata una guerra. Eppure, per quanto mi è dato sapere, molti degli edifici che ho progettato sono sopravvissuti." Qui, László pone un parallelo tra l'architettura e la memoria. La guerra ha distrutto vite e città, ma i suoi edifici sono rimasti, quasi a simboleggiare una forma di immortalità. Questo pensiero, però, è intriso di un’ambivalenza: se da un lato celebra la resistenza delle sue opere, dall’altro evidenzia la fragilità dell’essere umano, che non può contare su una simile longevità. Gli edifici diventano testimoni silenziosi della tragedia umana, sopravvivendo a chi li ha progettati e costruiti, portando avanti una memoria che non può essere cancellata. È anche un modo per László di legare il suo valore personale al suo lavoro: se i suoi edifici sono sopravvissuti, allora anche lui ha lasciato un segno nel mondo.


"Quando la terribile memoria di quello che è successo in Europa smetterà di umiliarci..." Questa frase è centrale per comprendere il rapporto di László con il passato e il presente. Parla della memoria come qualcosa di umiliante, un peso che schiaccia chi l’ha vissuta. Ma c’è anche la speranza che un giorno questa memoria possa trasformarsi, da ferita aperta a qualcosa di "politicamente utile". László crede che l’arte – e in particolare l’architettura – possa contribuire a stimolare un cambiamento sociale e politico. Qui emerge il suo idealismo: i suoi edifici non sono solo strutture, ma strumenti per innescare un dialogo, per ispirare le persone a costruire un futuro diverso. C’è un sottotesto più oscuro: il passato non può essere veramente dimenticato, e László sembra consapevole che i cicli della storia, spesso violenti e distruttivi, continueranno. "Ci sono già i segnali di una diffusa retorica fatta di collera, paura." In questa parte del monologo, László si dimostra acuto osservatore del presente. La "collera" e la "paura" che identifica come elementi dominanti della retorica contemporanea sono sintomi di un mondo che rischia di ripetere gli errori del passato. Questo riferimento è carico di presagi: il fiume in piena di cui parla non è solo una metafora del caos, ma una visione concreta di ciò che potrebbe accadere se l’umanità non impara dalla storia. László, come architetto, sembra voler opporsi a questo ciclo distruttivo, cercando di costruire qualcosa di permanente e solido, non solo nel senso materiale ma anche in quello morale.


"Ma i miei edifici, li ho concepiti per resistere anche alle erosioni delle rive del Danubio." La chiusura del monologo è potente e simbolica. Il riferimento al Danubio, fiume che attraversa l’Europa e che ha visto secoli di storia – compresi i momenti più bui della guerra – aggiunge profondità emotiva al discorso. Gli edifici di László non sono solo strutture, ma un manifesto di resistenza contro il tempo, contro la natura e contro le tragedie umane. Questo è il suo lascito, la sua risposta alla precarietà dell’esistenza: creare qualcosa che duri, che resista, che sopravviva. Eppure, c’è un’ironia tragica in tutto ciò: per quanto possano essere resistenti i suoi edifici, László sa che nulla può davvero fermare le forze implacabili della storia.

Conclusione

Chuck si presenta come un personaggio calcolatore, teatrale e profondamente cinico, capace di usare la paura e la dimostrazione pratica del potere per ottenere quello che vuole. L'uso delle luci, della barriera del Tamigi e della metafora del disco rigido costruisce un crescendo di tensione che cattura l'attenzione dello spettatore.

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