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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di An-na in The Great Flood rappresenta il cuore emotivo e concettuale del film. In poche frasi, il personaggio trasforma il legame madre-figlio in un esperimento da cui dipende la sopravvivenza dell’umanità. An-na parla con linguaggio tecnico, quasi distaccato, ma ogni parola nasconde un sacrificio irreversibile: rinunciare a sé stessa per diventare il soggetto di una ricerca infinita.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Finale del film (con spoiler)
Credits e dove trovarlo
Il film si apre in modo intimo e straniante. An-na cerca di dormire accanto al figlio Ja-in, un bambino di sei anni che indossa degli occhialini da nuoto e insiste che fuori ci sia una piscina. Il gioco innocente si mescola subito a un senso di inquietudine: Ja-in invita la madre a infilarsi sotto le coperte e a trattenere il respiro contando fino a trenta. Mentre An-na conta, strani rumori iniziano a farsi strada, fino a rivelarsi per quello che sono: un violento temporale. La quotidianità sembra riprendere il suo corso. An-na parla con la madre, una figura opprimente e ansiosa, mentre Ja-in gioca con la sua tavoletta grafica. Ma qualcosa si spezza improvvisamente: il pavimento di casa comincia ad allagarsi. Affacciandosi alla finestra, An-na vede l’impensabile: la città è completamente sommersa dall’acqua. Una voce robotica annuncia l’inondazione. Ja-in è entusiasta, vorrebbe uscire a giocare, mentre la madre entra in modalità sopravvivenza.
An-na prepara una valigia, prende le medicine del figlio e riceve una telefonata da un responsabile della sicurezza, che le fornisce istruzioni per mettersi in salvo. Poco dopo, però, la corrente salta. Ja-in si nasconde, spaventato dopo essere stato rimproverato, e An-na deve cercarlo nel caos crescente. Quando finalmente escono dall’appartamento, l’edificio è in preda al panico: gli inquilini urlano, l’acqua sale, le scale principali sono intasate da chi tenta di fuggire verso l’alto. Seguendo un percorso secondario, An-na riesce a salire con il bambino, assistendo a scene di puro terrore: persone trascinate via dalla corrente, oggetti che diventano armi. Per tranquillizzare Ja-in, An-na inizia a cantare mentre salgono. Arrivati a un piano superiore, trovano rifugio insieme ad altri sopravvissuti, ma il pericolo non è finito. In una stanza del condominio, An-na vede arrivare verso la finestra un’onda anomala.
L’impatto con l’acqua scatena un trauma profondo. An-na rivive un ricordo del passato: lei, il marito e Ja-in intrappolati in auto durante un incidente in acqua. Tornata nel presente, cerca disperatamente aria e le medicine del figlio, ma tutto viene risucchiato dalla marea. Sott’acqua, Ja-in perde conoscenza. Anche An-na sta per annegare, quando il responsabile della sicurezza riesce miracolosamente a raggiungerli, portarli in superficie e rianimare il bambino. Da questo momento il film si apre a una dimensione più ampia. L’uomo rivela che l’acqua è salata per un motivo preciso: un asteroide ha colpito l’Antartide, causando una reazione a catena che ha sommerso metà del Giappone. An-na scopre che il suo lavoro su un’IA avanzata è cruciale per il futuro dell’umanità. Sono stati creati esseri artificiali in grado di riprodursi, ma manca ancora un’Intelligenza Artificiale dotata di emozioni: l’Emotion Engine.
Durante la fuga, emergono verità sempre più inquietanti. Ja-in ha crisi fisiche senza le sue medicine. L’uomo suggerisce ad An-na che potrebbe “ricrearlo”, riportandolo allo stato di quella mattina, perché possiede tutti i suoi dati. An-na è devastata: per lei Ja-in non è un insieme di dati, ma suo figlio. Un flashback rivela la verità: Ja-in e un’altra bambina sono creazioni dell’Emotion Engine, esperimenti progettati per sviluppare emozioni autentiche attraverso l’esperienza.
Il film continua alternando presente, passato e visioni. An-na cade di nuovo in acqua, prova a salvare una bambina intrappolata in un ascensore, incontra saccheggiatori, rivive l’incidente in cui fu costretta ad abbandonare il marito per salvare il figlio. Tutto sembra ripetersi con variazioni minime, come se la realtà fosse bloccata in un loop. Fino a quando, la donna arriva sul tetto. Qui, viene separata con forza dalle forze speciali. Il bambino viene rasato a zero e l'uomo che era con lei ucciso: non esiste nessun rifugio. La donna dice qualcosa all'orecchio del bambino prima di andarsene, e partire su una missione spaziale, diretti verso delle navi da dove dovranno nascere "i nuovi umani" per ripopolare la terra. Qui, spiega il suo esperimento: creare una mamma e un figlio in maniera digitale, con le loro emozioni. La madre dovrà inseguire il figlio per raggiungerlo, nonostante alcune difficoltà. Ma mentre spiega l'esperimento, una scheggia di un asteroide colpisce la navicella.
