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~ LA REDAZIONE DI RC
Questo monologo arriva nella parte finale di Supereroi, quando le maschere dei personaggi iniziano a calare e il film si permette di essere più esplicito, più emotivo. Elena, che nel primo monologo ci aveva raccontato con sarcasmo la sua relazione disastrosa col concetto di errore, qui si confronta con un altro grande tema: la maternità.
Ma, come nel primo caso, lo fa a modo suo: prendendola larga, prendendola in giro, rovesciandola. Niente retorica materna, niente stereotipi sulla "mamma perfetta". Solo un flusso di parole che, dietro le battute, svela una verità molto più complessa: quella del legame madre-figlia come relazione in continua trasformazione, e forse anche come lutto permanente.
MINUTAGGIO: 1:46:00-1:47:31
RUOLO: Elena
ATTRICE: Elena Sofia Ricci
DOVE: Apple TV
ITALIANO
Io volevo una figlia unica. Poi ho scoperto che le figlie uniche non esistono, perché ogni figlia ne ha dentro di se un’altra, poi un’altra, poi un’altra ancora… tipo le matrioske. E sapete cosa fanno alla fine? Ti abbandonano. Tutte. Tu ti affezioni a quella nanetta di tre anni, che ti si ficca nel letto con i piedi freddi gelati… e poi dopo un pò quella cresce e se ne va. E ne arriva un’altra. Di sei anni. Che viene da te per farsi pettinare i capelli. Poi dopo un pò puff, sparisce anche lei. E arriva… la dodicenne. E son cazzi lì. Quella che ti frega i trucchi, i vestiti, però dorme ancora con il coniglietto di quando aveva sei mesi. Poi passa qualche anno e ti chiama solo per chiederti i tampax. E allora per sopravvivere l’unica cosa che puoi fare è abbandonarle te, tutte. Prima che lo facciano loro. Ma senza saperlo le hai fatto il più bel regalo che potessi farle. Si perché, avere una madre stronza, ha dei grandi vantaggi. Avete presente quella frase: “Cerca di essere una madre migliore di me”, no? Ecco, per mia figlia sarà facilissimo. Andrà tutto bene, vedrai.
"Supereroi" non è un film che racconta solo una storia d'amore. È una riflessione su quanto sia difficile che quella storia duri. Sul tempo che logora, mette alla prova, scava, ma che, se resistito, può diventare la vera misura di un legame. Paolo Genovese prende due personaggi apparentemente agli antipodi e li butta nella mischia dell'esistenza: Anna e Marco. Lei, disegnatrice di fumetti, impulsiva, emotiva, caotica. Lui, professore di fisica, razionale, quasi distaccato, affezionato all’idea che tutto abbia una spiegazione logica. Ed è proprio da questa antitesi che parte il racconto. La scena d’apertura – Milano, una pioggia improvvisa, due sconosciuti che si riparano sotto lo stesso portico – è un classico innesco romantico. Ma subito dopo, Genovese gioca al contrario. Il film non prosegue in linea retta, non ci racconta "come va a finire", perché il punto non è quello. La narrazione si frantuma volutamente, alternando passato e presente, illudendoci di capire il futuro dei personaggi per poi spiazzarci con un ricordo, un flashback, un dialogo lasciato a metà. E questo meccanismo di montaggio discontinuo non è solo uno stile narrativo: è un riflesso diretto di come ricordiamo le relazioni, con salti emotivi e ritorni confusi.
Jasmine Trinca e Alessandro Borghi prestano i volti (e i corpi, nel senso che invecchiano, ingrassano, si trascurano, si riprendono) a due personaggi che si cercano e si respingono per oltre vent’anni. Il tempo è infatti il vero terzo protagonista della storia. E non si limita a passare: modella i volti, consuma i gesti, cambia la qualità dei silenzi.
Anna disegna supereroi, ma lo fa con la consapevolezza che nella realtà il vero superpotere è la durata. È lì che il titolo del film prende forma: non c’è niente di epico o spettacolare, niente mantelli o nemici da sconfiggere. I veri supereroi sono quelli che non mollano, che restano. Che scelgono di esserci anche quando non è semplice, quando l’amore non basta a spiegare una convivenza, quando le parole non funzionano più. E qui, il film dice qualcosa di profondo: l’amore non è un picco, è una curva lunga, fatta di ricadute e risalite.
Genovese costruisce "Supereroi" come un album fotografico, disseminato tra città diverse – Milano, Marrakech, Copenhagen, Lucca, Ponza – ognuna delle quali sembra rappresentare una fase emotiva. Una fuga, un ritorno, un confronto, una promessa. C’è l’illusione del viaggio, ma è un movimento interno, un andare avanti e indietro tra versioni diverse di sé.
"Io volevo una figlia unica. Poi ho scoperto che le figlie uniche non esistono, perché ogni figlia ne ha dentro di sé un’altra..." L’idea delle matrioske è una metafora brillante, semplice e devastante allo stesso tempo. Elena sta dicendo una cosa precisa: i figli non sono mai fermi, non restano mai quelli che amiamo. Cambiano. Crescono. E ogni nuova versione ne cancella una precedente. È un lutto lento e costante.
"Ti affezioni a quella nanetta di tre anni… e poi puff, sparisce." La comicità nasce dal linguaggio quotidiano, spinto all’estremo: “nanetta”, “puff”, “son cazzi lì”. Il tono è da stand-up, ma il contenuto è quasi esistenziale. Elena sta dicendo che ogni età della figlia è una persona diversa. E ogni volta che arriva la nuova, quella di prima se n’è già andata. Il tempo, ancora una volta, è il vero avversario.
Poi si arriva al cuore del monologo: "E allora per sopravvivere l’unica cosa che puoi fare è abbandonarle te, tutte. Prima che lo facciano loro." Qui la battuta smette quasi di essere divertente. È un'ammissione di paura, di autodifesa. Elena non ce la fa a reggere l’idea di essere lasciata, e allora si gioca d’anticipo. Taglia lei il legame. Ma è un gesto che, paradossalmente, libera sua figlia: "Avere una madre stronza, ha dei grandi vantaggi..."
Questa frase è il fulcro narrativo del pezzo. Elena si autodichiara “stronza”, ma lo fa per alleggerire il peso della madre ideale. In un mondo dove la maternità è spesso rappresentata come sacrificio, dolcezza, onnipresenza, lei si tira indietro. Ma proprio così facendo, dice, offre a sua figlia la possibilità di essere libera, di non doverle assomigliare, di essere "migliore" senza troppa fatica.
Il suo modo di essere madre – imperfetta, distante, sarcastica – diventa, in un certo senso, una forma di amore protettiva. Le toglie il peso del modello, la libera dal doverla replicare. Elena non è la madre che dice "sii come me", ma quella che – tra una battuta e l’altra – dice: “sii diversa, fallo meglio di me”. E lo fa con quella frase che chiude il monologo:
"Andrà tutto bene, vedrai."
Una frase che ha il sapore di una carezza nascosta sotto una corazza. Forse non è una promessa. Forse è solo un desiderio. Ma in quel momento, detta da lei, è tutto quello che una figlia può sperare di sentirsi dire.
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