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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Clara in Marilyn ha gli occhi neri è un pezzo potente per attori e attrici che vogliono confrontarsi con un testo emotivamente complesso. Tratto dal film del 2021 con Miriam Leone, questo monologo racconta la fragilità di una donna che ha bisogno disperato di essere vista. In questa guida analizziamo struttura, sottotesto, indicazioni interpretative e come prepararlo per un’audizione.
Scheda del monologo
Contesto del film
Testo del monologo (estratto+note)
Analisi: temi, sottotesto e funzione narrativa
Come prepararlo per un'audizione
Finale del film (con spoiler)
FAQ
Credits e dove trovarlo
Durata: 2 minuti 30 sec
“Marilyn ha gli occhi neri” è una commedia drammatica italiana del 2021 diretta da Simone Godano, con protagonisti Stefano Accorsi e Miriam Leone. La storia si sviluppa attorno a un gruppo di persone affette da disturbi psichici che frequentano un centro di riabilitazione diurno. Ma attenzione: niente toni pietistici, né drammi caricati. Il film racconta le fragilità dei suoi protagonisti con uno sguardo insieme ironico, umano e disarmante. I due personaggi centrali sono Diego (Stefano Accorsi), ex chef con un passato traumatico e una rigidità ossessiva nel vivere le regole, e Clara (Miriam Leone), una mitomane compulsiva che mente anche quando non ce n’è bisogno. Entrambi partecipano al laboratorio del centro diretto dallo psichiatra Paris (Thomas Trabacchi), che spinge i suoi pazienti ad aprirsi al mondo, portando “il fuori nel dentro”.
L’idea scatta per caso: Clara pubblica online delle recensioni inventate su un ristorante che non esiste, “Il Monroe”, e questo porta Diego a prendere l'iniziativa: trasformare il centro in un vero ristorante. È un esperimento surreale ma concreto, a metà tra l'inclusione e la follia. A dare una mano ci sono anche gli altri frequentatori del centro, ognuno con la propria ombra e un tratto distintivo che sfiora il grottesco ma senza mai ridicolizzare. Il progetto prende piede. L’insegna è improvvisata, i piatti sono autentici, i clienti arrivano – attirati dalle recensioni o forse da qualcosa di più difficile da descrivere, quella sensazione di verità nascosta dietro l’imperfezione. Ma proprio quando sembra che tutto stia funzionando, il caos arriva. Un bacio, la gelosia, la visita della figlia di Diego, la polizia... la realtà, insomma. E con essa, le conseguenze.
L’idea non è mia e l’ho letta su una rivista di uno che l’aveva fatta a Londra. E anche con mio marito non è andata proprio come ti ho raccontato. No, perché lui lavorava in finanza e non c’era mai. Non c’era mai, non mi si filava proprio. Allora io… mi inventavo un sacco di cose, tipo provini mai fatti, tournee teatrali mai esistite… tutto finto. E… poi un giorno lui è venuto a vedermi a teatro, io ovviamente non c’ero. Allora lui quando è tornato a casa, io gli ho fatto una scenata tremenda, dicendogli che lui mi tradiva con una sua collega. Lo sapevo, ma… volevo solo che mi vedesse un attimo. Un attimo. Lui allora mi ha detto che mi mollava, io gli ho detto… come mi è venuto… “Se tu mi molli io al tre dò fuoco alle tende. Uno, due, tre”. Lui mi guardava con quella faccia, tipo “Dai, dai, fallo!“ Che fai là, che fai? Perché poi non sei più credibile se non lo fai. E io ho dovuto dare fuoco alle tende. Cioè, capito? Però poi non hanno preso fuoco solo le tende. Ha preso fuoco tutta casa, e poi la casa del vicino… il vicino non c’era ma c’era il suo cane che è morto. E’ morto carbonizzato. Io questo sono. Io faccio schifo. Io faccio cacare. E ora è finita la magia. Tu te ne vai, e mi lasci sola.
