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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo del cardinale Vincent Benitez, pronunciato in risposta all’invettiva incendiaria di Goffredo Tedesco, è il contrappunto morale e spirituale più importante di Conclave. È la risposta che ribalta il tono dell’intera scena, e in un certo senso, dell’intero film. Dopo il discorso aggressivo e identitario di Tedesco, Benitez non si limita a confutare: sposta l’intero campo del dibattito, portandolo dal terreno della paura a quello della responsabilità individuale e collettiva. È un momento in cui il film abbandona la dialettica del potere per tornare a chiedersi che cos’è davvero la Chiesa — e cosa significa, oggi, servirla.
MINUTAGGIO: 1:36:58-1:38:49
ATTORE: Carlos Diehz
RUOLO: Cardinale Vincent Benitez
DOVE: -
INGLESE
With respect, what do you know about war? I carried out my ministry in the Congo, in Baghdad and Kabul. I've seen the lines of the dead and wounded, Christian and Muslim. When you say we have to fight, what is it you think we're fighting? You think it's those deluded men who had carried out these terrible acts today? No, my brother. They're small and petty. They're only interested in themselves, in Rome, in the election and power. And those things are not the Church. The Church is not tradition. The Church is not the past. The Church is what we do in the future.
ITALIANO
Fratello mio Cardinale, con tutto il rispetto, che ne sa lei della guerra? Io ho portato avanti il mio ministero del Congo, a Bagdad, a Kabul, ho visto le file dei morti e dei feriti, cristiani e musulmani. Quando lei dice: “dobbiamo combattere”, cosa crede che stiamo combattendo? Pensa che siano stati quegli uomini illusi a compiere quelle terribili azioni di oggi? No, fratello mio, la guerra è qui. E’ qui, dentro ognuno di noi tutti. Se cediamo all’odio, e al timore, se parliamo di fazioni, invece di parlare per ogni uomo, e ogni donna. Questa è la mia prima volta che sono in mezzo a voi, e probabilmente sarà l’ultima, e perdonatemi, ma abbiamo dimostrato di essere uomini piccoli e meschini. Interessati solamente si nostri bisogni, a Roma, alle elezioni, e al potere. E queste cose non sono la chiesa. La chiesa non è la tradizione. La Chiesa non è il passato. La Chiesa è quello che faremo da ora in avanti.
Il film Conclave, diretto da Edward Berger e tratto dal romanzo omonimo di Robert Harris, mette in scena uno scenario raramente esplorato nel cinema contemporaneo: le dinamiche interne del potere spirituale e politico all’interno del Vaticano, nel momento di massima tensione che è l’elezione di un nuovo papa. Fin dal prologo — la morte improvvisa di papa Gregorio XVII — il film ci catapulta in una dimensione claustrofobica e altamente ritualizzata, dove l'apparente sacralità dei gesti e delle parole è costantemente attraversata da tensioni, rivalità e segreti.
Il protagonista, il cardinale Thomas Lawrence (interpretato da Ralph Fiennes), è il decano del collegio cardinalizio e si trova nel ruolo scomodo di coordinatore del conclave. A differenza dei candidati ufficiali, Lawrence è un uomo che dubita della propria vocazione e della propria fede: un personaggio che porta dentro di sé una crisi esistenziale, mentre si muove tra equilibri fragili e manovre politiche.
La struttura del film è quasi da thriller politico, ma la posta in gioco non è solo il potere terreno: è anche la visione morale e spirituale della Chiesa nei confronti del mondo contemporaneo. I quattro principali candidati rappresentano infatti posizioni ideologiche molto definite: dalla linea riformista di Bellini, all'intransigenza tradizionalista di Tedesco. Ma ciò che rende Conclave interessante è che queste non sono maschere rigide: il film si prende il tempo per mostrare le crepe e le ambiguità di ciascun personaggio, come accade quando Bellini, pur dichiarandosi progressista, accetta il compromesso pur di evitare l’ascesa di un ultraconservatore.