Incredibilmente, ci troviamo di nuovo nella mattina del disastro, con la fuga di An-na, dell'uomo, e del figlio. E ancora, ancora, ancora, An-na perde suo figlio, in sequenze sempre più ripetitive e vicine. aun videogioco. Gradualmente, An-na comprende l’orrore finale: ciò che stiamo vedendo non è solo una catastrofe reale, ma una simulazione. Un pattern che si ripete all’infinito. La donna sta rivivendo, migliaia di volte, la ricerca del figlio in un edificio che affonda. Ogni ciclo è un tentativo, un livello superato o fallito. Un dettaglio di regia lo conferma: il numero sulla maglietta di An-na cambia a ogni ripetizione, superando i 20.000 tentativi. Il responsabile della sicurezza non è un antagonista, ma un osservatore. È lì per capire cosa farà An-na, se sarà capace di abbandonare Ja-in come lei stessa fu costretta a fare con il marito. Ma An-na non rinuncia mai. Anche quando scopre che non esiste alcun rifugio, che l’umanità sta per estinguersi, continua a cercare suo figlio.
Nel cuore della simulazione, An-na ritrova Ja-in nascosto in un armadio. Il bambino le ricorda le parole che lei stessa gli aveva detto all’inizio di tutto: di nascondersi lì e aspettare, perché la mamma sarebbe tornata a cercarlo. È il punto di rottura emotivo del film.

Il bambino già lo avete. Devo occuparmi della madre, giusto? Imposterò la madre come soggetto, e farò si che il bambino sparisca. Il soggetto affronterà molti ostacoli per cercare suo figlio. Se fallirà, dovrà ricominciare a cercarlo, ma se dopo innumerevoli tentativi il soggetto non riuscirà a ricongiungersi, l’umanità si estinguerebbe completamente. Per l’esperimento sarò io il soggetto. Inviate i miei ricordi con quelli di Ja-in. Lui mi sta aspettando.
“Il bambino già lo avete.”: attacco asciutto, senza supplica; sguardo fermo e pratico, come a chiudere una premessa; micro-pausa dopo “bambino” per far sentire che sta parlando di lui come di una variabile… e che questo le costa.
“Devo occuparmi della madre, giusto?”: domanda retorica, non richiesta di approvazione; tono tecnico con una vibrazione sotto (quasi impercettibile) su “madre”; sguardo rapido per leggere la reazione dell’interlocutore, poi torna neutro.
“Imposterò la madre come soggetto, e farò si che il bambino sparisca.”: qui la difficoltà è dire l’orrore con linguaggio da laboratorio; appoggio su “Imposterò” (decisione già presa); micro-pausa prima di “sparisca”, e “sparisca” va detto più piano, come una lama che non vuoi guardare.
“Il soggetto affronterà molti ostacoli per cercare suo figlio.”: ritmo lineare, da protocollo; su “suo figlio” si apre una crepa: non cambiare tono in melodramma, basta un rallentamento minimo; sguardo che scivola via un istante, come se vedesse già quelle scale, quell’acqua.
“Se fallirà, dovrà ricominciare a cercarlo,” qui entra la meccanica del loop; pausa dopo “fallirà”; su “dovrà” metti necessità, non minaccia; “ricominciare” deve pesare, come una condanna ripetuta.
“ma se dopo innumerevoli tentativi il soggetto non riuscirà a ricongiungersi, l’umanità si estinguerebbe completamente.”: frase lunga, va guidata con respirazione controllata; micro-pausa su “innumerevoli tentativi” (visualizza il numero senza dirlo); “ricongiungersi” è la parola emotiva—non enfatizzarla, falla tremare appena; su “si estinguerebbe completamente” evita il tono apocalittico: è un dato, ed è proprio questo a far paura.
“Per l’esperimento sarò io il soggetto.”: dichiarazione definitiva; respiro pieno prima di “io”; sguardo diretto, stabile; niente eroismo, niente martirio: è un atto di responsabilità fredda, e sotto c’è amore.
“Inviate i miei ricordi con quelli di Ja-in.”: qui la voce si fa più morbida senza diventare fragile; pausa dopo “miei ricordi” (come se li sentisse staccarsi dal corpo); pronuncia “Ja-in” con cura, è l’unico nome che rompe davvero la tecnicalità; sguardo che si abbassa un attimo, poi si ricompone.
“Lui mi sta aspettando.”: chiusa intima, quasi privata; abbassa il volume, rallenta; “aspettando” va lasciato sospeso, come un filo; dopo la frase, silenzio lungo—non per effetto, ma perché An-na ha già attraversato la fine.