“L’idea non è mia e l’ho letta su una rivista di uno che l’aveva fatta a Londra.”: tono giustificatorio, quasi leggero; occhi in movimento, come per cercare di minimizzare; pausa breve dopo “non è mia”; tono colloquiale, quasi da pettegolezzo.
“E anche con mio marito non è andata proprio come ti ho raccontato.”: abbassa leggermente la voce; pausa dopo “marito”, come a misurare l'effetto che farà questa ammissione; tono più grave, entra il sottotesto della bugia.
“No, perché lui lavorava in finanza e non c’era mai.”: tono accusatorio trattenuto; spingere leggermente su “non c’era mai”, senza rabbia, più come un dolore che riemerge; sguardo distante.
“Non c’era mai, non mi si filava proprio.”: ripetizione amara, voce che cala, come se si rendesse conto solo ora di quanto la cosa l’abbia ferita; “non mi si filava proprio” va detto senza ironia.
“Allora io… mi inventavo un sacco di cose, tipo provini mai fatti, tournée teatrali mai esistite… tutto finto.”: esitazione su “Allora io…” lì c’è la bambina che cerca di spiegarsi; tono quasi sognante su “provini”, poi si spegne su “tutto finto”; pausa prima dell’ultima frase.
“E… poi un giorno lui è venuto a vedermi a teatro, io ovviamente non c’ero.”: lieve risata nervosa sulla prima parte; “ovviamente non c’ero” va detta con autoironia tragica, un po’ amara, come una farsa che finisce male.
“Allora lui quando è tornato a casa, io gli ho fatto una scenata tremenda, dicendogli che lui mi tradiva con una sua collega.”: ritmo più serrato, come se cercasse di giustificare l’ingiustificabile; tono acceso ma non isterico, è una rievocazione, non un’esplosione.
“Lo sapevo, ma… volevo solo che mi vedesse un attimo. Un attimo.”: “Lo sapevo” va detto piano, quasi tra sé; poi pausa profonda prima di “volevo solo”; “un attimo” va ripetuto più piano, con implorazione — lì c’è il cuore del monologo.
“Lui allora mi ha detto che mi mollava, io gli ho detto… come mi è venuto… ‘Se tu mi molli io al tre dò fuoco alle tende.’”: tono più acceso, quasi isterico, ma con vergogna che inizia a salire; “come mi è venuto” va detto in modo trafelato, senza pensarci; “al tre dò fuoco alle tende” va detto come se fosse una frase detta in trance.
“Uno, due, tre.”: secco, cadenzato; guardare negli occhi l’interlocutore o il vuoto; ritmo crescente ma controllato; segna la soglia della follia.
“Lui mi guardava con quella faccia, tipo ‘Dai, dai, fallo!’”: tono imita quello dell’ex marito, ma senza fare la caricatura; qui Clara sta raccontando come si è sentita provocata; non giudicare il personaggio.
“Che fai là, che fai?”: battuta doppia, quasi parlata tra sé e lui; intonazione più bassa, come se stesse chiedendosi davvero “Che cazzo sto facendo?”
“Perché poi non sei più credibile se non lo fai.”: pausa prima di iniziare la frase, tono lucido, quasi filosofico; questa è la logica di Clara, va detta con convinzione disturbante.
“E io ho dovuto dare fuoco alle tende. Cioè, capito?”: tono piatto, privo di emotività; non spingere, anzi, la tragedia deve essere raccontata con un tono quasi da chiacchiera casuale.
“Però poi non hanno preso fuoco solo le tende.”: abbassare la voce; pausa dopo “però”, lascia entrare l’irreparabile; comincia la caduta.
“Ha preso fuoco tutta casa, e poi la casa del vicino…”: ritmo più lento, come se la mente vedesse le fiamme; accentuare “tutta casa”, ma senza teatralità.