L’ingresso in scena di Vincent Benitez, cardinale “in pectore”, segna una svolta narrativa forte. È l’elemento estraneo, il corpo non previsto, il personaggio che destabilizza le strategie già avviate. E il fatto che, nel finale, venga eletto papa non è solo un colpo di scena ben costruito: è anche una dichiarazione d’intenti da parte del film. Benitez rappresenta una terza via, non ideologica ma umana. Il suo discorso post-attentato è forse la scena chiave dell’intera pellicola: un monologo vibrante, dove il senso del sacro non è ridotto a dottrina, ma emerge come empatia, esperienza diretta della sofferenza e rifiuto della vendetta.
Il colpo di scena finale — la rivelazione dell’intersessualità di papa Innocenzo XIV — non è trattato con toni scandalistici. È una chiusura delicata, intima, che mette il sigillo su un percorso personale di accettazione e fede, e contemporaneamente apre uno spiraglio di riflessione sulla natura del sacro e sull’umanità dei suoi rappresentanti.
“Che ne sa lei della guerra?” Benitez non parla da teologo, né da stratega: parla da testimone. In poche parole stabilisce una differenza cruciale tra chi teorizza il conflitto e chi ne ha vissuto gli effetti. Il suo non è un attacco personale, ma un richiamo alla realtà: la guerra, per lui, non è un concetto da evocare ma una ferita aperta. Questo gli dà una credibilità immediata e innegabile. “Ho visto le file dei morti e dei feriti, cristiani e musulmani.” Benitez ricorda che il dolore non ha bandiera. È un messaggio profondamente cristiano e insieme profondamente umano: non c’è fede che possa giustificare l’indifferenza verso l’altro.
L’accostamento di cristiani e musulmani è centrale: smonta la narrazione di Tedesco secondo cui il “noi” cristiano è sempre vittima e l’altro sempre nemico.
“La guerra è qui. È qui, dentro ognuno di noi tutti.” Questa frase è il cuore del monologo. Benitez rovescia l’intero discorso del cardinale Tedesco: il nemico non è fuori, ma dentro. È l’odio che coltiviamo, la paura che scegliamo di assecondare, la faziosità che ci fa dimenticare l’altro. È una visione spirituale ma anche estremamente politica, perché chiede a ciascuno di assumersi la responsabilità delle proprie scelte morali. “Se parliamo di fazioni, invece di parlare per ogni uomo, e ogni donna…” Qui Benitez denuncia l’ipocrisia del conclave: si discute di ideologie, ma si dimentica l’essere umano. È una critica diretta e severa, che tocca anche i cardinali presenti. E in questa frase si intravede anche il principio guida del suo pontificato: un’idea di Chiesa che non sia un’arena di potere, ma un rifugio aperto a tutti.
“Abbiamo dimostrato di essere uomini piccoli e meschini.” Benitez si mette dentro il gruppo, non parla contro, ma da dentro. È la forza della confessione condivisa: riconoscere le proprie colpe come corpo ecclesiastico, come comunità. Non salva nessuno, nemmeno sé stesso. E proprio in questo si distingue: nel non voler risultare superiore, ma nel voler cambiare insieme agli altri. “La Chiesa non è la tradizione. La Chiesa non è il passato. La Chiesa è quello che faremo da ora in avanti.” Questo è il punto di svolta. È la frase-manifesto del film. Benitez rifiuta una Chiesa incatenata alla nostalgia o all’identità rigida. Non nega la tradizione, ma rifiuta di viverla come prigione. La Chiesa, secondo lui, è un corpo vivo, che esiste solo nel fare, nell’agire, nel prendersi cura. È un invito a non guardare indietro, ma a scegliere il bene qui e ora, ogni giorno.
Il monologo di Benitez è una delle dichiarazioni di intenti più nette e commoventi del film. Non cerca di vincere un dibattito, ma di cambiare il tono della conversazione. Con parole semplici e dirette, Benitez prende distanza sia dall’odio ideologico che dal cinismo politico, riportando il centro della scena all’essenziale: la dignità umana, la compassione, il coraggio di guardare avanti.
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