Il monologo di An-na è uno dei momenti più radicali e silenziosamente devastanti del film, perché racchiude in poche frasi una scelta irreversibile: trasformare l’amore materno in un meccanismo di sopravvivenza per l’intera umanità. An-na non parla come una madre disperata, ma come una scienziata che ha già attraversato il dolore e lo ha tradotto in struttura. Il linguaggio è tecnico, preciso, quasi freddo, e proprio per questo lascia intravedere il sacrificio immenso che sta compiendo.
Quando afferma che “il bambino già lo avete”, An-na compie una separazione brutale tra sé e Ja-in. È una frase che suona amministrativa, ma è il primo atto di rinuncia: il figlio viene trattato come una variabile già acquisita, mentre l’attenzione si sposta sulla madre. La domanda successiva non è una richiesta di conferma, ma una verifica funzionale. An-na sta già pensando in termini di sistema, non di legame. Questo passaggio è fondamentale perché mostra come il personaggio stia scegliendo di sacrificare la propria identità privata per assumere un ruolo universale. La descrizione dell’esperimento è il cuore del monologo. An-na espone il loop che diventerà l’ossatura narrativa del film: una madre programmata per cercare il figlio attraverso ostacoli infiniti, ricominciando ogni volta in caso di fallimento. Qui il linguaggio resta impersonale (“il soggetto”), ma il contenuto è profondamente autobiografico. Ogni parola anticipa ciò che abbiamo visto e che vedremo ancora: scale allagate, tentativi falliti, ripetizioni senza fine. Il paradosso è che An-na parla di tutto questo senza pathos, come se la sofferenza fosse già stata accettata come condizione necessaria.
Il passaggio sull’estinzione dell’umanità in caso di fallimento è cruciale perché sposta il peso emotivo dal personale al collettivo. Tuttavia, An-na non usa questa conseguenza per giustificarsi o per cercare approvazione. Non c’è eroismo dichiarato. L’umanità diventa una posta in gioco astratta, quasi secondaria rispetto alla verità più intima: se una madre smette di cercare il figlio, tutto è perduto. Il film suggerisce che la sopravvivenza della specie dipende non dalla tecnologia, ma dalla perseveranza emotiva. La frase “per l’esperimento sarò io il soggetto” è il punto di non ritorno. Non è una rivelazione drammatica, ma una constatazione. An-na non si offre, si assume la responsabilità. In quel momento smette definitivamente di essere solo una scienziata o solo una madre: diventa il ponte tra le due cose. La richiesta di unire i suoi ricordi a quelli di Ja-in rende esplicito ciò che era rimasto implicito fino a quel momento: l’esperimento non funziona senza una memoria condivisa, senza un legame reale. Le emozioni non possono essere simulate dal nulla, devono nascere da un vissuto autentico.
La chiusura del monologo, “lui mi sta aspettando”, rompe per la prima volta il registro tecnico. È una frase semplice, privata, quasi fuori luogo rispetto a tutto ciò che la precede. Ed è proprio qui che il personaggio si scopre. An-na non sta più parlando da scienziata né da soggetto sperimentale, ma da madre. Non c’è promessa di ritorno, non c’è certezza di successo. C’è solo l’idea di un’attesa, che diventa il motore eterno della simulazione. In scena, questo monologo funziona solo se l’attrice resiste alla tentazione di “sentire troppo”: l’emozione deve restare compressa, perché il vero strazio non è nel pianto, ma nella scelta lucida di continuare a cercare all’infinito.

Il finale rivela definitivamente il senso di tutto. An-na, morente su un’astronave, sceglie di diventare lei stessa il soggetto dell’esperimento. I suoi ricordi vengono uniti a quelli di Ja-in. La simulazione dell’inondazione non è altro che un ambiente emotivo progettato: una madre che insegue eternamente il figlio. Un motore emotivo puro, basato sull’amore, sulla perdita e sulla determinazione. Quando An-na, all’interno della simulazione, riesce finalmente a restituire gli occhialini a Ja-in e a salvarlo, il sistema si blocca. L’esperimento ha funzionato. L’Emotion Engine è nato. L’umanità può tornare sulla Terra. Nel finale, An-na si risveglia insieme al figlio e ad altre navicelle che rientrano sul pianeta. Non è solo una vittoria tecnologica, ma una vittoria emotiva: l’amore materno, reiterato all’infinito, diventa la chiave per la rinascita dell’umanità.
Regista: Kim Byung-woo
Sceneggiatura:Kim Byung-woo, Han Ji-su
Produttore: Kim Chun-kyoung
Cast: Kim Da-mi: An-na Koo Park Hae-soo: Hee-jo Kwon Eun-sung: Ja-in Park Byung-eun: Hwi-so Yuna: Ji-su
Dove vederlo: Netflix

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