“Il vicino non c’era ma c’era il suo cane che è morto.”: voce bassa; non commuoversi, lasciar uscire la frase come fosse ormai assorbita nel senso di colpa.
“È morto carbonizzato.”: detta secca, non enfatizzare; stacco emotivo forte, come se si stesse dissociando dal racconto.
“Io questo sono.”: tono rassegnato, sguardo fisso, nessun crescendo, va detto in tono neutro.
“Io faccio schifo.”: prima pausa netta, poi dirlo quasi senza voce; non autocommiserazione, solo presa d’atto.
“Io faccio cacare.”: tono più disperato, ma ancora trattenuto; si sente che sta cercando di farsi male da sola.
“E ora è finita la magia.”: tono svuotato, sospensione sul “magia”, come se fosse un incantesimo spezzato.
“Tu te ne vai, e mi lasci sola.”: guardare fisso, non implorare, la voce si incrina solo alla fine; chiusura emotiva forte, ma mai gridata.
Il monologo di Clara, interpretato da Miriam Leone nel film Marilyn ha gli occhi neri (2021), rappresenta uno dei momenti più intensi e del personaggio, un’esplosione di verità distorta, un tentativo disperato di essere vista e amata, anche a costo della distruzione. Clara è una mitomane. Vive di bugie, o meglio: trasforma la realtà in un racconto continuamente riscritto. Mente per sopravvivere, per attirare l’attenzione, per non affrontare il vuoto dell’indifferenza. Nel suo monologo, Clara racconta un episodio che segna il confine tra il ridicolo e il tragico. Parla di un gesto estremo, irrazionale, nato dal bisogno disperato di essere riconosciuta dal marito che la ignorava. È in questo racconto che si condensa tutto il suo mondo: la finzione, l’impulso, il senso di colpa, la vergogna.
Nel monologo, Clara confessa un fatto gravissimo: per attirare l’attenzione del marito, minaccia di dare fuoco alle tende. Quando lui la provoca, lei lo fa davvero. Ma non si limita alle tende: l’incendio si espande, distrugge l’appartamento, coinvolge quello del vicino e provoca anche la morte del cane. Questa confessione non è esposta con pathos teatrale. Clara la racconta in modo confuso, oscillando tra ironia, vergogna e una strana lucidità. Sembra quasi voler banalizzare il dolore, per non affondare dentro di esso.
Clara vive in una narrazione fittizia. Il teatro, i provini inventati, la sceneggiata contro il marito: sono tutti strumenti per creare una versione di sé accettabile, affascinante, visibile. La frase “volevo solo che mi vedesse un attimo” è la chiave del monologo. Tutto ruota intorno al bisogno di attenzione, alla paura di non esistere senza lo sguardo dell’altro.
Il gesto estremo – dare fuoco alle tende – è un esempio perfetto di come Clara distrugga tutto ciò che potrebbe avvicinarla agli altri. La sua rabbia non è mai solo esterna: è autodiretta, spietata. Nel finale del monologo, Clara si definisce con durezza: “Io faccio schifo. Io faccio cacare.” È qui che emerge il suo bisogno inconscio di punizione. Non cerca redenzione, ma conferma della sua indegnità.
All’interno del film Marilyn ha gli occhi neri, il monologo arriva in un momento chiave: è il punto in cui Clara smette di mentire (forse) e si espone completamente. Non c’è più la maschera, non c’è più la “magia” del gioco di ruolo. Solo il disastro che si è lasciata dietro, e la paura – terribile – di restare da sola.
Vuole solo dire: “Questo sono io. Guardami.”
Obiettivo del monologo Essere vista. Clara racconta la storia non per giustificarsi, ma per testare l’interlocutore. Sta mettendo sul tavolo la parte peggiore di sé, chiedendo implicitamente: “Ora che sai tutto… rimani?”
