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~ LA REDAZIONE DI RC
Il monologo di Peyton in Gli alberi della pace è un momento di confessione che svela una ferita profonda, un peso che la protagonista porta con sé e che sembra impossibile da alleviare. In un contesto di sopravvivenza forzata, dove ogni donna nasconde traumi e segreti, Peyton apre una finestra sulla sua storia personale, che nulla ha a che fare con il genocidio in corso, ma che ha comunque segnato la sua esistenza in modo irreversibile.
MINUTAGGIO: 37:58-39:50
RUOLO: Peyton
ATTRICE: Ella Cannon
DOVE: Netflix
ITALIANO
Vorrei tanto immaginare che questo sia vero per ogni figlio, ma… certi figli fanno troppi casini, alla fine non ci sono più possibilità. E’ come se l’amore non li trovasse più. Ho ucciso mio fratello. Quattro anni fa. I miei genitori erano fuori con i colleghi e… Caleb voleva vedere i Ghostbusters, così gli ho detto che lo avrei portato al videonoleggio se avesse ripulito il mio schifo, e buttato le mie bottiglie di birra nella spazzatura. E lui lo fece. Lo fece, perché non voleva che… mi cacciassero di nuovo di casa. Non avrei dovuto guidare, non capivo quanto fossi ubriaca e… su questo sono tutti d’accordo. Non doveva succedere a Caleb. E da allora… Qualche volta ho provato a… liberarli per sempre della mia presenza. Ma… sono ancora qui.
"Gli alberi della pace" (titolo originale Trees of Peace) è un film del 2021 diretto da Alanna Brown. La pellicola è ambientata durante il genocidio del Ruanda del 1994 e segue la storia di quattro donne di diversa estrazione sociale e culturale, costrette a nascondersi insieme per sopravvivere alla violenza che sta devastando il Paese.
Siamo nel Ruanda del 1994, durante uno dei massacri più sanguinosi della storia contemporanea. La tensione nel Paese è alle stelle e il conflitto tra Hutu e Tutsi ha già raggiunto livelli di violenza estremi. In questo contesto, quattro donne si ritrovano intrappolate in un piccolo spazio nascosto sotto il pavimento di una casa.
Le protagoniste provengono da esperienze molto diverse:
Annick è una giovane tutsi il cui mondo viene distrutto dall’improvvisa esplosione di violenza.
Jeanette è una suora cattolica, alle prese con una crisi di fede mentre cerca di sopravvivere all'orrore.
Peyton è un’americana venuta in Ruanda per aiutare la popolazione, che si ritrova intrappolata nel conflitto senza via d’uscita.
Mutesi è una donna del posto, abituata alle difficoltà della vita, ma mai a qualcosa di così brutale.
Le quattro donne, seppur provenienti da mondi diversi, sono costrette a convivere in uno spazio ridottissimo per settimane, lottando contro la fame, la paura e la disperazione. Durante la loro prigionia forzata, emergono conflitti personali e differenze culturali, ma anche momenti di solidarietà e speranza.
Il film si concentra sul modo in cui queste donne affrontano la loro condizione, trovando forza l'una nell'altra nonostante le differenze. Fuori dal loro rifugio, la guerra continua a mietere vittime, ma all'interno di quel piccolo nascondiglio, il legame tra loro diventa la loro unica arma per resistere.
Il discorso di Peyton è strutturato come un flusso di coscienza, con frasi spezzate e ripetizioni che riflettono la difficoltà di verbalizzare un dolore così grande. L’inizio è quasi filosofico: “Vorrei tanto immaginare che questo sia vero per ogni figlio, ma… certi figli fanno troppi casini, alla fine non ci sono più possibilità. È come se l’amore non li trovasse più.” Qui Peyton esprime un’idea devastante: che esista un punto di non ritorno, oltre il quale si diventa indegni d’amore. Poi, il discorso diventa più concreto e personale: “Ho ucciso mio fratello. Quattro anni fa.” La frase arriva secca, senza giri di parole, come se il peso della verità non lasciasse spazio a mitigazioni.
Raccontando l’accaduto, Peyton rivela il senso di responsabilità che si porta dietro: il fatto che Caleb abbia accettato di buttare via le sue bottiglie di birra per paura che lei venisse cacciata di casa sottolinea il rapporto di dipendenza e protezione invertita tra i due. Peyton era la sorella maggiore, eppure è lui a cercare di salvarla, pagando il prezzo più alto.
Il momento in cui ammette di aver guidato ubriaca è accompagnato da una consapevolezza tardiva: “Non capivo quanto fossi ubriaca e… su questo sono tutti d’accordo. Non doveva succedere a Caleb.” Qui Peyton sembra quasi cercare una conferma esterna, una sentenza definitiva su quanto accaduto. Non cerca giustificazioni, ma è chiaro che il giudizio degli altri ha contribuito a plasmare il suo senso di colpa.
Il monologo si conclude con una rivelazione ancora più intima: “Qualche volta ho provato a… liberarli per sempre della mia presenza. Ma… sono ancora qui.” La sopravvivenza, in questo caso, non è un sollievo, ma un’ulteriore condanna. Peyton sente di non avere più un posto nel mondo, e il fatto di essere ancora viva sembra un’ingiustizia in sé.
Il monologo di Peyton è un momento di grande vulnerabilità, che la avvicina ancora di più alle altre donne con cui è intrappolata. Anche se il suo dolore non è legato direttamente al genocidio in corso, il suo senso di colpa e il desiderio di espiazione trovano un'eco nelle sofferenze collettive del film. Il fatto che Peyton si apra su questo trauma suggerisce che, anche nelle situazioni più disperate, il bisogno di condividere il dolore resta fondamentale per la sopravvivenza emotiva.
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