Sottotesto (cosa sta dicendo davvero) “Non sono normale, ma non significa che non valgo.” “So di aver fatto qualcosa di irreparabile, ma non riesco a smettere di voler bene.” “Dimmi che non scappi anche tu.” “Fammi sentire reale.”
Azione minima
Trattiene. È facile voler “mostrare” la fragilità, o esplodere troppo presto. Ma Clara trattiene tutto finché non può più. L’azione giusta è stare in equilibrio tra il voler esplodere e il tentare disperatamente di restare lucida.
Dinamica vocale
Inizio: voce colloquiale, quasi difensiva. Tono “da chiacchiera”.
Sviluppo: ritmo irregolare, inciampi, pause improvvise. Frasi che escono più veloci del pensiero.
Crescita: piccoli picchi emotivi contenuti. La voce trema senza piangere.
Finale: si abbassa tutto. Tono scarico, respiro pesante, quasi senza forza. Non c’è patetismo, solo stanchezza emotiva.
Chiusa: La battuta “Tu te ne vai, e mi lasci sola” è la porta che si chiude. Qui non serve un crescendo. Non si deve implorare. Deve sembrare che Clara abbia ormai accettato che l’altro la lascerà. Ma in quel silenzio, in quello sguardo, resta un filo di speranza. Chiudi con lo sguardo fermo.
Errori comuni
Esagerare il tono drammatico: non è un monologo da “mostrare la pazzia”. Il rischio è scivolare nel caricaturale.
Recitare la rabbia: Clara non è arrabbiata. È disperata. E la disperazione vera non urla, implora.
Accelerare troppo: c’è bisogno di respiri, di silenzi. Ogni pausa contiene un pensiero che non si può dire.
Colpire senza ascoltare: spesso si recita il monologo come se fosse un flusso verso l’esterno. Ma qui c’è un interlocutore. Va guardato. Anche se è immaginario, va sentito.
Il finale di Marilyn ha gli occhi neri è la parte più “silenziosa” e forse la più autentica del film. Dopo il crollo dell’esperimento del ristorante e il breve arresto, Clara viene allontanata dal centro, mentre Diego riceve offerte lavorative da veri ristoranti. Potrebbe tornare nel giro, ricostruire una vita “normale”. Ma qualcosa gli manca. Quello che gli manca è proprio Clara. O meglio: è lo sguardo che Clara aveva su di lui. In un mondo dove tutti lo giudicano per le sue nevrosi e la sua incapacità di gestire le relazioni, Clara è l’unica che lo ha visto davvero – e lo ha accettato. Nonostante (o forse proprio attraverso) le sue bugie.
Diego allora la cerca. E le confessa il suo amore.
Il film non chiude le storie con un fiocco. Non sappiamo cosa succederà dopo. Non c’è un ristorante da salvare, né una figlia da riconquistare. C’è solo questo momento: due persone che, per una volta, scelgono di non scappare da se stesse.
Quanto dura il monologo di Clara? Circa 2 minuti e mezzo. La durata può variare in base al ritmo e alle pause scelte.
Quali temi tratta il monologo? Il monologo affronta temi come: bugia come meccanismo di difesa. Bisogno disperato di attenzione. Autosabotaggio. Senso di colpa e punizione. Fragilità psichica non patologizzata
Che tipo di interpretazione richiede? Un'interpretazione in sottrazione, con una gestione attenta del respiro e delle pause. Non è un testo da “gridare”, ma da scivolare sotto la pelle. Richiede sensibilità più che enfasi.
Quali sono gli errori da evitare? Recitare con toni eccessivamente teatrali. Forzare la disperazione con pianto o urla. Non lasciare spazio alle pause e ai silenzi. Dimenticare che Clara sta parlando a qualcuno
Regista: Simone Gordano
Produttore: Matteo Rovere
Cast principale: Stefano Accorsi (Diego) Miriam Leone (Clara Pagani) Thomas Trabacchi (Paris)
Dove vederlo: RaiPlay
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